Lettera a Geppetto

 

Caro Geppetto,

oggi compi un anno e non ti vedo da oltre quattro mesi e si che ci sono i video e le video chiamate ma no che non è lo stesso. E no che non ti chiami per davvero Geppetto, cioè non è quello il tuo nome ma io ti ci chiamo per davvero perché tanto i nomi propri, quelli attribuiti all’anagrafe, qui vengono spesso disattesi se non dimenticati e poi perché ci vengono un sacco di rime: Geppetto berretto, Geppetto scalzetto, Geppetto bagnetto, Geppetto furbetto.

Non c’entra la storia di Pinocchio, anche perché avrei dovuto chiamare tuo padre Geppetto, non te, per la forza con cui ti ha voluto nonostante e dopo il nonostante metto il punto. Nonostante. Poi, a me, la storia di Pinocchio nemmeno piace, non so, la trovo affollata.

Ho saputo del tuo arrivo mentre controllavo che i collant neri velati non avessero difetti, infilando le scarpe con il tacco, seduta sul bordo del letto con il cellulare buttato tra i cuscini, a Rimini, pochi minuti prima di accompagnare mio marito alla premiazione per i suoi venticinque anni di attività. Eravamo tutti tirati a lucido, Cri, Pepe, anche il cagnetto che però è rimasto in stanza. Avevo i capelli troppo corti e il ciclo, l’abito mi stava molto bene, gli organizzatori hanno voluto che salissimo anche noi sul palco, accanto a lui, eravamo orgogliose ed emozionate e io sapevo che tu eri in viaggio, nessuno lo immaginava, a nessuno magari importava. Era un segreto tra me e tuo padre, come milioni di altre volte prima di quella sera. Lui lo sapeva, io lo sapevo, tu c’eri già perché per esserci basta che qualcuno sappia che ci sei. Noi lo sapevamo e ci importava. E ho mandato un messaggio, un cuore credo, a tuo padre quello che non è mio fratello.

Non so come sia avere due padri, Geppetto. So com’è averne uno grande, ingombrante a volte, cercare di smarcarti e non riuscirci. E so com’è avere una madre come la mia e com’è essere una madre diversa dalla mia e com’è fare la madre e diventare madre e come tutte queste cose non sempre convivano. Non so nemmeno com’è essere maschio. Sono felice che tu lo sia perché penso sia più semplice e poi perché ho scoperto, sorprendendomi, che in fondo in fondo ma nemmeno troppo, mi piace che porti in giro il mio cognome. Che pensieri di un’altra generazione, lo so. Quanto poco progressismo in questa mia consapevolezza celata ai più, è vero. E se non esistessero pensieri generazionali ma pensieri umani? E se non esistessero sentimenti legati a un contesto storico ma sentimenti umani? E se questo mio andare fiera del tuo doppio cognome dove leggo anche il mio fosse solo una banale cosa umana? Tienitelo per te, comunque. Mi piace, mi piace sapere che questo cognome così difficile da leggere correttamente, per gli idioti Geppetto perché ti assicuro che due vocali successive mettono in crisi solo gli idioti, passi a te e che te lo porterai a spasso per il mondo. È il cognome di mio nonno, un uomo che mi diceva spesso che aveva fatto la guerra lui e che non aveva mai avuto paura di morire perché in quel momento non aveva niente da perdere. A vent’anni, Geppetto. A vent’anni non aveva niente da perdere, diceva e gli credevo perché quello che non voleva perdere è arrivato dopo, quando è tornato dopo aver imparato a fare il genio guastatore, a fare le iniezioni, con le stesse mani smisurate sai, quelle stesse mani sapevano fare cose così diverse, a dormire in un cimitero scattandosi una foto con un teschio in mano, a dire ti amo in una qualche lingua slava. È arrivato dopo, quando ha preso il demone che lo abitava e lo ha ridotto al silenzio, che estirparlo non poteva, che estirparli certi demoni non si può, Geppetto, viene giù tutto, sono strutturali per alcuni di noi e allora ti ci organizzi intorno, ci firmi la pace. Gli credevo perché quando ho avuto vent’anni nemmeno io avevo paura di morire, nemmeno io avevo niente da perdere. A lui il nostro cognome piaceva moltissimo, quando è nato tuo padre, primo nipote maschio si è gonfiato come un gallo cedrone, sentiva di aver dato il suo contributo ancora per un po’, sperava di avere qualcosa da perdere. Era certo che nel futuro anche le donne avrebbero potuto dare il proprio cognome ai figli e gli sembrava una cosa giusta, ma solo riferita a me e al nostro cognome. Gli altri, quelli senza cognome paterno erano inseriti tra i “figli di zoccola”. Non sono certa che avrebbe capito la vicenda dei due padri ma sono sicura che avrebbe trovato l’eccezione alle sue regole, perché si trattava di stare dalla parte di tuo padre e lui era, comunque, un partigiano.

 

Ho cresciuto le mie ragazze ripetendo allo sfinimento “denti unghie e capelli”. In questo ordine, sempre, mattina e sera, prima di uscire, anche se non si deve uscire, dopo la colazione, prima di dormire. Ecco, se dovessi darti un primo suggerimento partirei da questo. Lavati i denti, pulisci le unghie e tieni in ordine i capelli. Non farci casini, se saranno ricci lasciali ricci, se saranno lisci tienili lisci, davvero. Non ti intestardire sulla natura dei capelli perché è una battaglia persa in partenza. Non li colorare, decolorare, rasare con creste folli, sfumare con rasature sui lati, oppure fallo ma non mandarmi foto, oppure mandamele ma preparati al mio commento oppure fottitene del mio commento e fai come ti pare, tanto i capelli sono i tuoi. Non rosicchiarti le unghie, le mani di chi lo fa sono brutte e le mani uno pensa che siano la nostra periferia e così le tratta, ma sono le periferie a raccontare di noi, delle nostre abitudini, di come viviamo, dell’età che abbiamo più di quella che dimostriamo. Le mani non mentono, la voce mente, la postura inganna, a volte, nei più abili, anche lo sguardo può essere bugiardo. Ma le mani no, Geppetto, quando ti guardi le mani sai chi sei, come qualche mese fa quando te le passavi, incredulo, davanti agli occhi e le avvicinavi più che potevi e ne restavi incantato e poi le infilavi a pugno in bocca. I denti sono fondamentali, se puoi non fumare, non mangiare schifezze, non attaccarci diamantini che non sei una rockstar e se invece diventi una rockstar, scusa. Fai pure.

 

Sogna di diventare chi vuoi: pompiere, musicista, chef, medico, commesso in un negozio di scarpe, informatico, autista del bus, ballerino, giocatore di polo. Se vorrai, raccontami di tutte le vite possibili che avrai davanti, di ogni speranza. Non chiedere agli altri cosa puoi diventare, lo sai solo tu e lo saprai molto presto, siamo animali strani, Geppetto, sappiamo di noi fin da subito tutto quel che conta davvero e poi ce ne dimentichiamo e iniziamo a vagare cercando di ricordare quello per cui sapevamo di essere vivi, chiediamo in giro se qualcuno sa e allora quelli che interpelliamo ci danno le indicazioni e a volte pensiamo di aver capito e invece no. Il più delle volte le indicazioni sono sbagliate, le abbiamo chieste a chi non è di quella zona e andiamo fuori strada, tocca accostare e a volte quando sei lì, fermo, con le quattro frecce che segnali agli altri di fare attenzione, qualcuno passa e ti suona come se fosse colpa tua aver accostato, come se non gli stessi dicendo di evitarti e proseguire. Quelli facilmente sono gli idioti che vanno in crisi per due vocali successive. Poi capita che qualcuno si fermi e ti chieda sei hai bisogno. Quelli facilmente non ti diranno dove devi andare ma ti metteranno a disposizione un telefono o ti indicheranno la stazione di servizio più vicina, un baretto dove si mangia bene e, alla peggio, aspetteranno insieme a te che arrivino i soccorsi.

 

Cerca di essere chi sei, ti ci vorrà tempo per capirlo ma il senso del gioco è quello, penso. La vita non è lunga o corta, è solo veloce, mannaggia a lei. Prima inizi meglio è, non so come si fa, sto ancora giocando anche perché ho iniziato tardi, ovviamente. Nessuno mi aveva detto che andava così, per molto tempo mi hanno detto tutto quello che non ero e mi sono trasformata nella sedia in camera di Cri, sotterrata da vestiti sporchi e puliti, autunnali ed estivi, pantaloni del karategi e camicetta bianca come se fossero un abbinamento, tutti buttati lì, sulla sedia inutilizzabile come sedia e non adatta come armadio. Mi ci sono voluti anni per buttare a terra gli abiti e riscoprire il colore che avevo sotto quella montagna di roba che mi avevano riversato addosso. Quindi, se puoi, inizia. È utile quel che non ti piace più di quello che ti piace, almeno per me è utile, capirmi per sottrazione, fai attenzione a chi non ti piace, a quel che non ti piace, senza per forza voler capire il motivo, non è detto che ci sia, non è detto che sia utile conoscerlo. A me non piacciono alcune persone che sono sempre la stessa persona ma in corpi diversi. Ho dovuto capirlo e poi imparare a tenerli distanti, perché mi irrita troppo averli vicini e mi fa male, mi faccio male da sola e questo è folle. Se riuscirai a sapere chi sei cerca di esserti fedele, non tradirti con una versione di te più conveniente, non ne vale mai la pena. E poi abbi fede. E non sto parlando di Dio. Sto parlando di te, di avere fede in te stesso, di crederti e rispettarti. Fedeltà e fede. Non so come si dica in inglese, perdonami. Però senti come suonano vicine? Un idiota potrebbe pensare che siano la stessa cosa, invece no, Geppetto, ma se ti riesce portale a braccetto. Tanti anni fa tuo padre mi regalò un braccialetto con la scritta Truth&Hope, intendeva la stessa cosa penso, ma siccome lui sa che io a braccetto non porto niente e nessuno ha pensato bene di far leva sulla mia vanità, perché invece al braccio porto di tutto.

Ti capiterà di deludere qualcuno. Penso sia un’esperienza molto dolorosa però non conosco nessuno che non ci sia passato e quindi credo che sia una cosa così profondamente umana che è meglio saperlo. Si delude, si soffre e si vive lo stesso. Dopo un po’ passa, come tutto. Ti capiterà anche di essere deluso e fa malissimo anche quello, perché ci delude sempre e solo qualcuno che ci è molto vicino, altrimenti non è delusione e non è nulla in realtà. Quando ero ragazza, diciassette anni, al liceo avevamo tradotto un frammento di Saffo che recitava “perché sono coloro che amo di più che mi fanno il male peggiore”. Una folgorazione. Sono coloro a cui vogliamo bene i soli ai quali permettiamo di avvicinarsi fino al punto di farci, anche, male. Gli altri non sono mai così vicini. Non significa che devi evitarlo o non avere nessuno accanto o non amare, anzi, significa il contrario. Ama ma sappi che c’è anche questo, nell’amore. E più ami e più c’è. Ama, ma sappi cosa stai facendo. Io avevo pensato con dolore a quel giovane uomo che mi aveva lasciata spezzandomi il cuore in mille frammenti ed era andato via senza nemmeno raccogliere i cocci, pezzetti affilati che prendevo da terra e recitavano maledizioni, i resti di quel cuore che prima era colmo di poesie ora li raccoglievo incisi di dolore. Con uno di quei frammenti l’ho ferito e lui ha lasciato che lo facessi. Non avrebbe dovuto, Geppetto, non avrebbe dovuto permettermelo e invece si sentiva talmente male e talmente in colpa che mi aveva permesso di scagliarmi contro di lui armata di uno spuntone di cuore per fargli altrettanto male. È finita che il mio male dopo era tutto lì, inzuppato di rabbia e perciò gonfio e ingombrante e pesante, lui non poteva fare altro che andare perché quello aveva deciso e non avrebbe cambiato idea. Non meritava il mio attacco non nel senso che non lo valeva ma nel senso che non era giusto fargli male perché io avevo male o perché lui me ne aveva fatto, quel male lì purtroppo non è mai al portatore e questo prima lo impari meglio è, soprattutto come giovane uomo, Geppetto mio bello. Non permettere a nessuno di tentare di scaricare, abusivamente, il proprio dolore su di te, nemmeno se te ne senti responsabile, nemmeno se lo sei, perché non è giusto, perché se sei responsabile pagherai per conto tuo la tua delusione. Imparare ad andare via senza farsi male è difficile, ma non impossibile. E poi quel frammento mi aveva fatto pensare a mia madre, alla mia famiglia e per quel pensiero ho pianto moltissimo in vita mia.

 

Adesso veniamo a noi, nel senso di io e te. Dunque. Caro Geppetto a me non piacciono i bambini e questo comunque si risolve in fretta perché si è bambini per poco considerando la lunghezza media di una vita. Ti diranno che preferisco i cani alle persone. Più invecchio più è vero, quindi finché cammini a quattro zampe non dovresti avere problemi a incuriosirmi. Non parlo inglese che è la lingua nella quale tu sei immerso, ci capiremo a gesti per un po’, finché non stenterai con l’italiano accentato londinese e io ti correggerò perché quello è un vezzo che non mollo, anzi. Non credo per niente alle relazioni familiari, alle parentele, ai legami che se sbagli l’accento ti trovi legato per tua stessa richiesta, no grazie. Ho quattro zii e ne frequento solo una, l’unica che mi piace anche se da lei ho preso la forma del naso, non dovrebbe essere legale. Non so cosa fanno gli zii, cosa prevede il ruolo di zia. Io che procedo sempre per sottrazioni sono arrivata a ipotizzare l’inutilità ontologica della figura ziesca. I miei amici figli di figli unici non hanno zii e vivono benissimo, non hanno difetti o problemi e se la cavano meglio con le feste comandate rispetto a me che da bambina le temevo e adesso le detesto. Io spero di piacerti, non hai il mio naso, piacerti e basta, se accadrà, chiamami come ti pare, zia, auntie, Sonia, non importa, ma chiamami solo se ti va. Poi c’è la questione dell’occuparsi di te, che stai con i tuoi papà a Londra bello beato nella vaschetta con le bolle, sul tappeto igienizzato e pulitissimo tra giochi e musica e stimoli adeguati, con il menu studiato nei dettagli e cucinato con materie prime genuine, con Alexa come fata madrina pronta a realizzare le richieste e non sai, un po’ perché sei piccolo e un po’ perché non sono cose che si dicono ma io sono sempre quella che se c’è qualcosa da non dire tranquillo lo dico, che agli adulti prende un’ansia strana all’altezza dello sterno, sopra la bocca dello stomaco, una stretta al centro del petto quando pensano, e lo pensano, alla propria morte improvvisa ora che sono genitori. Ora che hanno qualcosa da perdere. I più bravi gestiscono queste sensazioni, e quelli sono i fighi. I meno bravi si spalmano come nuance di colore partendo dai negazionisti, quelli che non può succedere e basandosi sul nulla allontanano il pensiero come un amaro calice fino ad arrivare a quelli che si sdraiano sul lettino dello psicanalista perché non usano nemmeno più l’ascensore e questi non sono per niente fighi. Ti lascio scoprire io, da genitore, dove mi colloco.

I tuoi papà non vanno esenti da questi pensieri, nessuno ci va. Secondo me uno dei due è un figo. L’altro, purtroppo per lui, è mio fratello.

E io e mio fratello parliamo, soprattutto quando nessuno ci sente, abitudine che ci portiamo dietro da tempi remoti, fatti di letti vicini e spazi contesi, di ripicche e insulti, di spalle coperte, di spalle in appoggio, di sale d’attesa del pronto soccorso, di cene da soli con tutti gli altri al mare, di mani che invecchiano e risate sempre uguali, di mattine presto nella vostra cucina a immaginare di te prima ancora di provarci, io sveglia di pensieri al centro del petto, lui sveglio di pensieri al centro della testa, entrambi comunque svegli mentre tutti dormono, lontani da casa eppure a casa, perché Geppetto, tuo padre ovunque sia, ovunque vada, per me sarà sempre dove sono cresciuta. Ecco perché io e te, in fondo, abbiamo questo in comune, oltre al cognome. Abbiamo lui. Abbiamo la necessità di non perderlo, di non dover mai pensare il mondo come un posto dove lui non c’è perché ci sarebbe insopportabile.

Ecco, Geppetto, questo è, solo questo. Amiamo la stessa persona, io ne conosco già i difetti, tu ne scoprirai di nuovi. Io sono quel che c’è dietro di lui, tu sei la strada che prosegue. Io mi sono sentita l’unica in diritto di detestarlo, picchiarlo, offenderlo e la più brava a giocarci insieme. Ora lui gioca con te e tu sei il solo di cui non sono gelosa, stai attento però perché a volte non vuole che si tocchino le sue cose e le nasconde ma i nascondigli sono facili. Non offenderlo, ho fatto io per tutti. Non trattarlo male, già dato anche in questo. Ascoltalo senza interrompere, so che non è facile, ma lui lo apprezza. Quando perde la pazienza è perché si sottovaluta, è un difetto di fabbrica non si corregge. Fatti raccontare tutto quel che puoi, poi passa da me e vediamo se è vero, non perché lui menta ma ha ricordi selettivi, confonde i giorni e a volte gli anni, se ascolta alcune canzoni è certo di essere nel 1998. Sii orgoglioso di essere stato così fortemente voluto, le tue cugine non possono dire lo stesso sai, loro sono arrivate e sono state accolte, tu sei stato immaginato e non riesco a pensare a niente di più intenso. Abbi cura di tutte le fragilità che vedrai in lui, sono i punti in cui si è rotto, sono frammenti riattaccati, è la mappa della frangibilità, percorrila, studiala, rispettala, c’è un frammento anche per te se guardi bene e lui no, cercherà di non farti male mai ma capiterà che te ne farà perché è un uomo, come tutti, come tanti ma è il solo con il sorriso uguale al mio.

 

Buon primo compleanno piccolo Laezza Marchiori, zia è felice di saperti al mondo.

 

in foto la dimostrazione scientifica della parentela:

IMG-geppetto

 

 

 

 

 

Lei

La sera del 2 agosto del 2015 verso le 21.30 l’ho persa nella via centrale di Lignano Sabbiadoro all’altezza della farmacia, quella accanto alla sala giochi, di fronte alla profumeria. Per più di cinque minuti, penso, ma meno di dieci, non posso giurarlo. Forse per un anno o per sempre. Forse non è mai successo e l’ho solo sognato, un incubo, l’incubo di ogni genitore. No, so che è successo. Lo so io, lo sa lei, lo sa la sorella maggiore che era accanto a me, accanto a lei e che è rimasta ferma nel mio campo visivo mentre perdevo lei ed è rimasta ferma mentre la guardavo, sgomenta, pensando che non mi sarebbe mai bastata, mai più senza di lei e me ne vergognavo nel momento stesso in cui lo pensavo. Ho guardato a terra cercando i sandali con i brillantini mentre la chiamavo tra la folla, maledicendo quel posto di merda pieno di turisti di merda con scarpe di merda e deodoranti dozzinali- non vi si macchia la pelle? –  ricoperti di citronella come se bastasse in quei posti dove la toponomastica non lascia scampo e i paesi accanto si chiamano Gorgo e Paludo, come se bastasse a tener lontane le zanzare che se ne fottono della citronella, anzi, secondo me si eccitano pure, merde di zanzare che comunque sono a casa loro, lì. Ho guardato in alto, se qualcuno, un signore perbene- come suo padre– magari l’aveva vista spaventata e sola in mezzo a quel mare di persone e le ha chiesto di salire sulle spalle per vedere se mi trovava dall’alto, ho guardato in alto mentre la chiamavo a voce alta usando il suo soprannome perché quello non ce l’ha nessuno e ho guardato sua sorella e le ho chiesto di aiutarmi –perché ero disperata e sapevo che non mi sarebbe mai più bastata la vita, la mia o la sua o la nostra, senza di lei– perché così l’avremmo ritrovata di sicuro. Ho visto il suo muso sdentato e il gelato alla fragola che colava tutto lungo il cono e sul polso e lungo il braccio come il segno della carezza che le faccio con l’indice per coccolarla davanti alla televisione, sul divano. I suoi sandali con i brillantini, i pantaloncini che non sapevo, non ricordavo avesse indossato quelli dopo la doccia, non avrei saputo descriverla alla Polizia se non l’avessi ritrovata. L’ho stretta e lei ha vomitato. Perché quando si agita lei vomita. Abbiamo buttato il cono, mi ha chiesto scusa se lo stava sprecando, le ho detto che non me ne fotteva niente del cono e poi ho ripetuto sonoquisonoquisonoquisonoquisonoqui e quando siamo tornate a casa in bagno ho vomitato e mi sono guardata allo specchio, ero ancora intera, e mi sono sentita una sopravvissuta. Odio Lignano Sabbiadoro.

Campionessa del Mondo di palloncini scoppiati nel giro di pochi minuti dal gonfiaggio.

“No, guarda, ti assicuro che tua figlia è tutto tranne che timida”

“Come scusa? Sono tre anni che arriviamo davanti alla porta del circolo e fa la bocca storta, tre anni che le viene mal di pancia e le devo dare un mio braccialetto come amuleto che si prende il mal di pancia al posto suo così può fare lezione.”

“Vabbè, mica c’entra con la timidezza. Quella è ansia. Ti assicuro che Benny al circolo la conoscono tutti e fa battute, è spiritosa, cambia il nome alle persone, è divertente.”

“Come cambia il nome alle persone?”

“Si, vedi il maestro Biagio lì? Lei lo chiama Bigio, va lì e gli dice ciao Bigio e allora tutti abbiamo iniziato a chiamarlo Bigio. No, guarda, Benny non è per niente timida.”

“E’ un evidenziatore, signora. Benny, posso chiamarla Benny? So che a casa la chiamate Pepe ma a scuola la chiamiamo tutti Benny, le dà fastidio?”

“No, la chiami pure Benny, io le chiederò di Pepe e lei mi racconterà di Benny, facciamo così?”

“Si, mi piace, facciamo così. Ecco, cosa le stavo dicendo…”

“L’evidenziatore.”

“Giusto. Benny è come se fosse un evidenziatore, signora. Ha la capacità- quasi un dono direi- di far risaltare le qualità di chi ha accanto, come se le rendesse fluorescenti. È senza dubbio una bambina da righe, come dico io, cioè i quadretti, la matematica, ecco, non sono tanto nelle sue corde e si vede già. Scrive benissimo.”

“Non mi fa leggere nulla”

“Peccato. Come mai?”

“Non vuole. Io chiedo, lei dice di no. Allora non insisto.”

“Fa bene. Si fidi, ha pensieri profondissimi che esprime con una proprietà di linguaggio sorprendente. La ritrova questa Benny nella sua Pepe?”

“In parte. Pepe è cocciuta, a volte prepotente. Piange moltissimo e con una velocità incredibile, noi diciamo che ha le lacrime in tasca perché è impossibile che le produca in così poco tempo, davvero, scoppia in lacrime all’improvviso. Dice cose tremende alla sorella. La prima risposta è sempre no, poi sparisce, ci ripensa e torna con un si, con una proposta. Non deve mai pensare di fare qualcosa solo perché un altro le ha detto di farlo, l’idea deve essere sua. Tutto questo lo fa, sicuramente, in modo profondo, lirico e con grande proprietà di linguaggio.”

“A scuola il comportamento è ottimo. Non ho indicazioni di conflitti con nessuno dei compagni, anzi, mi creda se le dico che Benny è davvero molto molto amata e anche in qualche misura contesa.”

“Contesa”.

“Si.”

“Maestra, lei sa cosa vuol dire Benedetta?”

“Nel senso religioso?”

“No, non stiamo a scomodare nessuno. Nel senso letterario. Vuol dire che se ne parla bene, colei di cui si dice bene.”

“Alla fine, io la chiamo Benny, lei la chiama Pepe e tutti parliamo di Benedetta”

“Si, qualcosa del genere, maestra. Per i quadretti…”

“Si”

“Ecco, per i quadretti, riusciamo a farle pensare, sentire, credere che possa dare una possibilità alla matematica? Glielo chiedo perché vede per me è andata proprio così, come dice lei, delle righe e dei quadretti e in realtà io ho sempre rifiutato di riuscire anche in altro.”

“Si, signora, possiamo lavorare in quel senso. Però, se permette, ecco, se mi permette io penso che chiunque possa essere bravo in matematica, magari non bravissimo ma bravo sì. Invece non tutti possono scrivere quel che scrive Benny, come lo scrive Benny. Tenetelo presente, se potete”

“Lo faremo. Grazie, grazie per questo colloquio. Lei, ogni volta, mi fa venire voglia di tornare a scuola e io a scuola ci andavo con il mal di pancia. Mi dicevano che ero timida, sa. Invece era ansia, solo che non l’avevano ancora inventata.”

I capelli lunghissimi. E non si discute.

L’altalena attaccata al ramo di un ciliegio è la condizione necessaria per cadere. Quando si allungano le gambe in avanti e si sale si sente il vuoto nella pancia e si chiudono gli occhi, si può essere ovunque, basta volerlo.

Un chirurgo dietro la sua testa, io davanti al suo viso, la sua mano sotto il mento, la mia mano sulla sua, l’altra che le sfiora la guancia screpolata che potrebbe addormentarsi se solo non le stessero cucendo un buco nel cranio. Suo padre che ci guarda e aspetta, sa che la più coraggiosa è lei, aspetta di portarci a casa, di portarmi a casa, dove non dormirò per controllare che non stia male, che non ci sia nulla delle cose che indicano anche il trauma cranico, dove finalmente crollerò per la paura arrabbiandomi con qualcuno o qualcosa, che è il solo modo che conosco per cedere e lui è il solo che lo sa. Le medicazioni con il betadine, le macchie sulle federe, la mia cicatrice sulla fronte che prude a distanza di trent’anni, giocavo con mia cugina, mi ricordo una colata di sangue davanti agli occhi, sulle lenti degli occhiali, un chirurgo e la mano di mio padre, calda e poi basta. Niente garetta di fine anno a nuoto, no, la saltiamo. E togliamo quelle pietre da sotto l’altalena, solo un coglione può lasciarle lì così. Non mi importa chi è stato, se lui o mio padre o mio cognato. Un coglione qualsiasi, che è andata bene così, poteva andare peggio.

Per tutta la vita guarderà le altalene sentendo la mia voce che le ripete di fare attenzione. Forse le pruderà la testa, in un punto che non capirà e che io so dov’è e arriverà il giorno in cui le sembrerà di sentire ancora il vuoto nella pancia, a pensare alla mia voce.

Un senso del ritmo innato che condivide solo con suo padre.

Il cappellano dell’ospedale me lo sono trovato davanti al letto, sonnecchiavo smaltendo il dolore, soprattutto alla mano, la farfallina nella vena della mano destra per le flebo, quella è stata più dolorosa di tutto, della puntura nella schiena o del frugare nella pancia. Sembra strano che con un taglio sull’addome quel che fa davvero male sia la mano.

Ho aperto gli occhi sentendomi osservata e lui era lì.

“Cos’ha dato al mondo, signora? Maschio o femmina?”

“Una femmina. Benedetta.”

“E che sia benedetta anche dal Signore allora. Auguri, pregherò per voi.”

Nella pancia era la Biba da quando abbiamo scoperto che si, era una bimba, la seconda, si femmina evviva, perché io un maschio non lo volevo, non lo volevo proprio e quando il dottore mi ha detto che tra le gambe si vedeva l’inconfondibile chicco di caffè ricordo di aver esultato sul lettino. Tornate a casa, dopo la nascita, è stata da subito Tuga, perché aveva il collo molle e rugoso di una tartaruga solo che sua sorella maggiore non lo sapeva dire, cioè lo sapeva dire solo che lo diceva così. Tuga. E noi capivamo. Dopo pochissimi mesi, è diventata Pepe. Perché sua sorella la chiamava Pepedetta e poi Pepe. Allora è rimasta Pepe, per tutti e per sempre.

“Speriamo sia benedetta anche tra le persone comuni, senza scomodare troppo lassù, comunque. Grazie.”

Al terzo giorno di vita è diventata gialla. Anche lei, come la sorella due anni prima. Mi ha spiegato una mia amica biologa che è dovuto ai gruppi sanguigni, il mio e quello del padre. Qualunque figlio nostro avrebbe avuto l’ittero, non ho capito perché ma quando me l’ha detto mi è parso che fosse molto brava e molto competente e so di aver pensato che cazzo però a sapere così le cose. Io sono 0 RH+, il padre è AB RH +. La grande è B RH+, Pepe è A RH+. Non avrebbero potuto essere 0, perché è recessivo. Ti pareva, mi sono detta.

È stata mandata in lampada. Andavo al nido a richiesta, le ostetriche una volta mi hanno chiamata dopo solo mezz’ora dall’ultima poppata, nonostante la doppia pesata ci avesse indicato che aveva mangiato abbondantemente, piangeva disperata senza possibilità di essere calmata. Quando l’ho presa ha smesso, ha aperto gli occhi, mi ha fissata o forse no, pare che non vedano a quell’età, non so a me è parso che mi fissasse, sicuramente la guardavo io come si guarda una novità e niente. Siamo state lì così, sulla panchina del nido, con la vestaglia che tirava sul seno dolorante, la mia mano sulla sua guancia, la sua mano sotto il mento imbronciato, finché non si è addormentata. Quella notte hanno portato in elicottero dalla Calabria un neonato con una gravissima patologia cerebrale, ho ascoltato tutte le telefonate mentre allattavo, prima che la rimettessero in lampada, non avrei voluto sapere cosa stava capitando al piano di sopra. Quando sono tornata nella mia stanza la ragazza del letto accanto ha rotto le acque, è scoppiato un temporale estivo, ho mangiato un biscotto dal pacco che mi aveva portato mia zia, mi sono sdraiata senza sforzare gli addominali inservibili, mi sono girata sul fianco e ho pensato a una madre calabrese che non sapevo chi fosse, a quel che si dà al mondo e a quello che dal mondo si prende, compresi i calci in culo. E mi sono sentita una sopravvissuta.

Divoratrice di frutta.

Battesimo fatto. Prima Comunione pure. Scuola cattolica anche. Basta, ci fermiamo qui, è come per il gruppo sanguigno, ognuno mette quello che ha, tanto i nostri vengono tutti fuori gialli. Il resto sarà una scelta sua se vorrà.

A catechismo le avevano chiesto di portare una bottiglietta da mezzo litro di acqua, vuota. L’hanno riempita di acqua benedetta, decorata esternamente e riportata a casa fino all’incontro successivo. Il giorno prima inizia la ricerca folle della bottiglietta d’acqua, sparita. Eppure, era sempre stata in salotto, su un mobile, in vista, una bottiglietta senza etichette commerciali, con decori e dell’acqua -benedetta- all’interno. L’abbiamo cercata ovunque. Anche nella sacca da tennis, niente. Pepe ha iniziato a piangere, imprecare, inveire, minacciare, disperare, tutto inutile. Nessuna bottiglietta di acqua benedetta. All’improvviso il lampo, l’intuizione, il dubbio. La signora delle pulizie, la grande colpevole volontaria e involontaria di tutto quello che non si trova più.

In quel periodo era Rossana, una signora peruviana che lavorava anche da mia nonna.

“Ohh me dispiaseeee.”

Questa è stata la conclusione della scena. Vista da fuori, da un angolo della stanza, dal lato opposto alla grande porta finestra tra cucina e salotto deve essere andata più o meno così:

mattino, circa le 9. Donna pronta per andare a lavoro che volge la mano sinistra verso un mobile tenendo lo sguardo fisso sull’altra donna che, dalla cucina, guarda il mobile indicato e poi la signora che ha truccato troppo le labbra-bisognerebbe dirglielo– che porta la mano sinistra sopra la destra ma con un po’ di spazio tra i due palmi opposti e chiede di una bottiglietta di plastica, chiede con tono gentile ma finge perché si vede che è solo una stronza disordinata. La donna pronta per andare al lavoro, che ha messo la trousse in borsa così ritocca il rossetto dopo pranzo, aspetta una risposta, un cenno- avrà capito? – da parte dell’altra donna. Le due donne si guardano e già sanno tutto.

Una penserà per sempre che l’altra se l’è bevuta prima di buttarla.

L’altra penserà per sempre che se le cose venissero lasciate in posti logici nessuno le sposterebbe.

Alla notizia definitiva Pepe si era lasciata prendere dallo sconforto assoluto. Non poteva presentarsi a catechismo, non avrebbe potuto fare la Comunione con i suoi compagni, forse le avrebbero revocato anche il Battesimo e chissà che non concorresse per la scomunica.

“Come facciamo?”

“Così. Vai di là e fai un disegno simile a quello che avevi fatto sull’altra bottiglia. Intanto io bevo come se dovessi fare un’ecografia renale, non ti preoccupare.”

“Ma cosa fai?”

“Niente, non ti preoccupare. Ecco la bottiglietta che uso in palestra, vuota. Riempila di acqua.”

“Quale acqua?”

“Acqua, Pepe. Acqua.”

“Dal rubinetto?”

“Si”

“Così?”

“Si. Brava. Ecco, attacca il disegno, ecco qui. Puoi andare a catechismo.”

“Ma non è acqua benedetta”

“È acqua di Benedetta. Andrà bene lo stesso”.

“Ma si può fare?”

“Si.”

“Secondo me no. Poi scusa tu nemmeno ci credi.”

“Per quello che posso.”

“Allora vedi che non si può.”

“Pepe, alla peggio ci giochiamo la carta del perdono.”

“E come?”

“Diciamo ohh me dispiaseeeee.”

Scalza, sempre scalza, possibile?

“Dovrebbe esserci quella cosa per cui basta un suo sorriso e io non sento più la fatica. Sono ripagata. Dicono così, le madri. Dicono che basta un sorriso e sono ripagate dalle notti insonni. Mia figlia non sorride, Dottore. E poi, di fondo, anche quando sorride non mi ripaga di niente. È come se mi guardassi in uno specchio tutto rotto cercando di vedermi intera, con lei, quando la guardo.”

“Quali madri lo dicono?”

“Le madri, in giro. Sa quando ti fermano e dicono che si è una gran fatica crescerli ma poi basta un sorriso.”

“Ma sono madri che lei conosce?”

“In che senso?”

“Non so, sono sue amiche madri come lei in questo momento preciso, sua madre, sua zia, madri con cui lei ha una relazione di durata e di qualità?”
“No. Cioè. No. Sono cose che dicono le donne quando si parla di bambini piccoli.”

“Sono cose che si dicono, quindi.  E dunque, sono cose che queste persone non le riportano in quanto esperienza diretta come se adesso io le dessi un pizzicotto e poi subito dopo una carezza e allora lei direbbe di aver avuto esperienza di entrambe le cose. È così?”

“Si, penso.”

“E dunque, lei questa settimana si è soffermata più volte sulla sua inadeguatezza, come la chiama lei, perché qualcuno che lei non conosce dice cose che sono come un intercalare in coda in posta nel quale lei non si riconosce?”

“Penso che sia andata così. Comunque, mia figlia sorride poco, a me soprattutto.  Con me piange, urla, si irrigidisce.”

“Lei sorride spesso?”

“No. Non più.”

“Nemmeno allo specchio?”

“No. Lo specchio è in pezzi e io cerco un’immagine intera”

“Lei con chi è solita fare scenate, se vogliamo chiamarle così, con chi è solita perdere le staffe?”

“Con me stessa e poi con lui, si, con lui.”

“Noi diamo il peggio di noi stessi solo con coloro dei quali ci fidiamo. Non mostriamo mai quella parte ad altri dei quali non siamo sicuri. Bisogna amare molto qualcuno per permettere a noi stessi di mostrarci deboli, arrabbiati, furibondi o semplicemente tristi.”

“Quindi mia figlia con me è insopportabile perché mi ama di più degli altri? Che culo.”

“O forse perché sa che lei la ama più degli altri, in ogni caso. Provi a guardare sua figlia, a pensare sua figlia, come se lo specchio fosse intero, cosa le riflette?”

“Che sono io quella a pezzi, ecco perché non mi vedo intera.”

“Il tempo per oggi è terminato, ci vediamo venerdì.”

Le sue mani che sanno sempre dove fa male, dove è successo che si è sopravvissuti.

io e Pepe

L’ho dimenticato

 

C’era un vaso per terra, colmo, difficile da spostare.

Se mi dovessero regalare fiori non saprei dove metterli, non potrei ripetere quella scena vista fare tante volte da mia made o mia nonna, i fiori che arrivano con il gambo avvolto nella carta argentata e tutto intorno un velo trasparente a proteggerli- “oh, che belli, che meraviglia, prendi, prendi un vaso e mettici dell’acqua che li sistemiamo”.  E poi tutto quello spacchettare rumoroso e ingombrante, il velo trasparente da appallottolare e buttare, il gambo da recidere ancora un po’ per adattarlo al vaso- “no, non questo, l’altro, quello lungo di cristallo”.

Dove vengono custoditi i vasi quando non ci sono i fiori dentro?

Ma io non ricevo fiori. Perché non mi piacciono e lui lo sa. Dico sempre: “me li porterete quando sarò morta, prima di allora ci sono altre cose grazie. Libri, borse, rossetti, opere di bene”. I fiori in casa dopo due giorni puzzano di cimitero.

E comunque con me due giorni sono anche troppi perché io ho il talento unico di far morire anche le piante finte. Davvero. Ci ho provato, ci provo ogni anno perché sono cocciuta o stupida non so, ci provo. A un certo punto, verso marzo o aprile, con le ragazze vado in un centro di floricoltura che è vicino a casa, loro ridono appena allacciano la cintura di sicurezza e non smettono fino al rientro, quando scarichiamo piante da interno mezza luce poca acqua cambio terriccio ogni mai, piante da esterno sole pieno per terrazzi esposti a cazzo ma quelli sono, piantine di consolazione da disseminare dove ti pare che hanno il solo pregio di costare € 2,99.

“Ma l’acqua l’hai data alle piante? La terra è tutta secca, sembra il deserto”

“No.”

“Perché?”

Perché. Non si può chiedere il perché, non faccio parte di un gruppo organizzato per l’uccisione delle piante a mezzo disidratazione, non ho una mia personale vendetta che mi porta a comprarle per poi ucciderle. Non mi chiedere il perché.

Me ne dimentico.

A un certo punto, verso maggio o giugno, me ne dimentico. Basta. Non le vedo proprio più, ci passo accanto e non mi accorgo della loro presenza.

Una zia di mio marito, con piante meravigliose in ogni angolo della casa e del giardino- eh ma il suo è ben esposto– mi ha detto di puntare tutto sulle piante grasse, perché non hanno bisogno di attenzioni o cure particolari, cioè magari ne hanno però si arrangiano, fanno con quel che trovano. “Le metti lì e te ne dimentichi”. Questo doveva dirmi per fare centro. A parte una dolorosa vicenda iniziale con un cactus che forse si è suicidato, direi che il consiglio si è rivelato valido. Ho capito che i miei cani e le mie figlie hanno avuto possibilità di sopravvivenza grazie al fatto che comunicano con me.

E ho scoperto di essere una pianta grassa.

 

 

Per spostare un vaso colmo non ci vuole forza ma concentrazione.

 

Aveva gli occhi troppo azzurri. E si preoccupava sempre.

Hai freddo? Ti do la mia giacca.

Hai mangiato? Sei tanto magra.

Hai dormito? Il sonno perso non si recupera, sai, ci sono studi scientifici che ne trattano diffusamente.

Ti è piaciuto? Stiamo bene insieme, vero?

Passo a prenderti, non uscire finché non mi vedi.

Ti riaccompagno, hai le chiavi? Apri, io aspetto.

Ci vuole solo un po’ di tempo, poi vedrai che di lui ti dimenticherai completamente, sei così giovane. E poi hai me, ci sono io, no? Mi vedi? Ci sono io che mica ti farò male come ti ha fatto lui, lo sai vero? Che ci sono io, che lui non c’è, che lui ti ha fatto male te lo ricordi sì? Te lo devi ricordare, così poi vedrai che lui lo dimentichi. Cosa significa che non sai? Cosa vuol dire che non va, che non c’è entusiasmo, non lo vedi quanto siamo felici? Non è vero che non stiamo bene, guardaci, ridiamo. Io ti abbraccio e tu mi abbracci, vedi che stiamo bene? Anche i miei amici mi hanno detto che non mi hanno mai visto stare così bene con una ragazza. Se ne sono accorti anche loro che stiamo bene. Cosa significa che no, tu non stai bene. Magari è roba di ora, di un momento, di passaggio. Ogni tanto ti prende così, che non sai, che te ne vuoi andare per i fatti tuoi ma non è vero. Anzi no, non me lo dire cosa significa, lascia stare, non fa niente. Adesso dici così ma poi ti passa. E poi scusa io che faccio? A me ci hai pensato? A dire queste cose come se io non fossi qui che ascolto mentre dici che non ti va più, che basta, che è meglio stare soli, altrove. Altrove dove? Allora io cosa sono scusa? Niente. Non sono niente. Decidi tu, fai tu. Sei una ragazzina, io ho una laurea, un dottorato e devo stare qui a sentire te che frigni, ma chi ti credi di essere? Ma tu lo sai che vita faccio io dopo anni, a n n i cara mia, a n n i, che tu ancora andavi all’asilo, dopo anni di studio mi trovo tutto il giorno a vendere medicine dietro un bancone a gente che mi chiede supposte di nitroglicerina eh, tu lo sai? Lo sai che entrano i tossici e li devo servire sperando che non mi rapinino. A n n i per finire a fare il bottegaio, perché quello è, invece di fare ricerca perché quello dovevo fare e tu? Tu che non sai? Ah, ora lo sai? E cosa sai? Lo sai quello che mi stai facendo? No, no, zitta, non ti dimenticherò. Non dimenticherò quello che mi stai facendo.

 

Non aveva la forma elegante del vaso, sembrava più un catino. Eppure, era un vaso.

 

Insegnava Lettere e Latino, Greco lo insegnava un’altra, ma ho dimenticato chi, il nome, anche la faccia. Era una classe tutta di ragazze, per un momento c’era stato un solo maschio ma non so che fine abbia fatto, forse lo avevamo sacrificato per propiziarci la benevolenza di Atena in vista della maturità.

Insegnava Lettere e Latino e non so se era brava perché non conoscevo altri che lo facevano e allora non potevo sapere. Spero che lo sia stata. Negli anni la mia migliore amica, diventata archeologa, mi ha rivelato che qualche cazzata ce l’aveva detta. Lei poteva saperlo, io continuavo a ignorarlo.

Entusiasmo.

In greco si scrive così, il gesso sulla lavagna.

Ragazze, sapete da dove arriva la parola entusiasmo? Provate, si bene. Quasi. Sara B.? Vicino ma ancora no. Alessandra? Laura? Chiara S.? Chiara C.? Claudia? Paola? Sonia? Mara?

Essere invasati, ragazze.

Ma mica pazzi invasati come i tifosi di calcio, ragazze. No. Questo lasciamolo pensare a chi non conosce il senso delle parole, il significato, quello che possiamo trovare andando a cercare con i nostri strumenti, lasciamolo pensare ai cugini deboli dello scientifico.

Che parola c’è, qui, in mezzo, guardate la lavagna, che nome vedete lì, dentro la parola?

Dio. Giusto. Brave. Entusiasmo ragazze, avere dentro di sé un dio. Essere ispirati da un dio. Essere come vasi all’interno dei quali sentire quale dio ci ispira, se siamo sacerdoti o indovini. O poeti.

Aveva le mani più vecchie, quello sì. Fumava, e mi ero soffermata sulle dita, sulle macchie marroni che le chiazzavano il dorso delle mani. Il viso no, non sembrava che fosse passato tanto tempo, l’avevo riconosciuta subito nel trovarmela davanti, io camminavo dritta a testa bassa, ero appena uscita da una seduta e andavo verso la metropolitana, lei aveva svoltato dalla via laterale e mi era finita di fronte.

“Buongiorno Professoressa”

Messa a fuoco. Niente.

“Ecco, aiutami”

“Terza C, maturità nel 1997, era il nostro membro interno. Sonia.”

“Sonia.”

Comunque, il mio nome ha davvero un bel suono. Io non lo sento mai perché nessuno lo usa per intero, per davvero, lo scrivo, lo leggo ma non lo sento mai e invece è proprio bello, va detto.

“Si, Sonia”

“1997”

“Si. Al Cavour”

“Si, si, quella classe tutta di ragazze ah ma forse c’era anche un uomo a un certo punto”

“Si. È stato bocciato. Come un sacrificio alla divinità, credo.”

Ride.

“Eh, tu?  Non ti avrei riconosciuta, no. Sai quanti mi fermano, ogni giorno, sai. E non vi riconosco tutti, non mi ricordo tutti, mi dispiace. Tu? Cosa hai fatto della tua vita?”

“Ho studiato Giurisprudenza, mi sono laureata e niente, lavoro, ho due bambine.”

“Due bambine, di già. Brava. Che lavoro fai?”
“Mi occupo di sicurezza sui luoghi di lavoro, adempimenti normativi per le aziende, formazione. “

“Brava, facciamo anche a scuola quelle cose, che barba, invece di lasciarci insegnare ci fanno fare tutte queste cose, che però sono obbligatorie. Due bambine, di già. Brava. Abiti qui in zona?”

” No.” – sono qui perché il venerdì a quest’ora passo sempre di qui sa, esco dall’Asl, dal servizio per i disturbi mentali perché ho la depressione e penso spesso che ne morirò o che comunque morirò e le mie figlie saranno cresciute in un contesto che non prevede l’uso corretto del gruppo fonetico sci-sce ma che lo sibila e allora mi torturo e spero di non morire, di resistere anche perché non siano costrette a indossare il cappellino contro il sole o la cuffia contro il freddo anche durante l’adolescenza di modo che possano sentirsi normali– “avevo un appuntamento di lavoro” .

E subito insieme:

“Mara è diventata archeologa, se la ricorda?”

“Vi sentite ancora?”

“Sempre.”

Ma non se la ricordava.  Io invece l’ho chiamata subito, mentre scendevo i gradini della metro e timbravo il biglietto.

“È impossibile che non ti abbia riconosciuta, Soniè, sei sempre uguale.”

È che lei non mi ha mai dimenticata.

 

Non è la goccia che fa traboccare il vaso ma un urto maldestro.

 

Mi ha mandato un paio di messaggi a marzo, agli inizi della quarantena. Ho sorriso, quando ho letto il suo nome, sorrido ogni volta che lo leggo, sorrido di buone cose. Mi ha mandato anche due quotidiani in pdf, il Sole 24 ore e il Corriere, credo. Gli avrei offerto il caffè, ma non si poteva. Ci diciamo, ogni volta, prima o poi un caffè, un bicchiere di vino, due parole. Non ci siamo mai più visti e non so se mai ci rivedremo, non lo escludo perché, ormai, sono poche le cose che escludo in generale, ma se vedo il suo nome sorrido e questo lo so, lo sa anche lui.

È stato un momento, il mio ventiduesimo compleanno sotto la Mole, un marciapiede su cui salire per arrivare meglio a quel bacio di tarda estate, a quell’abbraccio di inizio autunno. Un poster comprato in Via Po, il treno per Milano, la sua auto fuori casa dei miei genitori, non ricordo che modello fosse, niente, ho dimenticato. Un prendi e lascia senza mai prendere e senza mai lasciare, tanti chilometri per qualcosa solo perché sa di buone cose, nessuna domanda su quel passato appena passato, su quell’altro lasciato così, senza acqua, senza terriccio, che morisse di sete, basta, non lo vedevo più, fatti crescere le spine coglione se non sai resistere altrimenti muori.

Nessuna domanda su quella nuova presenza, appena percepita, appena arrivata, in quel guardare il telefono quando si è vicini- non è me che aspetti- sapere perché si sente, sapere senza chiedere, nessuno che toglie niente, solo una goccia in più se vuoi, ma sono gocce che non riempiono, sono gocce che al massimo si infiltrano e restano, sono gocce contate una a una su una ferita che non siamo nessuno per curare ma che sappiamo vedere. Non è te che aspetto. Ma se rimani ancora un po’ mi sembra meglio, se ti fermi solo un attimo ancora smetto di frugare con le mani per cercare cosa sento lì sul fondo che preme e magari me ne dimentico, non è che te che aspetto ma mi piace che stai qui a farmi sentire buone cose come se ci fosse abbastanza acqua, la giusta luce e in due la colpa di non aspettarsi è annacquata, meno colpa per me, meno colpa per te, resto, resta, sento, senti. Alziamoci con calma, no, non ho detto amiamoci con calma, che non si può. Alziamoci piano che poi ci gira la testa, attento è buio, inciampi, urti contro qualcosa che non avevi previsto e no, non ho detto amiamoci piano, che non si può. Alziamoci che non faccia male alle ginocchia e facciamo attenzione a quel che abbiamo spostato per la curiosità di guardare e toccare, rimettiamolo a posto ma io ho dimenticato il posto, lascio così, lascia così che no, non ho detto amiamoci che non faccia male che non si può. Alziamoci in silenzio e lasciamo tutto così, quel che è fuoriuscito è andato perduto, si vede che era di troppo ma lì sul fondo preme ancora quel che non so, è ancora lì, lo so, lo toccherò e forse sarà un dio o forse sarò solo io e un giorno te lo dirò e no, non ho detto amiamoci in silenzio che non si può.

Vai. Vado. E per la prima volta non ti odio e per la prima volta non mi odio. Io ho le mie spine, lo capisco, ma mi servono per sopravvivere, a te servono per sapere che non è mai stata colpa tua. E ho le mie storie che mi servono per vivere e che non ti ho mai raccontato perché si raccontano le favole, perché le storie io non le so raccontare, perché si vive ciascuno come può, dimenticandosi l’inizio e inventandosi il finale.

 

cielo