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Cristina è uscita con le sue amiche, ieri pomeriggio. Si sono date appuntamento davanti a scuola dopo tre mesi, per fare una passeggiata, mangiare un gelato, parlare, fare quel che fanno delle ragazzine di tredici anni. Io ne ho approfittato per andare in ufficio dopo tre mesi, Pepe è venuta con me perché aveva lezione online alle 16 e tennis alle 17.30 e così ci siamo armate di cartella, racchetta, notebook, alimentatore del notebook, acqua, mascherine, gel disinfettante, cialde del caffè che le avevo finite e siamo partite direzione scuola-ufficio-tennis come ai vecchi tempi.

In macchina abbiamo ascoltato le canzoni su Spotify secondo uno schema ormai consolidato, una canzone a testa mamma esclusa e io ho imbastito alcune raccomandazioni, perché ieri Cristina è uscita con le sue amiche.

Per la prima volta.

Allora a un certo punto, più o meno all’altezza del campo volo, poco prima delle baracche degli zingari, ho abbassato il volume della voce di Achille Lauro e ho iniziato a parlare di scatti di fiducia e passaggi di crescita e ne è venuto fuori qualcosa che sembrava il regolamento per la raccolta punti della spesa da Borello, cosa che non faccio, non ho tessere, non raccolgo punti perché tanto mi dimenticherei di richiedere il premio o di ritirarlo o comunque per avere quello che vorrei dovrei aggiungere cinquanta euro alla tessera completa. Cristina ha capito, penso. Se mi dimostri ogni volta che posso fidarmi di te io continuerò a fidarmi di te e aumenteranno le dimostrazioni di fiducia e finché toccherà a me darti il permesso di fare le cose, la maggior parte delle cose che vuoi fare, potrai avere vita facile perché io saprò che posso fidarmi di te e tu saprai che potrai contare su di me e questo idillio sarà come l’Eden.

Ma se sgarri, se tradisci la mia fiducia, se succede qualcosa che incrina, storce, strozza il libero fluire della fede che nutriamo l’una verso l’altra hai finito di chiedere, di volere, di desiderare, di esistere. Partorirai con dolore, anche tu.

Poi, arrivate a destinazione, volevo dirle di stare attenta quando attraversa, alle auto, alle persone, alle bici, alle moto, ai mezzi matti che circolano che vedono tre ragazzine da sole e magari le avvicinano, al resto in gelateria se paga con un pezzo da dieci euro, ai cani senza guinzaglio, alle cacche per terra, alle schegge di legno delle panchine, ai semafori se lampeggiano. Però era troppo lungo e così dopo che è scesa ho abbassato il finestrino e le ho detto “Cri, mi raccomando, non morire.”

Sua sorella mi ha presa in giro, mentre mi affacciavo dalla finestra del mio studio per guardare in direzione del cancello della loro scuola, se le amiche erano arrivate, se lei era ancora lì, Pepe mi ha sorpresa e mi ha chiesto “è viva?” e poi è scoppiata a ridere, come ride lei, che senti caldo.

È andata molto bene, ha trascorso due ore bellissime, Pepe ha fatto lezione e poi è andata ad allenarsi, lei che può, decretando la superiorità del suo sport rispetto a qualunque altro sport, il tennis è lo sport migliore da praticare durante una pandemia, cari atleti di karate che vi afferrate per la giacca alitandovi in faccia e poi vi scaraventate in terra, per voi la strada è ancora lunga, lunga almeno quanto il suo servizio con la pallina che vola alta, elegante e felice.

A cena hanno raccontato il pomeriggio al padre, la piccola con termini tecnici che appartengono solo a loro in qualità di frequentatori di terra rossa, la grande con l’aria vissuta di chi è sempre uscito da solo e se la cava nel mondo.

Io ho bevuto il mio vino rosso, compiacendomi dell’Eden.

Abbiamo anticipato il regalo di compleanno a Pepe di qualche mese. L’abbiamo dotata di cellulare. Perché le sue amiche ce lo hanno e no, questa non è mai stata una motivazione valida a muovermi, però la rottura di coglioni è un’argomentazione che subisco sempre un po’.

Usava il mio telefono quando voleva chiacchierare con le compagne, da quando la scuola è stata chiusa non si sono viste, niente più attesa in corridoio alle otto, sulla porta della classe, niente spogliatoio a ginnastica o nuoto, niente intervalli in cortilone che in cortilino vanno le prime e le seconde, loro sono in quinta, dovevano spadroneggiare in cortilone e invece no, niente pranzi insieme a mensa, solo il mio telefono per fare delle videochiamate. E dalle videochiamate a due siamo passati a quelle di gruppo, fino a quattro. E poi magari scarichiamo Hangout, che la sua amica ce lo ha e anche lo altre lo installavano e allora l’abbiamo fatto e l’ho sentita parlare con un’altra compagna e suggerirle di scaricarlo anche lei e poi dire “no, non è difficile, guarda se ce l’ha fatta mia madre” e allora ho preso nota e poi, la sera, le ho detto “scusa, non ho capito, cosa vuol dire se ce l’ha fatta mia madre?” e niente, lei ha riso, come ride lei che senti caldo e comunque non voleva dire niente, era un modo di dire.

Un modo di dire del cazzo, le ho detto.

E da Hangout siamo passati all’inserimento in un gruppo tipo “il meglio della VB” e da lì il passaggio al contro gruppo “il vero meglio della VB” e poi naturalmente il contro gruppo del contro gruppo “il vero meglio segreto della VB” e il gruppo privato “VB misteriosa” e tutti i contro gruppi derivanti e allora basta. Non ho più retto.

Io che ho tolto la suoneria al telefono da anni, che ho silenziato tutti i gruppi, che ho tolto le spunte blu- ma così non le vedi nemmeno tu quando mandi un messaggio– ma sai che me frega se hanno visualizzato penso, io che non ascolto i messaggi vocali tranne quelli di Stefano ma solo perché Stefano mi allena e ha la responsabilità altissima di farmi sentire figa e tonica e non si sa mai se deve dirmi qualcosa di fondamentale per il mio metabolismo allora la sola deroga è per lui. Io che ho tolto la possibilità di visualizzare il mio ultimo accesso perché non sono affari tuoi quando io accedo, io che cerco di evitare tutte le scocciature perché so di non avere una dose sufficiente di diplomazia a disposizione prima di replicare con insulti o comunque malamente, non potevo rischiare di maltrattare il meglio della VB. Allora abbiamo deciso di regalare a Pepe il suo telefono, il padre è andato a comprarlo, le ha attivato la sim, le ha scaricato WhatsApp e le ha detto: “hai uno strumento in mano, mi raccomando a come lo usi, altrimenti con mamma poi vediamo”.

Con mamma.

Poi vediamo. Cosa? Niente, non si sa.

Ho pensato alla mia amica Cri, che non so se legge, se legge si ricorderà sicuramente, quella volta che sua figlia da piccola, forse in prima o seconda elementare a cena ha chiesto “cosa sono i preservativi?” e lei è rimasta con la forchetta per aria mentre il marito diceva “non lo so” e per un attimo anche lei ci ha creduto che lui non lo sapesse perché lo ha detto proprio così, che dovevi crederci, con che candore vedessi, mi aveva raccontato.

La prima persona alla quale Pepe ha mandato un messaggio è stato mio fratello e da quel momento hanno iniziato a sentirsi, a mandarsi vignette divertenti, sono dovuta intervenire qualche volta perché lei deve seguire le lezioni e finire i compiti, lui è indisciplinato e poi mi dice “ha iniziato lei”. Dopo due settimane, Pepe ha silenziato i gruppi, spegne quando va a giocare a tennis e si dimentica dove lo ha appoggiato. È diventata me.

Linkedin mi avvisa che il mio profilo sta avendo successo. Io non ci credo. Mi sembrano messaggi di nostalgia, c’è un trucchetto, come nei giochi della Chicco 12+ o 18+, quelli sonori, tu li accendi e loro fanno lucine e musichette, impari il ritornello e schiacci il quadrato giallo e il triangolo verde, poi te ne vai, lo lasci da parte, fai altro, giochi con un’altra cosa e dopo un po’ il maledetto Chicco si illumina e dice “Ciao Ciao”. Ti richiama, si ripropone. A me il mio profilo su Linkedin che sta avendo successo mi sembra quel ciao ciao e non mi distrae comunque, non ci casco, non vengo a controllare perché ho dimenticato la password e ogni volta devo ammetterlo cliccando su hai dimenticato la password e mi dà fastidio e devo fare la procedura  di ripristino e alla fine scopro che la nuova password che digito è uguale alla precedente, magari mi dimenticavo solo un carattere maiuscolo o speciale e comunque non c’è niente di speciale . Ma poi che successo potrà mai avere un profilo? Cosa vuol dire? La parola successo, in fondo, è già disturbante di suo. È un participio passato, c’è poco da nutrire speranze. Il passato si ricorda, non si spera.

La storia di Nina e Stefano, quella che sto scrivendo, riemerge ciclicamente. Ho mandato la seconda versione a Mara, non le è piaciuta, ma nemmeno a me. Però abbiamo convenuto che lei non può farmi da lettrice di prova perché è come se mi leggessi da sola, non vale. Gira e rigira, la storia non trova l’azione, resta sempre lo sfondo, questi due che hanno attraversato la vita e non riesco ad acciuffarli per fargli fare una cosa, una sola, quella. Aspetterò ancora un po’, ma no, la seconda revisione verrà cestinata. Meglio sullo sfondo che a fondo.

Mi sono fissata con le tre ceste per la roba sporca che ho in lavanderia. Ne ho una sola per la roba da stirare, mi sembra strano. A volte penso di avere la meglio ma è un’illusione ottica, sono sempre tutte piene. Ho ipotizzato che si fosse trasferito qualcuno da noi, qualcuno che non so, non conosco ma che mette a lavare di continuo. La lavanderia è il mio ufficio, a casa. Quando Lui rientra la sera spesso non lo sento arrivare, mi chiama e poi chiede alle ragazze “dov’è mamma?”, in ufficio, rispondono loro e allora lui arriva in lavanderia e mi trova seduta su uno sgabello che smisto biancheria, colorati, bianchi, intimo, sportivo, lenzuola e asciugamani. Secondo lui lavo troppo, cioè non ci sarebbe la necessità di lavare sempre e tutto, lo rassicuro che no, non è una mania, dormi tranquillo gli dico e lasciami lavorare. La lavanderia è mia. Le ceste mi guardano e mi sento come un assessore lombardo di fronte a due infetti contemporaneamente, anzi peggio, perché loro sono tre e io una da sola.

Ho comprato mascherine bellissime, alle ragazze le ho fatte ricamare, per me ne ho presa una con la stampa della Notte Stellata e un’altra con un mandorlo in fiore, Pepe dice che è un ciliegio ma no, è un mandorlo, l’altro giorno ha detto albero di fichi ma poi si è messa a ridere, come ride lei, che senti caldo e ho capito che mi stava prendendo in giro.

Scrivo moltissimo, cancello, riscrivo. Prendo appunti, moltissimi appunti, su quello che penso, come lo penso e quando lo penso e gli appunti non li riscrivo mai.

Scrivo moltissimo e lascio riposare, non ho fretta. Distinguo tra urgenza e fretta e allora mi accorgo che scrivo per l’urgenza di farlo ma senza la fretta di farlo, lascio stare tutto dopo che è venuto fuori, quando è lì, sul foglio, come se dovesse asciugare e aspetto. Quando torno scopro se mi piace, se è ancora urgente e pungente e stringente o se si è risolto in un niente. Scrivo moltissimo e senza un motivo che non sia la scrittura, sembro Forrest Gump con la corsa, scrivo moltissimo e sono felice.

Le ragazze hanno riscoperto un gioco che avevamo inventato quando erano piccole. La fanno questa cosa, loro, ogni tanto, ritirano fuori da qualche cassetto della memoria avvenimenti o situazioni lontane e me le ripropongono. Forse hanno imparato guardandomi tirare fuori dal baule della loro bisnonna giochi messi via perché inutilizzati e che magicamente dopo mesi sembravano nuovi. Adesso hanno rispolverato il gioco “Vediamo quanto mi conosci”, inventato da me molti anni addietro quando per intrattenerle mi ingegnavo con le sole abilità che ho e che non sono certo di natura manuale. Niente lavoretti con il pongo, niente pasta di sale, niente pittura o lego o costruzioni. Noi si andava via di scomposizione delle parole, di numero di parole trovate con la stessa iniziale, di nomi di persona cose e animali.

“Vediamo quanto mi conosci” funziona così: io ti chiedo cosa mi piace di più tra due alternative e tu rispondi. Se è giusto mi conosci bene, altrimenti no. Facile.

Esempio: tra il gelato al cioccolato e quello alla menta? Menta! Giusto!

Tra il mare e la montagna? Mare! Giusto!

Questa era la versione base. Adesso l’abbiamo elaborata, andiamo a fondo, le alternative sono sottili e a volte perfide, scavano, non sono scontate e rivelano sorprese. Comunque, ogni volta che tra le alternative metto Justin, il mio cagnolino, loro lo sanno. È come quando l’istruttore di scuola guida mi aveva detto che se nei quiz avessi trovato “tromba bitonale” sarebbe stata sicuramente falso. Non ho mai verificato. Ma sono passati ventitré anni non so ancora cosa sia una tromba bitonale.

Per la Festa della Mamma ho ricevuto regali molto belli. A me non frega niente della Festa della Mamma, né come figlia né come mamma, ma le ragazze sono state davvero brave, quest’anno, senza la costrizione dei lavoretti a scuola, senza negozi dove andare a comprare si sono inventate qualcosa.

Pepe mi ha regalato una capsula del tempo fatta con un barattolo di marmellata vuoto, lavato, ridipinto e decorato con miei smalti di diversi colori. All’interno quel che servirà, sempre. Pezzi di vita che parlano di me, di loro, di noi, dell’Eden, di questa età strana che stiamo vivendo, un viaggio di cui loro sono le protagoniste e io a volte un compagno di avventure, a volte un controllore, a volte l’inserviente che igienizza i cessi, a volte solo il punto di partenza, di certo mai la destinazione. Nella capsula del tempo ci siamo noi per come vorrei ricordarci.

Cristina mi ha dipinto una tela con una scritta dedicata, mi è piaciuta moltissimo, la voglio appendere in studio, quello vero, non in lavanderia, l’ho dovuto specificare perché appena l’ho detto Pepe ha subito pensato alle ceste dei panni sporchi, alla mia postazione di lavoro lì, nel bugigattolo tra detersivi e scope poi si è messa a ridere, come ride lei che senti caldo.

Per ora entrambi i regali sono sul comò della mia camera da letto, li guardo ogni mattina e ogni sera. Come quando erano piccole vengono nel lettone, qualche minuto, di mattina appena sveglie e la sera, prima di andare a dormire, quando io sono lì, con i miei cuscini tirati su, a leggere e prendere appunti su di me, come per ripassarmi da capo, prima dell’interrogazione e allora chiedo:

“Tra me e voi?”

“Noi.”

Si, dico. Noi.

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Pensa se

 

Pensa se ti dicessero che da domani basta tutto chiude e non puoi uscire se non per comprovate esigenze di lavoro o salute o necessità e a te venisse da ridere e da tirare il fiato a dire “ma davvero?”.  Pensa se il mondo si fermasse e non ci fosse più la scuola alle 8 e la cafona con la macchina in doppia fila e la scuola alle 16 e la cafona con la macchina in doppia fila che anche la cafona deve stare chiusa in casa e pensa se il mondo si fermasse così come il castello della Bella Addormentata che quando lei si punge il dito con il fuso dell’arcolaio la cuoca resta con il mestolo a mezz’aria, lo stalliere resta fermo con la striglia in mano accovacciato sulle zampe del cavallo che anche lui resta fermo con lo zoccolo destro anteriore appena un po’ più avanti dell’altro ma solo perché è più elegante restare fermi così e tutto rimane esattamente com’è.

Pensa se non potessi vedere qualcuno: chi non vorresti vedere? A parte la cafona in doppia fila, chi non vorresti vedere? Che si fa in fretta a tirare giù lacrime ed elenchi di quelli che ti mancano ma prova a dire chi non vuoi vedere. Pensa se si potessero fare i nomi con tranquillità, pensa se nessuno si offendesse, pensa se a nessuno importasse di chi non vuoi vedere tu che tanto non stiamo parlando di me, che quelli che non voglio vedere non ho bisogno di un incantesimo o di un provvedimento normativo per non vederli, mi basta dire come la penso.

Pensa se si dimenticassero di dirti che va bene, da domani si può uscire senza comprovate esigenze di lavoro o salute o necessità. Pensa se dovessi stare lì dove sei adesso a fare quello che stai facendo adesso. Cosa stai facendo? Ti sfili le mutande dal culo con un movimento preciso. Stendi. Mangiucchi. Scorri i profili WhatsApp per vedere le foto. Fai la spesa online. Guardi la Vita in Diretta e fai finta di no. Lavori perché sei uno di quelli che ha lo smartworking e non sai nemmeno se la parola esiste. Pensa se non esistesse, staresti facendo una cosa chiamandola in un modo inesistente che non vale a rendere inesistente quello che fai intendiamoci. Pensa se, invece, non esistesse quello che fai. Cosa faresti? Sapresti cosa fare? Cos’altro fare? Hai un piano B? Un progetto? Un sogno? Un cassetto? Del lievito? Impareresti a fare altro o resteresti con lo sguardo fisso su una piastrella che compare davanti a te tra le tue ginocchia mentre sei seduto e non sai?

Pensa se le madri fossero buone e i padri eterni. O il contrario. Pensa se i figli non ti giudicassero mai, nemmeno a un certo punto della loro vita che coincide con un certo punto della tua e sono punti lontani ma attraversati da una sola e una sola retta e pensa se quella retta invece di chiamarla vita la chiamassimo lama chi impugnerebbe il manico? Pensa se ti accorgessi che lo stanno facendo, i figli, che ti stanno giudicando e pensa se ti fosse dato in dono il potere di essere il solo ad accorgertene che quando mai si è visto un genitore che se ne accorge, pensa se tu te ne rendessi conto. Avviseresti gli altri? Urleresti che succede così, che i figli fanno così, metteresti in guardia gli altri? Pensa se le madri fossero buone e i padri eterni. O il contrario. Pensa se le madri a un certo punto ti dicessero che vai bene, che sono orgogliose del lavoro che hanno fatto e possono considerarlo concluso e si togliessero dal grugno la smorfia insoddisfatta che lascia un quattro di matematica o un orario non rispettato e pensa se al posto di quella smorfia ci fosse il sorriso di chi ha scampato il pericolo e ora sono cazzi tuoi.

Pensa se al corso preparto ti spiegassero che la vera minaccia a ogni equilibrio familiare non è il pianto da colica e nemmeno l’allattamento a richiesta ma sono i nonni. Pensa se ti insegnassero a medicare il cordone e tenere a bada i nonni nello stesso ciclo di lezioni con esempi pratici. Pensa se il pediatra ti scrivesse nella ricetta con la posologia della vitamina D anche la posologia di rotture di coglioni alla quale puoi sottostare e oltre la quale sei autorizzato a dire che c’è pericolo per la salute. Pensa se i nonni si fermassero sulla soglia, appena sotto il fiocco con il nome ricamato, tanto non gli piace davvero il nome che hai scelto, fingono, pensa se fermi lì bloccati come la cuoca con il mestolo e lo stalliere con la striglia impossibilitati a muoversi arrivasse qualcuno di autorevole, un Arcangelo o una puericultrice di quelle viste in televisione, a dirgli di ricordare prima di aprire bocca, ricordare quando trent’anni fa, quarant’anni fa erano loro ad aver scelto un nome di merda, frutto di una libera decisione o di un compromesso generazionale, erano loro ad avere le ragadi al seno e privazioni di sonno utilizzate solo in certi regimi dittatoriali, ricordare quanto non sopportassero di dover dare spiegazioni e rendicontare ogni spostamento come se avessero perso improvvisamente qualche decennio o il senno e solo dopo aver ricordato come si sentivano loro e quel che provavano loro solo dopo, solo allora sentirsi liberi di parlare. Ma senza dire cazzate. Pensa se poi con uno schiocco di dita i nonni si risvegliassero potendosi muovere liberamente e oltrepassando il fiocco come risorti a nuova vita fossero in grado di mantenere fede a quel disegno programmatico sintetizzato nell’espressione “se hai bisogno ci siamo altrimenti non disturbiamo”.

Pensa se i figli a un certo punto la smettessero di fare i figli e si rendessero anche un po’autonomi per davvero e non pretendessero sempre un aiuto, pensa se i figli si preoccupassero di non ferirti perché ormai sono adulti e tu sei vecchio, inutile dire altro. Sei vecchio. Pensa se non ti dicessero tutto quello che non va ma solo quello che va, pensa se non ti comunicassero che devono fare degli esami di controllo perché il dottore vuole vederci chiaro e ti risparmiassero di stare in ansia, in apprensione, che sei vecchio, basta. Pensa se ti telefonassero spontaneamente, senza sollecitazioni da parte di chicchessia, pensa se quella chicchessia ti piacesse come sarebbe più facile anche ammettere che se ti chiama non è merito tuo, ma merito suo. Della chicchessia. Alla quale stai sul culo anche tu, non ti preoccupare. Solo che è più furba.

Pensa se la reciprocità fosse un’applicazione gratuita del telefono, ce l’avremmo tutti. E la useremmo, la sprecheremmo persino. Pensa se tu mi bloccassi con l’auto perché sei una cafona inarrivabile e pensa se io non potendo uscire dal parcheggio mi incazzassi molto e però poi andassi a prendere un caffè e al mio ritorno non ti trovassi più e però nel tragitto avessi inviato con l’app una richiesta di reciprocità e così tu, mentre stai uscendo dal tuo garage una mattina di pioggia scrosciante con il cancello elettrico che fa le bizze perché c’è anche il vento, forte, pensa se tu con i cristi che ti viaggiano su e giù tra il cervello e la bocca e i figli dietro seduti male e con il suono delle cinture che non si allacciano e un ritardo accumulato già a livello mentale ti trovassi bloccata da un’auto lasciata così, davanti al tuo carraio. Pensa se, invece, tu incrociandomi per caso e parlando con me per qualche minuto, almeno una decina, andassi oltre i convenevoli e mi dicessi che ho una caccola gigante nel naso e porgendomi un fazzolettino di carta ti voltassi mentre io me la tolgo discretamente ma comunque riconoscente e poi io buttassi il tutto, civilmente, in un cestino all’angolo della via dopo averti salutato e allora sorridendo manderei una richiesta di reciprocità e pensa se tu, così, mentre sei in coda alla cassa incontrassi lo sguardo del ragazzo davanti a te che ti invita a passare avanti, tanto hai solo due cose al massimo tre e tu gli dici “davvero?” e lui ti rassicura, si si davvero e allora tu lo ringrazi e lui sente di aver fatto cosa buona e giusta e che sua nonna sarebbe fiera di lui anche se gli direbbe che non avevi una faccia davvero riconoscente e che comunque va bene essere buoni ma fessi no ma tanto sua nonna è morta, pensa se fosse viva che stronza.

Pensa se non ti importasse di andare a vedere cosa fanno gli altri. Pensa se agli altri non importasse di sapere cosa fai tu. Pensa se ognuno avesse le proprie ossessioni a vista così da dirla tutta e subito a chiunque, pensa se bastasse dirla un’ossessione o scriverla invece di pensarla, pensa se tutti dichiarassimo qual è la nostra ossessione. Pensa se sapessi che io canto Nuova Ossessione per calmarmi quando serve, pensa se ti dicessi che la mia ossessione me la tatuerei sul polso sinistro in un misto tra corsivo e stampatello come scrivo io che non uso un carattere soltanto e sarebbe solo abc scritto così, quasi di fretta e sbadato e pensa se si capisse davvero cosa significa,smetterebbe di essere un’ ossessione forse. No.

Pensa se cancellassimo la parola resilienza dai vocabolari, da tutto, pensa se potessimo con una bacchetta magica anche un po’ sfigata e improvvisata praticare l’Oblivion a tutti quelli che la usano a vuoto, pensa se lo facessimo quante braccia senza scritte, quanti tatuatori fermi con l’ago a mezz’aria come la cuoca con il mestolo che non ricordano più  qual era la parola e pensa se decidessero loro solo guardandoti in faccia di scrivere quel che gli pare e pensa se alla fine ti stesse bene così, pensa se avessero ragione, alla fine.

Pensa se i bambini fossero tutti simpatici o almeno più simpatici. Pensa se le persone non ti guardassero male perché dici che preferisci i cani ai bambini, come argomento e come compagnia. Pensa se non dovessi ogni volta dire siiiiiiiiii lo so che ho due figlie e mi piacciono molto sai perché mi piacciono molto? Perché non sono più bambine intese come bambine a forma di bambine con scarpe da allacciare e nasi da soffiare – non tirare su, in giù, soffia bene in giù, no, non su, giù- e comunque i bambini degli altri non mi piacciono, siiiiiii lo so che sono belli ma i bambini mi annoiano e non sto dicendo che sono brutti sto dicendo che non mi interessano, come le armi da fuoco e la MotoGP, non mi interessano. Pensa se non fosse così complicato ogni volta e alla fine dici solo si, belli, belli per fortuna esistono i bambini. E i cani.

Pensa se mannaggia a loro un giorno ti dicessero che da domani puoi uscire per fare quel che vuoi senza comprovate esigenze. Così. Basta, puoi uscire. Niente più allenamenti in videochiamata  con la doccia lunga quanto vuoi e calda quanto vuoi un attimo dopo aver pigiato il pulsante rosso e perso la faccia perfetta dell’istruttore che ti ha vista con i capelli di merda ma che ti dice che sei in forma perché occupi poco spazio nello schermo del cellulare e pensa se mai ti avessero detto che avresti apprezzato un siffatto complimento, adesso devi prendere la macchina e andare a sudare in mezzo ad altri dieci stronzi come te che non si arrendono al gluteo calante ma comunque a distanza e igienizzandoti di continuo. Niente più lavatrice che va mentre bevi il caffè, il secondo della mattina e rispondi alle mail con frasi che sarebbero fini a se stesse e servirebbero a chiudere la comunicazione se non fosse che dall’altra parte l’intenzione è quella di sfinirti di mail così da farti dire “basta si fa come dico io”. Pensa se ognuno si prendesse un pezzetto di responsabilità. Piccolo, quel che può, come la beneficenza. Pensa se ti dicessero che sei libero di uscire e tu non avessi nessuno da voler vedere e ti rendessi conto che da chiusi in casa a chiusi dentro non è il passo che è breve, è la predisposizione individuale che fa la differenza. Niente più movimenti ripetuti, sicuro come un non vedente in casa propria, niente più cassetti dove andare a sbirciare quando non è il momento per vedere se i sogni sono ancora lì. Pensa se non fossero plurali, i sogni. Pensa se fosse, alla fine solo uno, e pensa se ti sembrasse che uscendo svanirebbe, morirebbe di sete, non avresti il tempo di accudirlo, di osservarlo come fai con le ragazze che fanno lezione in camera e ti arriva il vociare della classe e ti sembra di vedere cose che altrimenti non vedresti e di sapere cose che altrimenti non sapresti e così è anche per quel sogno che se tu esci senza una comprovata esigenza un po’ lo tradisci, un po’ lo dimentichi, di nuovo, nel cassetto e poi le pagine del quaderno diventano gialle e la punta della penna si secca e tu resti con la biro a mezz’aria, come la cuoca con il mestolo. Pensa se bastasse un abc sbadato a cominciarlo, quel sogno.

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Tra me e me

 

“Non devi fare altro che scrivere una frase sincera. Scrivi la frase più sincera che sai.”

Non usiamo una sveglia, una sveglia a forma di sveglia intendo, perché io ho un problema con il ticchettio delle lancette, mi manda fuori di testa. Non abbiamo mai pensato a una sveglia senza lancette, però, una di quelle che sono proprio sveglie, che le compri perché hai bisogno di una sveglia. Noi usiamo un vecchio cellulare solo per la funzione sveglia. Cioè, io. Perché lui usa me come sveglia, che non sono comunque a forma di sveglia. Questo telefonino, è un Blackberry nero d’annata, lo usiamo perché ha la suoneria della sveglia che va bene, non mi irrita. Quello in uso prima di questo, sempre un Blackberry ma bianco, aveva anche il suono delle onde e infatti avevo impostato quello, invece questo nero non ce l’ha ma abbiamo trovato un compromesso. Cioè, io, io l’ho trovato. Con me stessa e la mia soglia dell’irritazione bassa, bassissima, inesistente.

Una volta ho usato l’esempio del telefonino vecchio e del telefonino nuovo per spiegare come vedo io la differenza tra chi ha figli e chi non ne ha. Il telefonino vecchio è il genitore. Il telefonino nuovo non è genitore. Il telefonino nuovo fa un sacco di cose che con il telefonare c’entrano poco, è bello, tutto da scoprire, ha funzioni notevoli e prestazioni veloci. Quello vecchio fa foto di merda, se le fa. La memoria si riempie subito, devi sempre scegliere cosa cancellare e cosa tenere e ti accorgi di quanto poco importanti sono le cose che cancelli che, anzi, come hai fatto a conservarle così a lungo. Non prende ovunque ma prende dove non te l’aspetti. Ma soprattutto, il cellulare vecchio ha una batteria che non ti molla mai.

La persona a cui avevo tirato, in breve, questo pippone non aveva figli e subiva molto il fascino dei telefoni, mi avevano detto, che a me sembra folle innamorarsi di un apparecchio con la mela smangiucchiata impressa sopra, folle proprio. Ma io mi innamoro di borse monogrammate. E non ho sveglie perché il ticchettio mi manda ai matti, quindi non posso parlare della follia altrui.

Si, sono una di quelle stronze che ti dice che certe cose, se non hai figli, non puoi capirle. Perché lo penso, altrimenti non lo direi.

“Non preoccuparti. Hai sempre scritto e scriverai ancora. “

Che poi le persone più belle che conosco di figli non ne hanno. Le mie amiche storiche, quelle proprio mie, quelle che mi porto dietro ad ogni trasloco come il vocabolario di greco, quelle che si sa che sono le mie e che, nel caso, me le porto via, me le tengo io se ci dovessimo dividere le cose. Anche le amiche più recenti, quelle del pezzo di vita dedicato alla pratica dello shiatsu, quelle che sono così diverse da me che se ci fossimo incontrate in un bar una avrebbe tenuto la porta all’altra senza nemmeno guardarsi, appena un cenno di ringraziamento per educazione e che invece la sorte mi ha concesso di incontrare a un certo punto della mia vita, in un certo momento, che il semaforo era rosso in qualunque direzione io cercassi di andare e c’erano quei pensieri, quelli che non si dicono, che li avevo da poco infilati in un borsone e nascosti sotto il letto, come per fuggire ma senza mai andare, però ci andavo a dormire la sera e con la mano scivolavo appena sotto la rete del materasso e toccavo ed era lì, il borsone, i pensieri, quelli che non si possono dire e allora non li dici. Ma sai che li hai pensati, tu lo sai che li hai pensati e che se anche sei riuscita- come?– a infilarli in un borsone e a cacciarli lì sotto li hai pensati. Guardando la finestra spalancata al terzo piano di quel palazzo durante una riunione. Il pedale dell’acceleratore in auto. Le rotaie del tram in centro.

A me piacciono tanto le persone senza figli, tranne quello del telefonino con la mela smangiucchiata, perché penso che potrei dirglieli i pensieri, quelli, e che forse non giudicherebbero perché loro non possono immedesimarsi e questo è meglio, è meglio se certe cose non puoi capirle.

Certe cose che poi sono solo pensieri, mica hai fatto niente, però esistono lo stesso, solo che nessuno lo sa, anche se non le chiami, se non gli dai un nome, anche se non le dici.

“Non preoccuparti. Hai sempre scritto e scriverai ancora. Non devi fare altro che scrivere una frase sincera. Scrivi la frase più sincera che sai.”

A dividerci le cose, adesso, ci sarebbe da ridere. I libri li terrei quasi tutti io, è ovvio. Ed è ovvio perché io se immagino di dividerci le cose parto dai libri. Gli lascerei i suoi, quelli di Terzani sicuramente. Sarebbe un problema per quelli di medicina cinese e di taoismo e di filosofie orientali che ci fa incazzare ogni volta vedere che in libreria li mettono nel reparto “esoterismo”. Però lui è un uomo generoso, credo che molti me li lascerebbe e se li ricomprerebbe. I cani, i cani farei la matta per averli io, sul piccolo, il chihuahua blasonato e perfido nemmeno il minimo dubbio, è il figlio maschio che non ho avuto, prepotente e sbruffone ma anche il grande che è la sua ombra, che il mangiare lo vuole da lui, però è mio, sono andata a prenderlo una mattina di marzo dieci anni fa, mentre lui era a sciare, ho portato con me Cri e Pepe, lei aveva 7 mesi, e siamo arrivate in questa casa, una mezza cascina, dove avevano la cucciolata e lui era l’unico a pelo lungo tra dieci, i genitori a pelo corto e con le orecchie ben dritte e questo gli era uscito con un orecchio moscio e a pelo lungo, l’ho guardato e gli ho detto che lo sapevo come si sentiva a non assomigliare a nessuno e allora l’ho portato a casa nel trasportino del gatto e quella notte mentre lui piagnucolava fuori dalla porta della camera da letto e cagava in corridoio e mangiava il tappetino della cucina, quella notte non l’ho mica sfiorato il borsone dei pensieri che non si dicono ed era la prima volta, anche se il borsone l’avevo appena messo lì e non avevo ancora finito di riempirlo, ero ancora nel pieno anzi, però io quella notte non l’ho toccato e ho dormito come un bambino quando la storia finisce e si spegne la luce e tutto va bene.

Le mie foto da giovane gliele lascerei tutte, così mi ricorderebbe sempre bellissima e starebbe male perché la bellezza fa male. Cioè, a me fa male. La mia, quella passata.

Il vocabolario di greco via con me, per carità, subito. Perché ci pratico la divinazione dal 1995 e forse non avrei dovuto dirlo, però lui è il mio oracolo non potrei separarmene, io chiedo e il vocabolario risponde e tante volte non devo nemmeno interpretare troppo, tante volte è preciso e sintetico. Per esempio quando gli ho chiesto della storia con lui mi ha garantito che non avremo mai diviso nulla se non la sorte, buona o cattiva che fosse.

“Non devi fare altro che scrivere una frase sincera. Scrivi la frase più sincera che sai.”

Mi sono accorta che si stava svegliando, ormai lo so, lo sento. Dal rimestare nelle viscere, le mie, anche se quello arriva per ultimo. Prima c’è il rumore sordo, che bello dire di un rumore che è sordo, si dice anche del dolore ma io non riesco, non per il mio, a me capita più il dolore muto. E lo stiracchiarsi lento, quasi indolente. Il lupo. Quello che mi vive dietro lo sterno, quello che sta nella gabbia toracica senza impazzire per il rumore del cuore, senza protestare ogni volta che prendo aria e butto fuori aria e prendo aria e butto fuori aria, resta lì e aspetta, dorme, aspetta. Mi sono accorta che si stava svegliando e non ho fatto niente per lasciarlo dormire, anzi. E così sono giorni e giorni, notti e notti in realtà, perché il lupo che mi vive dietro lo sterno preferisce la notte, che gira indisturbato e scava, annusa, ulula, fa quello che fanno i lupi, ma non quello che raccontano le pecore o i pastori, quello che davvero fanno i lupi. Lascia impronte. Cerca cibo. Aspetta ieratico e non si lascia avvicinare.

Il lupo che mi vive dietro lo sterno non mi farebbe mai del male, io non lo sapevo una volta, adesso lo so. E quando non dormo di notte gli parlo, gli racconto storie che conosce e che lo fanno addormentare, invece quando dormo di notte è lui che veglia, aspetta che io mi addormenti. Quando sono esausta io lascio che si svegli e che vada in giro.

Son cose che a dirle in giro ti prendono per matta ma secondo me è pieno di gente che ha un lupo dietro lo sterno o chissà cosa e non lo dice. Ma non è che se non lo dici il lupo o chissà cosa non esiste. Esiste, anche se non lo dici.

“Non preoccuparti. Hai sempre scritto e scriverai ancora. “

Sposo le cause altrui sul lavoro e poi mi incazzo. Mi fa incazzare la mancanza di reciprocità, nella vita non solo sul lavoro.

Mi fanno incazzare un sacco di cose e poche persone comunque sempre per gli stessi motivi.

Blocco. Sui social come nella vita reale, ho bloccato anche dei ragazzini perché colpevoli di essere figli di quei genitori. Si, sono una di quelle stronze che pensano che no, le querce non fanno limoni. E comunque ai ragazzini i profili sui social andrebbero aperti chiusi. Che bello dire che devi aprire chiuso qualcosa. Faccio il dito medio se ti vedo in mezzo alla strada e non ho cazzi di vederti, purtroppo con una mano sola se l’altra è impegnata a tenere una delle mie borse monogrammate.

Sono morta, qualche volta. L’ultima è stato di notte, che nessuno se n’è accorto, solo il lupo. Il giorno dopo ero viva ma nessuno se n’è accorto, solo il lupo.

Non sono empatica. Mio marito ultimamente dice spesso “mi fa tenerezza” riferito a qualcuno o qualcosa verso il quale io contestualmente dico “mi fa incazzare”. La sua strada verso l’illuminazione sarà molto più veloce della mia, ma non sono invidiosa, che vada, se ci dovessimo dividere la buddità la prenderebbe tutta lui, Io non ci riesco proprio a non incazzarmi. Ogni tot tempo devo buttare giù, demolire, bruciare e poi vedere cosa rinasce spontaneamente. Rivolto il terreno, tutto. Poi aspetto. Quello che spunta lo curo, il resto non ci provo nemmeno a ripiantarlo. Non credo nella famiglia come istituzione sana e positiva, penso sia la culla di ogni male, quello per cui dobbiamo preoccuparci e occuparci di avere un borsone sotto il letto e cose da non dire come se a non dirle non esistessero. Quello per cui devi sperare di avere un lupo che vive dietro lo sterno e che resti svegli al posto tuo.

Quello per cui dici, altrimenti non potresti più pensare.

“Non preoccuparti. Hai sempre scritto e scriverai ancora. Non devi fare altro che scrivere una frase sincera. Scrivi la frase più sincera che sai.”

 

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Elenco delle cose che fingerò di aver capito durante questo periodo

 

Durante questo periodo ma solo per ammantarle di maggiore intensità, come se capire qualcosa durante una quarantena di oltre cinquanta giorni nel mezzo di una pandemia che però a me, sinceramente, non mi ha turbata manco di poco fosse frutto di un lavoro profondo condotto su di sé, di un’introspezione spietata. E invece no. Perché già avevo capito, perché già ci sono nata con quella cosa spietata verso di me, dentro di me, in fondo a me che più di così solo un’analisi delle ecografie di quando il feto ero io. Ma è perché non esistono, altrimenti pure quello avevo già fatto. Non esiste niente che racconti il mondo quando mi aspettava, esiste il mondo prima di me, il mondo con me, esisterà il mondo dopo di me. Non esiste niente che racconti il mio viaggio prima, cosa succedeva prima, se qualcuno aveva lo sguardo puntato verso di me che ancora non c’ero ma stavo arrivando. Niente. Qualche foto di mia madre con un pancione enorme, una bambina con un cuscino appallottolato sotto un abito a fiori che gioca a diventare mamma. Io e mia cugina mettevamo il cotone nella canottiera per fingere di avere le tette, poi a lei sono cresciute per davvero, io ancora aspetto ma ho tolto i batuffoli e la canottiera.

Oppure fingerò e basta e non avrò comunque capito per tagliare corto in una conversazione quando non voglio che diventi una discussione, sempre più spesso, una leonessa stanca forse, o solo qualcuno che sa di non avere tempo.

  • Sono molto più credibile come lettrice che come madre. Le persone mi chiedono un sacco di consigli sui libri da leggere, io li dispenso generosa come non sono di natura e interpreto la necessità, la soddisfo, come un erborista che prepara l’infuso giusto. Sono stata nominata per ben due volte, forse tre, dai miei contatti facebook per quel giochino 10 libri in 10 giorni, 7 libri in 7 giorni. Ovviamente non ho partecipato perché non me ne fotte di fare queste cose. Invece nessuno, nessuno dei miei contatti mi ha nominata per fare la sfida della mamma più felice: nomina anche tu una donna che pensi sia una mamma speciale e sfidala a postare una foto, una soltanto, nella quale si sente la mamma più benedetta del mondo. Zero. Nessuno dei miei 100 contatti scarsi (sono una pessima utente dei social) ha pensato adesso nomino Sonia che comunque essendo mamma di Benedetta detta Pepe una qualche cazzo di credibilità come mamma benedetta dovrà pur averla. Zero. Ho visto nominare persone che non conosco ma che hanno delle facce che insomma pensi che i figli proprio gli sono capitati, che glieli hanno attaccati ai fianchi per fare la foto, come le scimmiette al circo, Cristina ha una foto così, scattata al circo appunto, con mio padre credo, il circo è una cosa che si fa con i nonni, e ha una faccia terrorizzata e disgustata e vorrebbe essere altrove e anche la scimmietta comunque non voleva starci lì, si vede chiaramente. Ho visto nominare persone che conosco che è meglio se fingo di non conoscerle così almeno non saprei quello che so. Comunque, niente, come mamma non convinco. Sappiate, cari contatti,  che non avrei partecipato perché non me ne fotte di queste cose.

 

  • Di politica non bisogna parlare. Mai. Esattamente come fanno i politici, mai. E nemmeno di religione, che poi è noiosa uguale. Ho fatto una cazzata: sono andata sulle pagine social di personaggi che detesto, pubblici, politici, sedicenti politici, solo per vedere quale tra i miei contatti li seguisse. E ho visto. Già lo sapevo, cioè lo sospettavo, lo pensavo, lo intuivo ma adesso ne sono certa. E se allora prima di uno pensavo che si, in fondo, è solo un ingenuo segaiolo adesso penso lurido onanista, se prima di quello pensavo che si, è solo un ragazzo limitato adesso penso che è immerso in un livello di conoscenza preculturale nel quale sguazza beato come un ippopotamo nella propria merda, li ho visti gli ippopotami allo zoo che non si chiamano più zoo come quello dove andavo da bambina, adesso si chiama safari park, ma è quella roba lì, ci avevo portato le ragazze quando erano più piccole, che comunque andare allo zoo è una cosa che si fa con i genitori.

Ho sbagliato ma ormai è fatta, continuerò a non parlare di politica con queste persone e forse parlerò sempre meno di tutto il resto perché comunque c’è un problema, grande, di fondo e cioè che io sono dispettosa ma davvero. E siccome a me della politica non me ne fotte proprio, io non voto da decenni che pure quando andavo al seggio poi scrivevo robe estemporanee che pensavo, tipo haiku, sulla scheda elettorale, tre versi a contenere il mio disappunto, siccome a me puoi dire che a destra fanno schifo e a sinistra di più perché, tanto, non mi tocchi in nessuna ideologia, in nessuna idea, siccome è così, ecco, se io so che l’onanista punzecchiato su quella roba invece reagisce ecco, niente di più facile che io lo punzecchio solo per vedere se esce acqua, come gli hamburger quando li butti sulla piastra e si rimpiccioliscono e sai che è carne di scarsa qualità. Secondo me l’onanista si rimpicciolisce. Parlerò sempre meno fino a non parlare più, come una leonessa stanca. Come qualcuno che sa di non avere tempo.

 

  • C’è un sacco di gente che ha un sacco di amici addetti ai lavori. Quali lavori non si sa ma sicuro sono ammanicatissimi e sanno già tutto. Quando finirà la quarantena, quanta gente c’è davvero nelle terapie intensive, i numeri, i numeri che sono sbagliati, la scuola che no, non riprenderà, le mascherine, no, il giro che c’è dietro le mascherine, ingenua che sei, che sono, non sai che giro c’è dietro le mascherine? No, non lo so, so che sono contenta che alcune persone debbano tenerla su, gliela lascerei obbligatoria a vita ad alcuni. Io non ho amici addetti ai lavori, quindi non so niente in anteprima e con certezza e per vie traverse, so però che a molti piace sentirsi un po’importante, se non per qualcuno perché non c’è quel qualcuno, almeno per qualcosa.

 

  • I maschi sotto i diciotto anni hanno voci odiose. Sono inascoltabili. Per carità, le femmine si dividono in due gruppi: le peppie e le inesistenti. Le peppie sembrano quella mia prozia zitella che poi alla fine ce l’ha fatta pure lei, “ha trovato” dicevano le sorelle ammogliate di lungo corso, ma nonostante il buon esito della ricerca le era rimasto quel fare noioso, sempre a puntualizzare, a dire agli altri come cosa e perché e soprattutto era sempre considerata zitella, come se quello che aveva trovato fosse un accessorio. Le inesistenti invece sono quelle che ti accorgi che non ci sono a metà dell’ora, quando le chiami per consegnare il compito corretto e allora scopri che nemmeno le avevi segnate assenti. I maschi però. I maschi. Cioè, alzano la mano e quando gli viene data parola questi invece di rispondere chiedono “qual era già la domanda”. Io non potevo crederci. Poi è successa questa cosa della didattica a distanza e allora mi succede di ascoltare le lezioni e le interrogazioni e gli interventi, la correzione dei compiti. Io dopo dieci minuti che li sento parlare non ne posso più. Ci sono i fenomeni, quelli che hanno la madre che gli dice, sicuro, che sono molto intelligenti e forse lo sono pure però per favore non ditegli anche che devono sempre candidarsi a leggere a voce alta. O che tutto quello che dicono è, davvero, interessante. Ci sono i paraculo, quelli che hanno la madre che gli dice , sicuro, che sono belli e simpatici e forse lo sono pure però per favore ditegli anche di smettere di toccarsi in mezzo alle gambe quando parlano. Per favore.

 

  • Inglese mi fa schifo. Ogni volta che arriva una mail della maestra di inglese mi vanno gli occhi al cielo e impreco malamente. La maestra di inglese scrive le consegne dei compiti in inglese ovviamente e a me sale un urto, ma un urto, un urto che le risponderei in latino e che palle. Matematica, geometria e scienze via, potrebbero non esistere. Anche se ho finalmente imparato la formula dell’area del cerchio. Ma non l’ho capita. L’ho solo imparata. Storia è sempre la mia preferita, geografia mi uccideva da studentessa e continua anche adesso, la morte per noia me la immagino così, durante una lezione di geografia. In analisi logica sono ancora e sempre campionessa del mondo, Cristina arranca un po’, Pepe le spiega la differenza tra predicato nominale e verbale almeno una volta alla settimana, io sovraintendo e intervengo quando le frasi si complicano un po’ ma solo per aiutarla a ragionare. A quale domanda risponde? Il complemento, a quale domanda risponde? C’è sempre una domanda alla quale rispondere. Cri a volte non sa rispondere, io a volte non voglio rispondere. Come una leonessa stanca, come qualcuno che sa di non avere tempo. Come chi ha capito che la domanda è più importante della risposta.

 

  • Mi affascina la manualità che non ho. Sono nota per non essere in grado di fare alcunché di manuale, sarà per questo che guardo rapita per mezz’ore intere e senza mai distogliere lo sguardo quei video che mostrano i mille utilizzi di una bottiglia di plastica, cosa ci si può fare con un paio di forbici e della colla a caldo. Oh, la colla a caldo. Non saprei da che parte cominciare. Il tappo della bottiglia di plastica, non buttatelo. Se lo forate e lo incollate alla piastrella diventa un portaspazzolino da denti. Irripetibile.

E le ricette, i dolci, gli impasti e la glassa e la forma del Pan brioches e tutti quegli ingredienti che no, io non ho a disposizione e che anche se li avessi no, no verrebbe mai così. Io guardo e so che no, io no. Mai. E con un calzino vecchio si può fare una mascherina, basta un paio di forbici e le forbici sono la sola cosa che ho ma io no, io non so tagliare andando dritta lungo una riga tracciata su un foglio figuriamoci fare una mascherina con un calzino, no, io no ma come è bello guardarli questi che con le mani sanno fare tutto. No, io no. Il regalo per la festa della mamma fatto a scuola, mi dico, Sonia, mi dico, ricordati quello. Quale, quello? Si, quello, mi rispondo. Quello. Il bocciolo di rosa sul rametto, di creta, dipinto a mano. Quello, Sonia. Che sembrava la deiezione di un cane con del sangue raggrumato sopra, roba da portarlo dal medico e non alla mamma. Si vedeva tra tutti, appoggiati sul davanzale della classe, si riconosceva senza leggere il nome, la maestra non aveva nemmeno controllato, sapeva già quando me lo ha restituito per portarlo a casa. Gli altri erano bellissimi, il mio no, io no. Scusa mamma, te la rifarei quella rosa ma lo sai, mamma, verrebbe uguale a quella lì, che avevi riso guardandola e lo sapevo mamma, lo sapevo che era una schifezza, mamma, tu che con le mani sapevi fare tutto e io invece no, no, io no, però l’avevi messa lo stesso lì, mamma, ricordi, sul comò della tua camera da letto, mamma, dove appoggiavi i gioielli, mamma.

 

  • Posso vivere senza vedere o sentire la quasi totalità delle persone che conosco congiunti compresi anzi congiunti soprattutto. Ho pensato di essere una bestia, peggio di una bestia. Ho pensato di essere anaffettiva, completamente. A volte lo penso ancora, in certi momenti di certe giornate quando mi sembra di non aver capito niente, di essere qui come potrei essere altrove, ovunque, e che in fondo me ne fotto di cosa succede fuori, chi ci vuole andare fuori a vedere, a sentire la gente, tutta questa gente. Mi viene il groppo in gola, un pugnetto chiuso sulle tonsille quando penso che no, io no, non sono anaffettiva o una bestia , solo che io sono così. Solo così. Sono una che con le mani non sa fare niente, una a cui non pensi di associare le beatitudini della maternità, una che no, non gliene fotte di un sacco di cose. Una a cui non manca nessuno, perché le ragazze sono qui, lui è qui. Quando Cristina aveva un anno e mezzo e sua sorella era un abbozzo nella mia pancia ma c’era la sua ecografia che anticipava al mondo, a me, che lei stava arrivando e che quindi no, il mondo sarebbe cambiato e che no, io no, nemmeno io sarei più stata uguale, un pomeriggio Cri ci aveva presi per mano, a me la destra e a suo padre la sinistra e pensavamo volesse fare quella cosa del vola vola vola e invece lei aveva detto “mamma,papà, io, tutti” e avevo sentito il pugnetto chiuso sulle tonsille perché avevo capito la domanda, quella, quella che mi facevo di continuo da quando infilavo il cotone nella canottiera e mai un cuscino sotto il vestito, no, io no, io mai  e che mi sembrava di ripeterla e basta, come la formula dell’area del cerchio, di ripetere una cosa che però no, io no, io non la capivo e invece lì, con la mano stretta sul pugnetto di Cri ecco, lì, capivo la domanda, quella, e iniziavo a lasciar perdere le risposte, come una leonessa stanca, come qualcuno che sa di non avere tempo.

 

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