Stanotte

Giri di notte per casa, come i fantasmi. Con un lupo che ti rosicchia le costole, un pastore tedesco che si mangia le unghie perché è stressato e un chihuahua che lo sa cosa hai, stanotte, sempre, perché è come te. Sono notti in cui ti dai del tu, c’è confidenza. I fantasmi non ti hanno mai fatto paura, non più di alcune persone, non più di alcuni pensieri che no, non dovresti scrivere soprattutto qui ma poi te ne fotti e ti dici dove cazzo li scrivo se non qui.

È strana questa casa, questa cosa di questa casa che vivi qui da quanto, 19 giorni, e ti muovi di notte come se fossi sempre stata tra queste mura e non devi prendere le misure, cercare le porte o ricordarti gli interruttori. Tanto non l’accendi la luce di notte, vero. No, le ragazze dormono al piano di sopra, non le sveglieresti comunque, non è loro che non vuoi disturbare con la luce accesa. Hai il fiato corto, capita con le costole smangiucchiate.

Anche con Lui era andata così, con la sua pelle, la prima volta, la prima carezza, la schiena nuda, la sua, la tua, non si capiva mica, non si distingueva, tu non distinguevi. Era come averla toccata da sempre, forse eri un fantasma nella sua vita, prima, quando aveva paura dei fantasmi, perché lui aveva paura. Come Cri. Hanno paura. Cri. Stanotte è Cristina che ti gira tra i pensieri e vorresti rigirarla tra le mani come quando era piccola, sarebbe più semplice, tenerla e basta invece no.

Hai pensato di nuovo che vorresti qualcosa di facile, ogni tanto. Perché di fondo sei una stronza a cui non piace faticare e che non ricorda di aver mai ottenuto qualcosa così, in modo facile e quello vorresti, per una volta, una sola volta vorresti che fosse facile. E vorresti esprimere il tuo desiderio quando soffi sulle candeline e ultimamente lo stai facendo di intestarti una speranza, un augurio ma siccome sei una stronza ti senti in colpa subito dopo, quasi durante che sei ancora lì con le labbra schiuse e già ti senti una madre di merda ad aver desiderato qualcosa che fosse tuo.

E vorresti riaddormentarti anche abbracciata al fantasma, anche senza gabbia toracica, anche con il cane addosso come quelli che stanno sotto i portici in centro e non importa domani.

Hai più libri di filosofia che di diritto. Non male per una con la tua laurea. Devi ancora andarli a prendere i libri di diritto, sono ancora di là, nella casa vecchia. È che non ti servono, però non puoi lasciarli lì. Lo sai che hai sbagliato, vero? Lo sai che facevi in tempo a cambiare in corsa ma siccome sei una stronza che un tempo era una stronza cocciuta non hai voluto, non ti sei data la possibilità, quella e tante altre. Fai l’elenco di tutte le possibilità che non ti sei data, parti da lontano, la notte è lunga, il respiro è corto, la luce è spenta, il cane si mangia le unghie, il dolore è stronzo, come te, sarà per quello che vi capite. Lo sai quante cose hai sbagliato? Lo sai che l’altro giorno sei stata in silenzio con il servizio clienti albanese della KLM per recuperare i voucher di quel volo mai preso per Amsterdam a maggio e che lo hai fatto di proposito, un lungo silenzio e quando la signorina Ana con una enne sola ti ha chiesto se eri ancora in linea in preda a una forma sottile di horror vacui che coglie in questi casi hai espirato rumorosamente e le hai detto sì, che c’eri e che restavi volutamente in silenzio come tecnica zen per non smadonnarle addosso la tua incazzatura, lo sai che queste cose non si fanno eppure le fai. Metti anche questa nel tuo elenco.

Lo sai che durante la riunione di classe hai pensato di alzare le mani sulla mamma della piccola sciampista? Lo sai che nella tua testa apostrofi delle ragazzine così? E che volevi alzarti davanti a tutti e dire alla mamma della piccola cubista di andare a rubbare con due b, proprio così, ma vai a rubbare. Lo sai che non va bene.

Ma stanotte hai i cazzi tuoi, si vede. Hai Cristina che ti rigira nella testa e vorresti che fosse facile. A Lui hai detto che l’adolescenza non è una montagna da scalare, è una frana dalla montagna che devi far scalare a un altro. Tu conosci il percorso e sei lo sherpa, porti i bagagli e indichi la strada ma quando tutto frana devi fermarti anche se l’altro vuole proseguire e devi farlo fermare e ti prendi quel che arriva, sassi o insulti. Tu non sei lo scalatore, tu non sei un cazzo di nessuno e rischi la pelle e a te tutto questo pesa più che ad altri che sono bravi a portare carichi e a farsi carico e a dedicarsi.

Lo sai che non ti viene naturale dedicarti a nessuno? Lo sai, si? Almeno questo lo hai imparato? C’era scritto nei tuoi libri di diritto o di filosofia o di quel che vuoi? A te non frega niente di dedicarti agli altri, non è nella tua natura e sai ognuno ha la sua natura. Te lo ricordi quell’amico del tuo fidanzato di cent’anni fa? Quello che insegnava filosofia all’Università che poi era solo un assistente ma a te sembrava molto di più, te lo ricordi quella sera, a Napoli, quando tu gli hai detto chi nasce tondo non muore quadrato e lui ti ha risposto la vita serve a questo, piccirè. Te lo ricordi, stanotte, con i fantasmi che ti siedono accanto e siccome sei una stronza te lo ricordi ma te ne fotti perché come ti ha detto Lui la settimana scorsa non sai pensare geometricamente. È vero, gli hai risposto. Perché questo lo fai, bisogna dartene atto, questo lo fai sempre, non neghi mai l’evidenza. Perché sei stronza ma realista.

Sei tonda o sei quadrata? La vita ti serve a cosa? A te, a cosa ti serve la vita? A pensare pensieri folli di notte con un lupo che fa cosa vuole e non gli dici niente, a pensare che hai già vissuto la data della tua morte e che non la saprai mai. Adesso vai in loop con questo pensiero, non saprai mai la data della morte che poi è la sola cosa che sai davvero della vita, soprattutto stanotte, soprattutto di notte, perché stai con i fantasmi e allora lo sai più di altri o lo senti più di altri. Sai quando sei nata e non sai quando morirai. Il giorno. Nessuno lo sa. Lo vivi ogni anno quel cazzo di giorno e non potrai saperlo. Potresti diventare matta per un pensiero così, lo sai. Potresti diventare matta, lo sai. Ci sei andata vicina, dicono, ma no, lo sai che non è mica pazzia quella. È solo dolore, e il dolore è stronzo come te, per quello vi trovate bene insieme.

Essere madre è faticoso. Per te di più che per altre. Tutto il peso delle decisioni, delle scelte, del mondo fuori che fa schifo, stanotte fa schifo, fa sempre schifo e dove devono andare queste due, così, per il mondo, e tu non c’entri niente, lo sai, le devi lasciare andare come sono, con la loro natura e tu lo sai se una è nata tonda e l’altra quadrata, tu lo sai e ti sembra di essere la sola a saperlo e non vuoi saperlo, non stanotte perché ti fa male sapere di altri da te, ti fa male altro dolore che aggiungi al tuo, altra fatica che aggiungi alla tua.  Per te è troppo questo peso, il peso delle vite altrui. Mangiano? Dormono? Stanno bene? Si ameranno? Ameranno? Saranno amate? Avranno freddo. Sbaglieranno Facoltà. Penseranno di essere grasse. Stupide. Stronze. Faranno un frontale. Penseranno di fare testamento, di notte. Faranno lunghe pause zen per non imprecare.  Tu non vuoi saperlo e lo sai. Per questo resti al buio. E vieni qui. Essere madre non fa per te, lo fai al meglio ma non è roba tua, si vede.  Ti perdoneranno? Proprio tu pensi al perdono, tu che non sai da che parte si comincia. Tu non perdoni e non dimentichi, sei così. Tonda o quadrata, quel che è. E pensi a Dio. Tu. Che non giureresti sulla tua esistenza figuriamoci se puoi avere fede. Eppure ci stai pensando. Tua figlia, Dio, chi per lui, il mondo fuori, il dolore dentro, i fantasmi, un lupo vecchio come te che forse lo sa quando morirete, l’elenco dei tuoi errori ogni giorno più lungo, i pensieri scorretti, tua figlia, la fragilità che copri con il fondotinta ogni mattina, i pesi con cui alleni i muscoli, per le braccia te li lascia leggeri perché sono le ripetizioni che contano, invece per le gambe li aumenta perché non patisci, tu le gambe non le patisci, te lo dice sorridendo l’istruttore,  sei pronta a scappare ma sai restare salda, ferma immobile, sei capace di salire in montagna ma sai anche accovacciarti sotto una pioggia di sassi che ti cadono in testa e poi ti rialzi, le gambe sopportano il dolore meglio della testa, ma questo non lo immagina l’istruttore. O del diaframma.  Il medico ti aveva detto che era un peccato con il tuo utero non fare altri figli, come se avendolo visto dal vivo lo avesse ritenuto un bel posto, un posto accogliente e strutturato, fatto proprio per quello, per fabbricare figli. È la testa, non l’utero, il problema. Avevi risposto così, bisogna dartene atto, non inventi mai scuse. Perché sei stronza ma sei sincera.    

Vorresti Mara, la vorresti accanto e non c’è.

Vorresti sapere cosa c’è che non va in te, a parte il fatto che sei stronza. Vorresti sapere dove sta il baco, lo sai che c’è, chiedi a Lui di indicartelo ma lui dice che non c’è. Tu sai che c’è. La grinza, l’errore, l’ingranaggio che non gira. Lo chiedi ai fantasmi ma i fantasmi non parlano. Non a te.

Vorresti non essere mai nata.

Vorresti non dover morire per forza.

Vorresti Dio, lo vorresti accanto ma non c’è.

Vorresti tornare indietro e non si può.

Vorresti piangere.

Vorresti scrivere.

Vorresti che non leggessero, non questo. Non loro, la vecchia prepotente, la culona senza qualità, l’orrendo butterato che sai ogni volta che entrano e ti sembrano gli addetti ai bagagli dell’aeroporto quando venivano sorpresi a rubare e nonostante le telecamere continuavano. Coglioni. Vorresti dirglielo.  

Vorresti mandare una raccomandata o una pec e dire a tutti che basta, recedi, risolvi ogni rapporto in essere, paghi la penale, lasci la cauzione, forse ci sono caparre che vagano a nome tuo, tenete, tenete anche il nome, vorresti dirlo a tutti. Basta, basta con tutto. Non sei più figlia, madre, sorella, non sei più. Vorresti non avere niente e invece hai tutto, hai tutto tu, senti il peso di tutto tu, solo tu che tanto il mondo cosa ne sa, il mondo fa schifo, stanotte.

Vorresti che fosse facile, almeno una volta, saresti disposta a barattare uno dei tuoi desideri da quattro soldi, in fondo, se ci pensi per davvero che desideri sono poi, puoi farne a meno. Fai l’elenco di tutto quello di cui puoi fare a meno, fai l’elenco di tutti quelli di cui puoi fare a meno. Tieni il lupo perché sa troppe cose, tieni i cani che a loro non importa di domani. Fai l’elenco dei fantasmi schierati qui davanti, li conosci uno per uno. Tieni Lui che ha la tua pelle addosso o tu la sua.  Tieni tua figlia, tienile la testa tra le mani, per proteggerla dalla frana che non puoi evitare, per tenerla e basta che la vita serve a questo, stanotte che no, non ti riaddormenterai, tienila tu.

6X7

Son nata che erano appena passate le otto del mattino, di domenica. Mia madre pensava di dover andare di corpo, non ha capito che si trattava di me. Ci siamo conosciute in seguito a un fraintendimento. Mio padre non ha assistito al parto perché quelli non erano tempi in cui i padri assistevano al parto, ha aspettato fuori e a un certo punto un’infermiera è uscita e gli ha detto Laezza, 3 chili e cento, femmina. Lui ha pensato a un arrosto. Poi immagino abbia fumato perché quelli erano i tempi in cui fumava. Appena possibile anche mia madre si è alzata per fumare, lo ha fatto per tutta la gravidanza e ha preso dell’aspirina quando ha avuto la febbre e non sapeva nulla dell’esistenza della toxoplasmosi quindi ha divorato chili di pomodori a mala pena sciacquati. Tanto poi li vomitava tutti. Ha vomitato dal 17 gennaio 1978 al 17 settembre 1978, sempre, ogni giorno, più volte al giorno. È rimasta incinta a Santo Stefano, un gran bel pomeriggio a detta di entrambi. Io mi sono tappata le orecchie ogni volta che hanno provato a fare riferimento all’argomento, va bene tutto ma questo no. Erano due ragazzini, ma non per quegli anni. Quando sono nata lei aveva ventidue anni e lui venticinque e quindici giorni e pregava perché non sforassi e non nascessi della bilancia, come sua madre.

“Fa’ che sia della vergine, fa’ che sia della vergine, fa’ che sia della vergine”

Mia nonna non l’ha mai saputo.

Vergine.

“Come l’hai chiamata?”

“Sonia”

Non avevano ancora un nome, quella domenica mattina. Non sapevano bene. Ma Sonia andava bene.

Ero una pallina, pelata e con il naso di papà. Venduta allo straniero, diceva così, veniva al nido, mi fissava, nove mesi di vomito continuo e poi sei uguale a lui. Ingrata. Bionda e pelata. Un lenzuolino appena increspato. Ha sempre detto così: increspato. Si dice del mare, mi piace. Riferito a me, al mio corpo neonato sotto un lenzuolo, devi accorgerti che c’è, la vita è tutta sotto, dove non si vede.

Ha fatto il test di gravidanza a scuola, insegnava, lo sapeva solo Daniela, la sua collega, la sua amica. Non ricordo la classe che aveva, me l’ha detto tante volte e non ricordo la classe, forse una quinta. Si è presa una sedia addosso un giorno, era intervenuta tra due bambini che litigavano e si è presa una sedia addosso destinata al compagno, sulla pancia dove c’ero io. Ha mollato un ceffone al bambino. Per lo spavento, penso. E gli ha detto mandami chi vuoi, mandami tuo padre, se hai coraggio. Non si è presentato nessuno a chiedere spiegazioni per quel ceffone. Penso che il ragazzino non l’abbia mai nemmeno riferito. Chissà dove sei, ragazzino ultracinquantenne che hai lanciato una sedia e hai colpito la maestra con i capelli ricci e rossi, te lo ricordi ogni tanto? C’ero io, lì dentro, senza nome e senza immagini ecografiche, senza profili che anticipassero il naso che comunque no, non è di papà. È di zia.

E si erano sposati, in aprile, il prete era un loro amico, insegnava religione e lei aveva vomitato anche tutto il pranzo di nozze. Ed era stato rapito Moro, non si capiva più niente. Fermavano i pullman, c’erano posti di blocco ovunque, dalla fermata a casa, a piedi, non si capiva più niente. E poi i mondiali. Un boato, un mio calcio, la sua mano per calmarmi. E l’estate lunga, lunghissima, in una Torino vuota e chiusa, in una casa senza telefono, camera e cucina ammobiliata in Santa Rita e chissà cosa facevano, cosa dicevano, di certo non sceglievano il nome per la femmina. Discutevano per il nome del maschio. Come il nonno no, te lo sogni. Perché? Perché il nome di tuo padre fa schifo. Però si usa. No, io non mi chiamo come mia nonna. Ma tuo fratello sì. Ma io no. Quando nasce vediamo. No, non vediamo, allora non gli diamo il tuo cognome. Non essere ottusa, siamo sposati, ha per forza il mio cognome. Allora faccio le pratiche di disconoscimento. Quando nasce vediamo. Come tuo padre no.

Mio nonno si chiamava Salvatore ed era solo un uomo perbene con un brutto nome.

Sono nata all’ospedale Martini, le ostetriche parlavano delle vacanze appena trascorse e non si interessavano a mia madre che aveva l’aspetto di una bambina con un pallone sotto la maglia, occhi grandi e naso importante, denti sporgenti e una cascata di capelli ricci. Le unghie smangiucchiate e la fede lucida, nuova, all’anulare. Era sola con me e pensava di dover andare in bagno, non ci capiva più niente, ma almeno è stato veloce, lei è stata brava e io ho pianto senza convinzione.

Ero la sola femmina del nido in quei giorni. Mi hanno vista attraverso il vetro fino alle dimissioni, il 22. È scoppiato l’autunno quando siamo uscite dall’ospedale, pioggia a dirotto e riscaldamenti spenti,hanno comprato di corsa una stufetta perché i ciripà non si asciugavano. Io dormivo. Dormivo sempre. Ti sei fatta la compagnia, le dicevano. Questa dorme, pensava lei. Lui tornava dal lavoro e si precipitava sul lettino. Dorme, diceva lei. Come dorme? Dorme. E io cosa faccio? Cosa fai cosa? Il papà, come faccio a fare il papà se dorme? Non lo so, aspetti che si svegli. È normale che dorma? Forse si. Ma dorme sempre?  Dorme molto, praticamente sempre. Si vede appena sotto il lenzuolo, è piccola. È il calo fisiologico, vedi che c’è perché il lenzuolo è increspato. Portiamola dal pediatra. Perché? Per essere certi che stia bene. Sta bene. Come lo sai?  Perché dorme, se avesse qualcosa piangerebbe. Portiamola comunque. Così sei più tranquillo? Si. Allora portiamola.

Una casa più grande, a due vie di distanza, il trasloco fatto a mano.

È solo magra.

È sana.

Non vede.

Servono gli occhiali.

È la sua costituzione, mangia poco, è sana.

La bambina è perfettamente armonica.

Serve la benda sull’occhio dominante.

Servono altri occhiali.

Balbetta perché è nato il fratello, è gelosa.

Serve il filtro sulla lente.

È piccolina, è tra le più basse della classe ma è proporzionata.

Si, sa già leggere.

I buchi alle orecchie.

No, non sa andare in bicicletta.

Si, sa già scrivere.

No, non si tuffa.

Non alza mai la mano ma è sempre preparata.

Ha una memoria eccezionale.

E’ timidissima.

Ha una brutta gola.

Suo fratello è peggio, con l’asma.

Bactrim.

Gelato sulle placche.

La tomba del Busento da imparare per lunedì.

No, non si tuffa, non stacca le mani dal bordo, figuriamoci se si tuffa.

Sonia smettila di far ridere tuo fratello che poi non respira.

Essere belle non serve a niente perché la bellezza svanisce.

Quando diventerai grande metteremo un annuncio per trovarti marito, peppia.

Perché due non fa tre.

Andiamo avanti che tanto indietro non si può.

Prova. Tanto non riesco. Prova. No, tanto non riesco.

La lettera h in corsivo maiuscolo.

Le tabelline le devi sapere cantando, quando torno te le chiedo anche al contrario.

E.T.

Le bambole appese sulla parete sopra il letto. Perché non giochi con le tue bambole? Perché si rovinano, se le guardo non si rovinano. Ma non le usi nemmeno però. Non importa. Se si rovinano poi non le ho più.

A chi vuoi più bene? Non lo dico. Venduta allo straniero.

Tuo fratello è nato a maggio perché dopo di te un’altra estate con il pancione mai, tu sei arrivata, ma lui è stato cercato.

I tuoi fratelli sono nati a casa perché dopo l’esperienza del parto in ospedale con te, mai. Meglio l’ostetrica e la nonna accanto.

Prova. Tanto non riesco. Non sei né più scema né più furba degli altri, prova e riesci. No, io non riesco.

Quando sarai grande farai come vorrai.

Quando avrò figli farò tutto diversamente.

Mamma sei bella. Tu di più. No, tu. No tu. No tu. Ok, basta. Tu.

Ho partorito sabato. No, signora, le hanno fatto un cesareo, lei non ha partorito. Schiantati stronzo.

Mamma, cosa fai, scrivi? Si. Brava.

Ti ho preso un libro, era quello che volevi?

Cosa significa schietta?

I testi di cartoni morti li scrivi tu, mamma? Fanno troppo ridere, li scrivi di sicuro tu.

Cri ha staccato le mani dal bordo, giovedì, ieri, Dottore, ha staccato le mani dal bordo in corsia grande ed è andata, via, nell’acqua dove non tocca, senza di me. Non direi senza, lei era lì. Ma non in acqua con lei, l’ha fatto da sola. Si, ma l’ha fatto sotto il suo sguardo, come si è sentita? Io? Io mi sono sentita orgogliosa, non ha nemmeno tre anni e via, così, senza di me. Ma lei era lì e sua figlia lo sapeva. Non l’ho perso quel momento, Dottore, l’ho visto. E come si è sentita? Non so, forse orgogliosa di me. Perché? Perché ero al posto giusto nel momento giusto, mia figlia nuota senza di me e non ha paura. Perché lei le ha insegnato a non averne. Io? Si, lei. E come? Essendoci. Essenza, Sonia, essenza.      

Non avrò mai figli. Perché? Perché non mi piacciono i bambini. Ma non si è bambini per sempre, vedi, non sei mica bambina, non sei più la mia bambina scimmietta. Smettila mamma, dai. Fai come vuoi, se vorrai figli farai figli, se non ne vorrai non ne farai, non c’è un obbligo, ma non farti fregare dalla cosa dei bambini. Quale cosa? Quella cosa che la gente fa i bambini e vuole un bambino, si nasce bambini solo perché venire fuori già adulti è oggettivamente più doloroso e complicato ma nasciamo solo bambini, poi diventiamo figli, altro, grandi, adulti, stronzi, belli, brutti, con nomi orrendi oppure no. Nasciamo bambini ma siamo persone, allora pensa se vorrai mettere nel mondo e non solo al mondo delle persone e poi scegli, sceglierai, non c’è una cosa giusta. Ma quelli che dicono che è naturale fare figli? Sarà, io non ci credo. Penso sia più naturale andare di corpo.

Mamma tu volevi figli? Forse no. Ma voi due vi rifarei.

Mamma ma sei ancora sveglia? Pensavo dormissi. No. cosa fai? Scrivo. Brava.

Mamma guarda come ci somigliamo! Ma in questa foto sono io o sei tu da bambina? Tu. Da cosa te ne accorgi? Ti ho fatta io, mi accorgo di tutto, ti ho fatta un giorno dopo l’altro, io, solo io, poi uno dice che non so fare niente.

Mamma, guarda papà come mi somiglia, in questa foto.

Abbiamo sempre detto che tu somigli a lui.

Perché guardava lui. Se guardo io è lui che somiglia a me.

Mamma cosa vuoi per il tuo compleanno?  Andare al mare. Perché? Perché mi piace la parola “increspato”.

Mamma non sei vecchia, sei da mercatino delle pulci.

Ma davvero hai fatto fare due torte, mamma?

Si.

E il numero?

Eh, la pasticcera voleva scrivere lo stesso numero su entrambe e le ho detto, si, col cazzo, fa ottantaquattro.

E allora?

Ne ho fatte fare due da ventuno.

Ma davvero le hai detto col cazzo?

Forse sì.

Brava, mamma.

Ci scusiamo per l’eventuale disagio recato (sul nostro trasloco).

Prima di tutto e prima di tutti chiediamo scusa a voi cari nuovi vicini che ci sembrate delle brave persone e sicuramente lo siete. Non so se noi lo sembriamo ma penso che lo siamo, speriamo di esserlo, mi sembra di sì comunque, altrimenti non vi avremmo avvisati del nostro arrivo lasciandovi i riferimenti in caso di necessità e scusandoci in anticipo. Siamo quattro, così come ci vedete, così come i bicchieri superstiti negli scatoloni, di ogni servizio sono rimasti solo quattro bicchieri nonostante le indicazioni “fragile” scritte ovunque in preda a un mio disturbo ossessivo compulsivo. Lui dice che è un segno e Lui in genere non è uno che vede segni, ma ogni tanto sì. Ci siamo io e Lui e le nostre ragazze. Io vedo segni ovunque. Tra una settimana compirò quarantadue anni e mi sembra di avere segni in più sulla faccia, intorno agli occhi e anche sul collo, le ragazze mi scattano le foto e poi quando le rivedo dico ma dai come faccio a essere così vecchia, se mi osservo allo specchio non mi pare proprio di avere questo collo grinzoso, questo delle foto.

Lui è quello gentile e diplomatico, quindi per i rapporti istituzionali rivolgetevi a Lui, io non sono capace, cioè lo faccio ma si vede che fingo, a Lui invece viene davvero naturale. Pepe è la piccola di casa, inizia la prima media e se non fosse nata io sarei morta che detto così suona estremo ma non lo è. Cri andrà in terza media, questa settimana vuole diventare Professoressa di Storia dell’Arte e non si fidanzerà mai perché non può distrarsi dagli allenamenti di Karate, non riconosce la destra e la sinistra, come mio fratello, uguale, sua sorella le dice sempre dove sta una e dove sta l’altra, anch’io lo dicevo sempre a mio fratello.

Vi chiediamo scusa cari nuovi vicini, di destra e di sinistra, e non c’entra la politica ma è solo una questione di prospettiva. In fondo anche la politica, vero. Caro nuovo vicino di destra che sei a destra se guardo il Musinè, ti chiedo scusa per i miei cani, tu che hai due gatti. Ti chiedo scusa anche perché io detesto i gatti. Chiedo scusa anche ai tuoi gatti. Ma i miei cani sono due bravi cani, anche se non sembra, Kimb è anziano e forse un po’ rincoglionito, Lui dice che è perché è tedesco e allora capisce solo le informazioni date in modo chiaro e non ammette variazioni sul tema e comunque chiedo scusa anche ai tedeschi, Justin è il figlio maschio viziato, sbruffone e adorato che non ho, un eterno neonato tra le mie braccia ma mi rendo conto, è un tremendo cagacazzo appena tocca terra.  Caro nuovo vicino di sinistra che però sei a destra se guardo verso la mia porta ti chiediamo scusa per i rumori, tu li sentirai di più perché abbiamo un muro che confina. Scusaci per ciò che sentirai, faremo del nostro meglio, ma sono rumori di crescita i nostri. I passi sulle scale di chi non toglie mai le scarpe e ci salta anche sul divano o sul letto. La musica, le canzoni da scippare, che pensavo fosse una sottospecie di reato e ho scoperto che significa saltare le canzoni che nella playlist sono ormai inadatte allo stato d’animo, quelle si devono scippare e allora un po’ ho capito che anche se non è un reato si tratta di canzoni che hanno portato via qualcosa che adesso non c’è più, non serve più. Scusaci per le urla, capiterà, scusami.  Ho detto a Cri che se urlo io sembro la mamma severa che la sta educando mentre se urla lei sembra una ragazzina maleducata e alla fine abbiamo riso perché noi alla fine ridiamo sempre e questo secondo me ci salva ogni volta anche se Lui non capisce come si faccia a fare così, a passare dalle urla agli abbracci senza nemmeno un intervallo per riprendere fiato. Lui non urla.

Cari nuovi vicini, mi sembrate brave persone, voi che ce l’avete fatta, avete figli grandi e fuori casa, sorridete e tagliate il prato,  vi osserverò dal mio angolino e proverò a capire come si fa a farcela perché anch’io vorrei farcela e alle volte mi sembra che non ci riuscirò, cari nuovi vicini non ve ne accorgerete, vi assicuro, sarà un’osservazione discreta e solo quando il lupo dietro il mio sterno sarà sveglio, è in quei momenti che penso di non farcela, quando i rumori danno fastidio anche a lui, i rumori esterni che ho passato anni a chiedermi come potesse convivere con i rumori interni, il cuore che accelera, i polmoni quando bruciano, il fegato che si contrae, le ovaie quando pungono e l’utero quando pulsa, tutti quei rumori interni che potrebbero ucciderlo non gli arrivano nemmeno e poi scatta per una sedia che striscia sul pavimento, ulula per una forchetta che casca nel lavandino. Cari nuovi vicini non lo vedrete mai il lupo che vive dietro il mio sterno, perché nessuno lo vede mai e allora sembra che non ci sia invece c’è.

Chiediamo scusa a voi tutte maestranze esperte che ci avete permesso di traslocare in tempi ragionevoli. Vi chiediamo scusa per lo stucco che abbiamo sbagliato a comprare per sei volte che però potevate pure andare voi e invece no così non vi distraete e andate avanti. Vi chiediamo scusa per la sola variazione in corsa, quella della lavanderia, siete stati comprensivi anche se non capisco l’albanese mi è sembrato che lo foste. Vi chiediamo scusa per lo zoccolino che non andava bene ma poi invece si andava bene che non ho capito se lo abbiamo fatto andare bene o se andava bene fin da subito ma quel giorno era così, che ci si doveva lamentare. Scusaci idraulico ad agosto, è stato più facile organizzare il cesareo per far nascere Pepe con il mio ginecologo dirigente medico della Clinica Universitaria. Scusaci signore dell’antifurto che non so se hai un nome preciso, un albo, ma sei stato bravo a capire che abbiamo i cani e quindi no,non puoi mettere i sensori come se non ci fossero e che avremo sempre cani perché io amo i cani e detesto i gatti. Scusaci elettricista ad agosto, sei stato prezioso e se dico prezioso intendo prezioso. Scusaci Andrea del colorificio più figo di Torino, scusami, anzi, che sono venuta io da sola, scusami se ti ho chiesto di spiegarmi il modo corretto di applicare i prodotti per le persiane come se tu fossi quello che applica i prodotti alle persiane che non so se esiste un nome preciso, un albo, e invece sei gentile anche tu, per davvero, per natura e io ti ho ammorbato con le mie persiane. Scusateci addetti alle vendite del Brico per quel tappo dei lavelli che è disponibile solo in due misure e io le ho sbagliate ovviamente e sono tornata e pensavo bastasse la foto dello scarico del lavandino a rendere l’idea della misura del tappo che mi serviva. Occhio e croce. No, non si fa ad occhio e croce. Scusatemi se non sono stata in grado di spiegarvi che la mia amica architetto che quindi le cose della casa le sa tutte per curriculum e definizione e professione e iscrizione a un albo cazzo mi ha detto che si, esistono degli spigolini ornamentali da applicare agli specchi perché lo specchio che è sopravvissuto al trascolo non ha retto alle mani di Lui dalla camera da letto al bagno e si è scheggiato in un angolo e la mia amica dice che esistono questi cazzo di spigolini ve li mimo con le mani, metto l’indice e il pollice ad angolo retto che l’ho appena ripassato con Pepe( scusate professori se non abbiamo ancora finito i compiti) e voi scuotete la testa e se devo descrivere come mi sento allora io mi sento scoraggiata, ecco, perché esistono e voi non mi capite, è chiaro che se metto le mani così intendo uno spigolino di uno specchio rotto a cui serve un cazzo di coso da mettere sopra che non si veda che è scheggiato, vi prego aiutatemi.

Scusaci tu, casa nuova, siamo arrivati senza grandi preparativi, senza troppe cerimonie. Noi siamo così. Scusaci se ti trattiamo come se non avessi un passato ma funziona così anche nell’amore, no? Non mi interessa chi ti ha avuta prima, ci sono solo io adesso. Nessuno ti ha spazzato il pavimento come faccio io. Nessuno ha spalancato le imposte dopo averle pulite con i prodotti giusti e con la delicatezza con cui si aprono gli occhi la domenica mattina, nessuno le accosta ogni sera come a chiudere le palpebre al termine di una giornata intensa. Invece hai un passato, sei la casa vecchia di qualcuno, ragazzi che hanno lasciato segni sulle mensole, le scale hanno sentito altre scarpe pesanti di giornate storte e canzoni scippate, famiglie con servizi di bicchieri da sei o da otto, persino da dodici.

Scusami per tutti gli aneddoti che non conosci, per le cose che ci sono successe altrove, per i racconti che faremo intorno al tavolo della taverna dove tu non sei la protagonista, di tutte quelle volte in cui siamo stati qualcosa e tu non c’eri. Scusaci se arriviamo con l’adolescenza avviata e grazie che hai porte scorrevoli così non possono sbattere. Scusaci per il basculante del garage su e giù su e giù su e giù, ma noi abbiamo gli allenamenti la sera e siamo sempre di corsa. Scusaci per tutte le imperfezioni con cui ti intaccheremo, i buchi da stuccare per appendere i quadri quando Lui sbaglia il primo chiodo, scusaci anche tu, decoratore che devi venire a ripassare sulle nostre impronte lungo il corridoio, scusaci casa nuova per i tentativi, gli spostamenti, i ripensamenti.  

Scusami perché guardo fuori dalla finestra e penso che dalla nostra posizione non vedo il cancello di ingresso, non saprò chi verrà a prendere le ragazze quando usciranno tra qualche anno, tranne Cri che non si può distrarre dal Karate e allora penso che potrei fare amicizia con quelli del primo interno perché loro lo vedono bene il cancello ma non sono capace, non è che si può fare come fanno i bambini, ciao sono Sonia vuoi diventare mio amico. Non l’ho mai fatto, nemmeno da bambina. Nemmeno con Lui, non gli ho mai detto scusa, possiamo diventare qualcosa? Anzi, il contrario. Lui mi aveva detto che non saremmo diventati niente insieme. Ok, va bene, avevo risposto io, chi ti considera proprio sbruffone. E poi abbiamo smesso di dirci verbi al futuro con il non davanti che era anche un po’ pesante a una certa e siamo diventati un lungo presente, vent’anni ad occhio e croce. Scusami per questi pensieri da prima notte un po’ nel letto e un po’ sul divano a respirarti chiedendo al lupo di non svegliarsi e di farmi sentire il rumore della felicità, che anche quello arriva dall’interno, dal centro degli occhi quando sono chiusi ma non dormi e pensi e senti e diventi e immagini. Scusami casa nuova, ti ho sognata tanto, scusami perché ho avuto paura di te, di non riuscire, di sbagliare, della rampa del garage e della distanza da scuola, del giardino piccolo e della mansarda per le ragazze. Scusami casa nuova perché sei arrivata quando non mi interessavi più, quando non ci pensavo più, quando avevo rinunciato ed è per questo che ti accarezzo incredula nelle gobbe dell’intonaco che non è liscio, lo tappezziamo, tranquilla, c’è Andrea che è il più figo proprietario di colorifici a Torino, lo invitiamo qui e lui ci risolve tutto. È per questo che i fichi del tuo albero, il mio albero, mi sembrano i più zuccherini mai mangiati e li ha mangiati persino Lui che non mangia fichi ma questi si, come la storia dei segni e io ci vedo un segno tu no?

felicità