C’era un vaso per terra, colmo, difficile da spostare.
Se mi dovessero regalare fiori non saprei dove metterli, non potrei ripetere quella scena vista fare tante volte da mia made o mia nonna, i fiori che arrivano con il gambo avvolto nella carta argentata e tutto intorno un velo trasparente a proteggerli- “oh, che belli, che meraviglia, prendi, prendi un vaso e mettici dell’acqua che li sistemiamo”. E poi tutto quello spacchettare rumoroso e ingombrante, il velo trasparente da appallottolare e buttare, il gambo da recidere ancora un po’ per adattarlo al vaso- “no, non questo, l’altro, quello lungo di cristallo”.
Dove vengono custoditi i vasi quando non ci sono i fiori dentro?
Ma io non ricevo fiori. Perché non mi piacciono e lui lo sa. Dico sempre: “me li porterete quando sarò morta, prima di allora ci sono altre cose grazie. Libri, borse, rossetti, opere di bene”. I fiori in casa dopo due giorni puzzano di cimitero.
E comunque con me due giorni sono anche troppi perché io ho il talento unico di far morire anche le piante finte. Davvero. Ci ho provato, ci provo ogni anno perché sono cocciuta o stupida non so, ci provo. A un certo punto, verso marzo o aprile, con le ragazze vado in un centro di floricoltura che è vicino a casa, loro ridono appena allacciano la cintura di sicurezza e non smettono fino al rientro, quando scarichiamo piante da interno mezza luce poca acqua cambio terriccio ogni mai, piante da esterno sole pieno per terrazzi esposti a cazzo ma quelli sono, piantine di consolazione da disseminare dove ti pare che hanno il solo pregio di costare € 2,99.
“Ma l’acqua l’hai data alle piante? La terra è tutta secca, sembra il deserto”
“No.”
“Perché?”
Perché. Non si può chiedere il perché, non faccio parte di un gruppo organizzato per l’uccisione delle piante a mezzo disidratazione, non ho una mia personale vendetta che mi porta a comprarle per poi ucciderle. Non mi chiedere il perché.
Me ne dimentico.
A un certo punto, verso maggio o giugno, me ne dimentico. Basta. Non le vedo proprio più, ci passo accanto e non mi accorgo della loro presenza.
Una zia di mio marito, con piante meravigliose in ogni angolo della casa e del giardino- eh ma il suo è ben esposto– mi ha detto di puntare tutto sulle piante grasse, perché non hanno bisogno di attenzioni o cure particolari, cioè magari ne hanno però si arrangiano, fanno con quel che trovano. “Le metti lì e te ne dimentichi”. Questo doveva dirmi per fare centro. A parte una dolorosa vicenda iniziale con un cactus che forse si è suicidato, direi che il consiglio si è rivelato valido. Ho capito che i miei cani e le mie figlie hanno avuto possibilità di sopravvivenza grazie al fatto che comunicano con me.
E ho scoperto di essere una pianta grassa.
Per spostare un vaso colmo non ci vuole forza ma concentrazione.
Aveva gli occhi troppo azzurri. E si preoccupava sempre.
Hai freddo? Ti do la mia giacca.
Hai mangiato? Sei tanto magra.
Hai dormito? Il sonno perso non si recupera, sai, ci sono studi scientifici che ne trattano diffusamente.
Ti è piaciuto? Stiamo bene insieme, vero?
Passo a prenderti, non uscire finché non mi vedi.
Ti riaccompagno, hai le chiavi? Apri, io aspetto.
Ci vuole solo un po’ di tempo, poi vedrai che di lui ti dimenticherai completamente, sei così giovane. E poi hai me, ci sono io, no? Mi vedi? Ci sono io che mica ti farò male come ti ha fatto lui, lo sai vero? Che ci sono io, che lui non c’è, che lui ti ha fatto male te lo ricordi sì? Te lo devi ricordare, così poi vedrai che lui lo dimentichi. Cosa significa che non sai? Cosa vuol dire che non va, che non c’è entusiasmo, non lo vedi quanto siamo felici? Non è vero che non stiamo bene, guardaci, ridiamo. Io ti abbraccio e tu mi abbracci, vedi che stiamo bene? Anche i miei amici mi hanno detto che non mi hanno mai visto stare così bene con una ragazza. Se ne sono accorti anche loro che stiamo bene. Cosa significa che no, tu non stai bene. Magari è roba di ora, di un momento, di passaggio. Ogni tanto ti prende così, che non sai, che te ne vuoi andare per i fatti tuoi ma non è vero. Anzi no, non me lo dire cosa significa, lascia stare, non fa niente. Adesso dici così ma poi ti passa. E poi scusa io che faccio? A me ci hai pensato? A dire queste cose come se io non fossi qui che ascolto mentre dici che non ti va più, che basta, che è meglio stare soli, altrove. Altrove dove? Allora io cosa sono scusa? Niente. Non sono niente. Decidi tu, fai tu. Sei una ragazzina, io ho una laurea, un dottorato e devo stare qui a sentire te che frigni, ma chi ti credi di essere? Ma tu lo sai che vita faccio io dopo anni, a n n i cara mia, a n n i, che tu ancora andavi all’asilo, dopo anni di studio mi trovo tutto il giorno a vendere medicine dietro un bancone a gente che mi chiede supposte di nitroglicerina eh, tu lo sai? Lo sai che entrano i tossici e li devo servire sperando che non mi rapinino. A n n i per finire a fare il bottegaio, perché quello è, invece di fare ricerca perché quello dovevo fare e tu? Tu che non sai? Ah, ora lo sai? E cosa sai? Lo sai quello che mi stai facendo? No, no, zitta, non ti dimenticherò. Non dimenticherò quello che mi stai facendo.
Non aveva la forma elegante del vaso, sembrava più un catino. Eppure, era un vaso.
Insegnava Lettere e Latino, Greco lo insegnava un’altra, ma ho dimenticato chi, il nome, anche la faccia. Era una classe tutta di ragazze, per un momento c’era stato un solo maschio ma non so che fine abbia fatto, forse lo avevamo sacrificato per propiziarci la benevolenza di Atena in vista della maturità.
Insegnava Lettere e Latino e non so se era brava perché non conoscevo altri che lo facevano e allora non potevo sapere. Spero che lo sia stata. Negli anni la mia migliore amica, diventata archeologa, mi ha rivelato che qualche cazzata ce l’aveva detta. Lei poteva saperlo, io continuavo a ignorarlo.
Entusiasmo.
In greco si scrive così, il gesso sulla lavagna.
Ragazze, sapete da dove arriva la parola entusiasmo? Provate, si bene. Quasi. Sara B.? Vicino ma ancora no. Alessandra? Laura? Chiara S.? Chiara C.? Claudia? Paola? Sonia? Mara?
Essere invasati, ragazze.
Ma mica pazzi invasati come i tifosi di calcio, ragazze. No. Questo lasciamolo pensare a chi non conosce il senso delle parole, il significato, quello che possiamo trovare andando a cercare con i nostri strumenti, lasciamolo pensare ai cugini deboli dello scientifico.
Che parola c’è, qui, in mezzo, guardate la lavagna, che nome vedete lì, dentro la parola?
Dio. Giusto. Brave. Entusiasmo ragazze, avere dentro di sé un dio. Essere ispirati da un dio. Essere come vasi all’interno dei quali sentire quale dio ci ispira, se siamo sacerdoti o indovini. O poeti.
Aveva le mani più vecchie, quello sì. Fumava, e mi ero soffermata sulle dita, sulle macchie marroni che le chiazzavano il dorso delle mani. Il viso no, non sembrava che fosse passato tanto tempo, l’avevo riconosciuta subito nel trovarmela davanti, io camminavo dritta a testa bassa, ero appena uscita da una seduta e andavo verso la metropolitana, lei aveva svoltato dalla via laterale e mi era finita di fronte.
“Buongiorno Professoressa”
Messa a fuoco. Niente.
“Ecco, aiutami”
“Terza C, maturità nel 1997, era il nostro membro interno. Sonia.”
“Sonia.”
Comunque, il mio nome ha davvero un bel suono. Io non lo sento mai perché nessuno lo usa per intero, per davvero, lo scrivo, lo leggo ma non lo sento mai e invece è proprio bello, va detto.
“Si, Sonia”
“1997”
“Si. Al Cavour”
“Si, si, quella classe tutta di ragazze ah ma forse c’era anche un uomo a un certo punto”
“Si. È stato bocciato. Come un sacrificio alla divinità, credo.”
Ride.
“Eh, tu? Non ti avrei riconosciuta, no. Sai quanti mi fermano, ogni giorno, sai. E non vi riconosco tutti, non mi ricordo tutti, mi dispiace. Tu? Cosa hai fatto della tua vita?”
“Ho studiato Giurisprudenza, mi sono laureata e niente, lavoro, ho due bambine.”
“Due bambine, di già. Brava. Che lavoro fai?”
“Mi occupo di sicurezza sui luoghi di lavoro, adempimenti normativi per le aziende, formazione. “
“Brava, facciamo anche a scuola quelle cose, che barba, invece di lasciarci insegnare ci fanno fare tutte queste cose, che però sono obbligatorie. Due bambine, di già. Brava. Abiti qui in zona?”
” No.” – sono qui perché il venerdì a quest’ora passo sempre di qui sa, esco dall’Asl, dal servizio per i disturbi mentali perché ho la depressione e penso spesso che ne morirò o che comunque morirò e le mie figlie saranno cresciute in un contesto che non prevede l’uso corretto del gruppo fonetico sci-sce ma che lo sibila e allora mi torturo e spero di non morire, di resistere anche perché non siano costrette a indossare il cappellino contro il sole o la cuffia contro il freddo anche durante l’adolescenza di modo che possano sentirsi normali– “avevo un appuntamento di lavoro” .
E subito insieme:
“Mara è diventata archeologa, se la ricorda?”
“Vi sentite ancora?”
“Sempre.”
Ma non se la ricordava. Io invece l’ho chiamata subito, mentre scendevo i gradini della metro e timbravo il biglietto.
“È impossibile che non ti abbia riconosciuta, Soniè, sei sempre uguale.”
È che lei non mi ha mai dimenticata.
Non è la goccia che fa traboccare il vaso ma un urto maldestro.
Mi ha mandato un paio di messaggi a marzo, agli inizi della quarantena. Ho sorriso, quando ho letto il suo nome, sorrido ogni volta che lo leggo, sorrido di buone cose. Mi ha mandato anche due quotidiani in pdf, il Sole 24 ore e il Corriere, credo. Gli avrei offerto il caffè, ma non si poteva. Ci diciamo, ogni volta, prima o poi un caffè, un bicchiere di vino, due parole. Non ci siamo mai più visti e non so se mai ci rivedremo, non lo escludo perché, ormai, sono poche le cose che escludo in generale, ma se vedo il suo nome sorrido e questo lo so, lo sa anche lui.
È stato un momento, il mio ventiduesimo compleanno sotto la Mole, un marciapiede su cui salire per arrivare meglio a quel bacio di tarda estate, a quell’abbraccio di inizio autunno. Un poster comprato in Via Po, il treno per Milano, la sua auto fuori casa dei miei genitori, non ricordo che modello fosse, niente, ho dimenticato. Un prendi e lascia senza mai prendere e senza mai lasciare, tanti chilometri per qualcosa solo perché sa di buone cose, nessuna domanda su quel passato appena passato, su quell’altro lasciato così, senza acqua, senza terriccio, che morisse di sete, basta, non lo vedevo più, fatti crescere le spine coglione se non sai resistere altrimenti muori.
Nessuna domanda su quella nuova presenza, appena percepita, appena arrivata, in quel guardare il telefono quando si è vicini- non è me che aspetti- sapere perché si sente, sapere senza chiedere, nessuno che toglie niente, solo una goccia in più se vuoi, ma sono gocce che non riempiono, sono gocce che al massimo si infiltrano e restano, sono gocce contate una a una su una ferita che non siamo nessuno per curare ma che sappiamo vedere. Non è te che aspetto. Ma se rimani ancora un po’ mi sembra meglio, se ti fermi solo un attimo ancora smetto di frugare con le mani per cercare cosa sento lì sul fondo che preme e magari me ne dimentico, non è che te che aspetto ma mi piace che stai qui a farmi sentire buone cose come se ci fosse abbastanza acqua, la giusta luce e in due la colpa di non aspettarsi è annacquata, meno colpa per me, meno colpa per te, resto, resta, sento, senti. Alziamoci con calma, no, non ho detto amiamoci con calma, che non si può. Alziamoci piano che poi ci gira la testa, attento è buio, inciampi, urti contro qualcosa che non avevi previsto e no, non ho detto amiamoci piano, che non si può. Alziamoci che non faccia male alle ginocchia e facciamo attenzione a quel che abbiamo spostato per la curiosità di guardare e toccare, rimettiamolo a posto ma io ho dimenticato il posto, lascio così, lascia così che no, non ho detto amiamoci che non faccia male che non si può. Alziamoci in silenzio e lasciamo tutto così, quel che è fuoriuscito è andato perduto, si vede che era di troppo ma lì sul fondo preme ancora quel che non so, è ancora lì, lo so, lo toccherò e forse sarà un dio o forse sarò solo io e un giorno te lo dirò e no, non ho detto amiamoci in silenzio che non si può.
Vai. Vado. E per la prima volta non ti odio e per la prima volta non mi odio. Io ho le mie spine, lo capisco, ma mi servono per sopravvivere, a te servono per sapere che non è mai stata colpa tua. E ho le mie storie che mi servono per vivere e che non ti ho mai raccontato perché si raccontano le favole, perché le storie io non le so raccontare, perché si vive ciascuno come può, dimenticandosi l’inizio e inventandosi il finale.
Mi sa che in realtà il pollice verde in questo post non era proprio tema centrale….comunque leggendoti mi è venuta in mente questa. Penso sarebbe la colonna sonora giusta
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