Fregature

Il 3 di gennaio dell’anno in cui avrebbe compiuto 42 anni la Donna pensò che sarebbe morta. Non prima o poi come sanno gli esseri viventi ma proprio in uno di quei trecentosessantaerotti giorni rimanenti. Il pensiero arrivò come arrivano certi pensieri, che sembrano fatti da altri e allora li osservi per capirli o anche solo per vederli, per presentarti. Sdraiata sul divano con le gambe piegate appena, oltre la linea delle ginocchia unite la parete e sulla parete un quadro e nel quadro degli alberi e tra gli alberi una Donna che cammina, nessuno può sapere se si tratta della stessa Donna o solo di una donna, a nessuno importa.

A squarciare lo sguardo due cose: la voce della Donna che dice il pensiero a voce alta e il Marito che passa davanti al quadro proprio in quel momento impedendone la vista completa e trasformandolo, di fatto, in un altro quadro.

Il Marito pensa che la frase sia rivolta a lui, come ascoltatore. La Donna non sa perché quel pensiero le sia uscito a voce alta, non sa nemmeno se è davvero suo, potrebbe essere preso in prestito da qualcuno, forse dalla Donna del quadro.

Il Marito e la Donna si guardano, lui sembra molto alto oltre le ginocchia della Donna e sembra molto altro, pensa la Donna ma questa volta non lo dice e non sa perché. Non sa nemmeno perché non gli dica subito scusa, pensavo tra me e me non c’entri te. Lei sembra molto sola su quel divano ma meno di quanto vorrebbe, pensa il Marito e non lo dice nemmeno questa volta perché sa che lei dopo si sentirebbe in colpa. Sa che le chiede il perché, perché pensi che morirai quest’anno?

A questo punto il malinteso è irrecuperabile. Anche a dirgli che la frase non era per lui, non era per nessuno, non era nemmeno una frase ma solo un pensiero, anche a dirlo ormai è detta. Ormai è sentita, che è peggio che detta, se possibile. La Donna si mette seduta per metà, allunga le gambe e tira su la coperta grigia, regalo della mamma di una compagna di sua figlia, piccolo pegno di riconoscenza per un pigiama party di qualche anno prima, il Marito sembra alto ma non più di quello che è, sembra quello che è e molto altro. Il Marito si siede sul bracciolo, il quadro è più visibile di prima ma ancora non completamente, manca il terreno si vedono solo le chiome degli alberi, capelli su teste senza corpi o radici.

Se muori mi freghi. Le dice così, è sufficiente perché lei capisca cosa intende, cosa significherebbe quell’atto così umano e definitivo che chiamiamo morte nella sua vita, non più la loro, solo la sua. La morte di lei nella vita di lui sarebbe una fregatura rifilata, una patacca, un inganno bambinesco, una truffa mal architettata. La Donna lo sa perché loro se lo ripetono spesso e allora lo ha imparato, come una definizione, lo sa così, come sa l’art.2697 del Codice Civile, come sa che non ha niente da far valere, di conseguenza non ha niente da dimostrare.

Ecco perché la Donna dice che lo sa. Anche se le viene da piangere da un posto lontano che arriva all’improvviso, anche se non le importa, in fondo, di fregarlo. Perché lei pensa che morirà tra poco e non può dispiacersi per lui, deve commuoversi per se stessa, non può occuparsi di lui, deve preoccuparsi di se stessa. Non può dargli spiegazioni o cercare di farsi scusare, non può perdere tempo che non ha più, non può sentirsi in colpa perché non è colpa sua, non è colpa di nessuno, forse solo del pensiero che bastava non dirlo per lasciar perdere.

Preferisco così, comunque. Morire prima di te. Quest’anno mi scoccia morire, certo, ma va bene morire prima di te.

Il Marito le ricorda la loro differenza di età.

Non importa, te li cedo quegli anni lì. Tanto io non saprei come viverli senza di te, tu si. Tu te la cavi meglio in queste cose, io no. Ti chiamerei di continuo, sai. Sarebbe un’invocazione unica, dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina. E ti parlerei molto più di quanto non faccia adesso e mi incazzerei se non rispondi e scambierei per risposte segni, qualunque segno, anche la cacca di un piccione sul cofano dell’auto io lo prenderei come un tuo segno. Non puoi farmi vivere così. Tu invece faresti le tue cose, quelle senza di me, ti apparecchieresti anche la tavola lo so e metteresti il vino nel calice giusto, io no, senza di te mangerei in piedi dalla ciotola del Tupperware facendo a metà con il cane senza nemmeno lavarmi le mani mentre ti parlerei con la bocca piena diseredata e reietta.  

Non importa, te li cedo quegli anni. Non sopporterei il tuo funerale, manderei tutti a cagare, direi che non possono parlare di te, nessuno può farlo, solo io, io sola posso pronunciare il tuo nome, io sola, solo io posso raccontare il bene che hai fatto e il male che hai ricevuto, il dolore che hai sparso girando le spalle e la gioia spudorata del tuo sorriso il mattino presto quando il giorno ancora non sa di essere tale. Caccerei tutti come farisei dal tempio, non permetterei a nessuno di avvicinarsi, di vederti, di sfiorare il legno di quell’ultima barca, di portare fiori, di frugare tra ricordi come bestie tra i rifiuti. Nessuno potrebbe ricordarti, solo io, io sola, per tutti i giorni, ogni giorno, per la vita con me e anche quella prima nella quale sono entrata dalla porta della tua voce le infinite volte in cui hai narrato a me, a me sola, chi eri e cosa facevi mentre mi aspettavi.

Non importa, te li cedo quegli anni. Tu sai fare meglio di me, sai che non voglio niente di religioso e la foto deve essere bellissima. Nessun accenno a bontà che non ho, nessuna pretesa di riabilitazione, ho odiato moltissimo, ancora odio, potrei devastare per la forza dell’odio che nutro. Ho amato immensamente, ancora amo, potrei costruire un pianeta chissà dove con la quantità di amore che nutro.  Nessuna concessione alle emozioni di cui non soffro, si rammenti questo: io soffro di emozioni, alcune. Gli altri le provano, lo so. Io ne soffro. Se proprio ne ho provate è stato solo per capire se mi andavano bene oppure no. Nessuno sproloquio che cerchi di dare conforto al dolore dei nostri figli, abbracciali per me perché sarà la prima volta in cui non potrò farlo.

Non importa, te li cedo quegli anni. Conserva l’onestà che ci ho messo, soprattutto quella di pensiero. Perdona la mia incapacità di mediare. Ricorda i nostri segreti e poi disperdili, che nessuno possa conoscerli quando arriverai anche tu, ne avremo di nuovi, ce li racconteremo da principio, li inventeremo, ci faranno ridere, tu solo saprai quanto ti sono mancata, solo tu lo saprai e ne piangeremo insieme quando me lo racconterai e sarò io ad aspettarti questa volta.

Il 31 Dicembre dell’anno in cui ha compiuto 42 anni la Donna pensò che non era morta. Non del tutto. Dedicò un pensiero alla parte di lei che sì, era morta, senza dare disturbo, senza pretendere necrologi o lapidi, come muoiono le cose che abbiamo concluso, che sembrano fatte da altri, che le osservi e te ne congedi con educazione. Poi versò del vino in un calice, imboccò il cane con un pezzo del salmone che stava mangiando, si lavò le mani. Il Marito davanti a lei, nello sguardo intero, lui è il solo che sa se si tratta della stessa Donna.         

(A Fausta ed Ezio, che si sono sposati in inverno.)

Eccezioni

La notte porta scompiglio. Che poi io non so nemmeno dirlo, ho un difetto di pronuncia, dico gli e sembra iii. Che poi me lo hanno detto, a me non sembra. Che poi è così che funziona con i difetti, in genere, sono gli altri che ce li indicano. Alcuni sono molto bravi nel farlo. Ho trascorso l’infanzia ostaggio dei miei cugini: “dì coniglio, teglia, caviglia, maglia”. Poi ho imparato a dire che due coglioni e hanno smesso. Lui invece mi imita e poi mi dice “pensa se mi chiamassi Moglia o Foglia o Paglia di cognome”. Non ti avrei sposato, gli rispondo. Ogni volta, sempre, lui dice così e io rispondo così.

Che poi a me sembra di dirlo benissimo, non lo sento proprio il difetto quindi vivo come se non ci fosse. Però c’è, sarà per quello che non trovo mai l’appiglio nelle notti di scompiglio che passano da un fianco all’altro per non arrendersi alla posizione supina, quella è la fine, quella è quella della fine. Che poi se un difetto non lo vedi vuol dire che non c’è oppure c’è ma non è così difettoso come sembra? Vivere come se non ci fosse significa che fingi che non ci sia? Ma se per te non c’è si può parlare di finzione? Ma se la gli andasse pronunciata come la pronuncio io e nessuno lo sapesse ancora? Cristina mi ha detto che, in fondo, l’eccezione è convinta di essere una regola: “cioè, se tu la osservi dal suo punto di vista lei ti dice non vedi che sono una regola, non vedi che cuoio si scrive cuoio e non quoio. Vuoi dire che questa è un’eccezione? A me che sono cuoio questa sembra una regola”.   

A volte, la notte quando c’è scompiglio, Cristina è il mio appiglio. Non si dovrebbe dire, lo so, i figli sono altro. Sono altri. Lo so, lo difendo come principio ogni giorno, non intendo come Principio ma solo come principio, come inizio di ogni giorno, di ogni discorso con loro, su di loro, per loro. Ho smesso di difendere Principi, ho smesso di mangiare carne e fumare, ho smesso di guardare Grey’s Anatomy, ho smesso di rinviare. Anche Pepe è il mio appiglio, quando mi cerco indietro e non mi trovo, la guardo e penso che non si tratta solo dello spermatozoo più veloce, a volte, ma della migliore combinazione possibile di cellule. Poi penso ad altri e invece mi rendo conto che quella è stata la sola volta in cui sono stati i migliori. Cristina è il posto sicuro dove riflettere, una grotta, una casa in penombra, uno specchio che riflette quello che vorresti essere nella tua condizione migliore. Pepe è lo spazio aperto dove osservare, cielo e mare sottosopra, il sole allo zenit, lo specchio dove osservi i cambiamenti e ti riconosci solo nelle smorfie che sono rimaste uguali.

La notte porta scompiglio, cerco i miei appigli, conto gli sbadigli e li confondo con gli sbagli.

Siamo nel periodo della Mariafelicina. Anch’io avevo la mia Mariafelicina. Ogni brava ragazza ha avuto la sua Mariafelicina. Mariafelicina è la compagna, anche di un’altra sezione, che tu proprio: no, non sai, ma come si fa, ma che davvero, ma perché. Quella. Quella che dice una serie di idiozie e la gente intorno a lei pensa siano cose intelligenti, profonde, intrise di valore. La Mariafelicina in genere ha già le fattezze di una Barbie in un mondo di Skipper dove i tuoi coetanei sono la versione economica di Big Jim e di Ken non se ne vedono all’orizzonte. La Mariafelicina ha capelli che non sono mai grassi e unghie che crescono già arrotondate e con la lunetta bianca, mentre tu riesci a scheggiare lo smalto mentre lo stendi perché con la mano sinistra non sei capace di applicarlo e non vai nemmeno a buttare la spazzatura se prima non lavi, di nuovo, i capelli. I genitori di Mariafelicina hanno denti bianchi, sembrano fatti dall’Idealstandard. Il papà ha il motore della macchina per esprimere la sua virilità e dei jeans attillati che terminano sulle sneakers da cinquantenne che ne ha fatte tante ma meno di quelle che millanta. La mamma di Mariafelicina è anche la sua migliore amica, perché è stata Mariafelicina e perché sì, perché Mariafelicina è una di quelle ragazze che sorridono dicendo “mia mamma è più un’amica, la mia più grande amica, io a lei confido tutto”. Tu rabbrividisci. Forse perché patisci il freddo, invece no, è l’immagine di tua madre e dei tuoi segreti nello stesso pensiero. Mariafelicina ha sempre la pancia scoperta senza tracce di peluria. E poi la Mariafelicina, in genere, è molto impegnata perché fa ginnastica ritmica o danza e deve preparare il saggio e tutti devono sapere che lei deve preparare il saggio.

La mia Mariafelicina aveva un nome stranissimo, di quelli che non si sentono tanto anzi nemmeno poco, un nome raro, dicevano ammaliati i suoi cortigiani, io pensavo che rare sono anche certe malattie per le quali non c’è cura, insomma si fa presto a dire raro ma mica è detto che raro sia bello, altrimenti bisognerebbe dire che bel nome e non che nome raro. Guardavo il suo viso privo di imperfezioni ormonali e mi sembrava che fosse stato disegnato con un compasso, rotondo perfetto, preciso, roba da calcolarci il raggio e il diametro, a sapere la formula. Rideva per niente e portava i capelli dietro l’orecchio contemporaneamente, un tic pensavo io, no, un vezzo mi correggevano i cortigiani. Giusto. Io ci ho provato, lo ammetto, a fare la stessa cosa, non se n’è mai accorto nessuno, solo mia madre che guardandomi stranita mi chiese: “perché ridi come una scema e ti gratti la testa? Hai la forfora?” Fine del mio vezzo.

Ho incontrato la mia Mariafelicina trent’anni dopo. L’ho riconosciuta subito, nessuna esitazione, un cinquantenne con i jeans attillati e le sneakers ha fatto una battuta insignificante e lei ha riso portandosi i capelli dietro l’orecchio. Stesso viso rotondo ma con zigomi e labbra in 3D. Ci siamo salutate come due che non smaniavano dalla voglia di incontrarsi e trovarsi faccia a faccia con la propria adolescenza mentre sei un attimo occupato a vivere quella dei tuoi figli e stai combattendo con la nuova generazione di Mariafelicine. Perché no, io non sono amica delle mie figlie e nemmeno le voglio sapere le cose che raccontano alle amiche e nemmeno voglio che le mamme delle loro amiche me le dicano perché siamo amiche no, grazie. Perché non ci credo a certe relazioni, perché non sono così e quindi non posso essere una madre così, posso essere la sola madre che sono, la sola persona che sono e nelle notti di scompiglio afferro le mie figlie come un appiglio nonostante tutti i miei sbagli e trovo il senso, non il Senso ma il senso, la direzione, il percorso, il senso di marcia e questo è quello che loro fanno per me e sono per me e so che forse non è giusto ma sono loro che me lo danno il senso “di qui mamma, da questa parte”.

Però una cosa è certa: la vostra Mariafelicina è anche la mia Mariafelicina. Combatteremo insieme il suo approccio gioioso a ogni cagata, lo stupore decerebrato con cui guarda il mondo, l’allegria sprigionata grazie a un indulto, la sintassi denudata che esibisce.  Saremo eccezioni alla regola che impone di definirle solari, spigliate, estroverse. Saremo eccezioni alla regola che impone di definirle. Saremo eccezioni in un mondo di Mariafelicine. E ci convinceremo di essere regole, in un mondo di Mariafelicine.

Ultimamente

Ho comprato un olmo, un bonsai. Per il nostro ventesimo anniversario, è stato lunedi scorso e non abbiamo festeggiato perché cosa vuoi festeggiare di lunedi? Le ragazze si allenano, io ho il corso di tedesco e gli animi, in generale, sono quelli del lunedi. Non c’ è mai da festeggiare.

L’olmo ha vent’anni, anche lui.

L’ho scelto nelle settimane scorse, prima ho cercato su Internet, ho mandato qualche mail e poi ho telefonato.

Non volevo un olmo, mi piaceva il ciliegio e ne avevo trovato uno meraviglioso nel tripudio della sua fioritura ma è da esterno e noi non siamo ancora in grado di occuparci di un bonsai da esterno, sapevo che lo avrei preso per la bellezza e poi lo avrei tenuto in casa per la paura e sarebbe morto.

Sapevo già tutto perché non si tratta di conoscere i bonsai o i ciliegi, è più quella cosa del conosci te stesso. Sapevo. So.

Poi mi ha infastidito la commessa di questo superbo vivaio nel cuore di Torino, in un gioco di incroci tra portici e rotaie del tram. Si, è vero, io sono stata un po’ insistente con le rassicurazioni che pretendevo, con le domande che ponevo, con i dubbi che  muovevo ma la verità è che lei mi ha infastidita dalla voce, la sua, la voce figa di chi sa che ti sta facendo un favore a venderti un ciliegio bonsai di vent’anni nel pieno della sua festosa magnificenza. Io non ho la voce figa, mai.  E non faccio favori.

Mi ha mandato le foto, dopo la telefonata abbiamo iniziato uno scambio di messaggi, per fortuna nessun vocale perché non li avrei ascoltati.  Già i termini per il ritiro o la consegna hanno rivelato una scarsa propensione alla collaborazione. Il lunedì sono chiusi. Capisco ma non posso cambiare giorno, se il dodici aprile cade di lunedì non posso spostarlo. Venga prima. E dove me lo metto prima? Lo regali prima. Non è possibile, può consegnarmelo il lunedì in ufficio? Anche se siete chiusi al pubblico magari fate le consegne.

Si, le facciamo ma non fuori Torino.

Chi le ha detto che sono fuori Torino?

Allora venga lei.

Ma siete chiusi e poi io sono in ufficio, non posso andare via così.

Vabbè, se il bonsai le piace un modo lo troviamo.

Allora le ho chiesto se potevo metterlo nel roccioso e mi ha risposto domandandomi cosa fosse un roccioso e ci ha aggiunto la faccetta stupita.

Il mio pensiero è stato adesso vengo là nel cuore di Torino tra portici e rotaie e la faccetta stupita te la tolgo a suon di calci in culo trasformandola in una faccia di dolore. Poi ho controllato se esiste la parola roccioso e l’ho trovata: giardino roccioso, composto da piante e rocce. Cara la mia  sabauda vivaista. Le ho mandato la definizione chiedendole per favore di non domandarmi da quali rocce fosse composto il mio roccioso perché la geologia non è il mio campo.

A quel punto i nostri rapporti erano già evidentemente deteriorati, era una gara a chi è più stronza cosa che a noi donne riesce sempre anche se stiamo per lunghi periodi senza praticare, è un attimo rimetterci in pista.

Quindi niente ciliegio.

Per stizza e incomprensioni semantiche.

E per paura.

È che lo so quanto ci vuole a tirare su qualcosa per vent’anni, a curarlo per vent’anni, si arriva a un punto che sai cosa rischi e non vuoi rischiare.

Sono solo numeri, dice Lui, non contano.

Sarà.

Ma io che i numeri non li ho mai capiti, come la geologia e un ‘infinità di altre cose sempre molto pratiche perché, bisogna dirlo, ho maggiori difficoltà a capire le cose che sono cose piuttosto che le cose che sono idee, io che i numeri non li ho capiti mai so che servono proprio quelli per contare.

Forse Lui intende che non si contano, che non serve.

Sarà.

A lui non serve. A me si, infatti io li conto. Ho scritto venti crocette su  un foglio a righe ma non in fila, li ho scritti come scarabocchi quando parli al telefono, una piccola pioggia disordinata di ricordi. Un segno per ogni anno, dentro ogni anno dodici mesi, dentro ogni mese quattro settimane e una trentina di giorni, dentro ogni giorno ventiquattro ore per sessanta minuti ciascuna e attraversati da sessanta secondi ognuno, sbatti le palpebre, ricomincia dai sessanta secondi e fanne minuti fino a sessanta in un’ora e poi contane ventiquattro per sette giorni per quattro settimane per dodici mesi per venti volte.

Vent’anni.

Roba da usucapione insomma.

Che poi è una data convenzionale, quella in cui è entrato nella mia vita con la leggerezza di un appuntamento buttato lì come un maglioncino sulle spalle, ad aprile può fare molto caldo anche a Torino ma anche, ancora, molto freddo.

Quell’aprile faceva caldo, Lui era reduce da una febbre e da una settimana di antibiotici.

Io ero solo reduce da qualche mia battaglia anche se non ricordo quale.

Da quella sera di aprile di vent’anni fa la vita ha preso strade diverse, la sua, la mia, fino a diventare la nostra, dopo, a un certo punto, altrove e a restare comunque la sua, la mia. Questo è stato il lavoro più difficile. Quell’aprile è il punto di partenza dal quale conto per orientarmi, come per ritrovare l’auto fuori dal supermercato.

Questo aprile fa freddo, ecco perchè il ciliegio mi sembrava un prodigio in miniatura, nel mio roccioso i tulipani faticano a spuntare, non se la sentono ancora, osservo ogni giorno i progressi: fa capolino quello viola, forse più sicuro di quello bianco, di quelli neri non c’è ancora traccia. So che fioriranno perché li hanno piantati le mie figlie, fossi stata io lo scorso autunno  a occuparmene sarebbero morti sotto terra. Aspetto. Mi viene bene.

Alla fine ho chiamato il bonsaista storico della città, quello che ha il nome che già sembra una specie di bonsai, gli ho chiesto se aveva piante di vent’anni per un anniversario, è stato zitto, sentivo lo sfregamento delle sue dita contro la barba sul mento ho immaginato, il respiro regolato dalla presenza di tutte le piante ordinate intorno alla postazione dalla quale mi parlava, il cassetto del registratore di cassa che scatta, il campanello della porta che suona quando questa si apre.

Si, mi ha detto, interrompendo la polifonia del suo mondo con la voce di chi ci ha pensato e poteva risponderti solo si o no e risponde si.

Per una fortunata serie di eventi ha spostato da qualche tempo il negozio a cinque minuti a piedi dal mio ufficio e io non lo sapevo, ecco vedi, mi sono detta. Nessun dubbio.

Sono andata con Cristina, era con me quel pomeriggio, dopo teatro e prima di andare a prendere sua sorella a tennis, come ogni venerdì, solo che aveva il braccio al collo perchè noi abbiamo passato la Pasquetta in sala gessi, io e lei. E l’ortopedico di turno. E la radiologa sgarbata e  l’infermiera Conci “adesso a casa ti fai dare da mamma un bel foulard e tieni il braccio su”.  Come può pensare che tu abbia dei foulard? Ti ha vista? Mi ha chiesto Cri.

C’è una bella vista dalla sala gessi di quell’ospedale, è al quarto piano, lo sguardo si allarga su Torino, sulla collina, il fiume. C’eravamo state cinque anni fa, quella volta però era una frattura vera. Questa volta solo una brutta contrattura, ha vinto un bendaggio rigido con qualcosa con lo zinco che non ho capito e un riposo di otto giorni. La volta scorsa un mese di gesso, a ridosso degli esami di passaggio cintura, doveva prendere la cintura verde. Anche adesso è a ridosso degli esami, deve diventare cintura nera, aspetta questo momento da otto anni, da quando ha iniziato. Cinque anni fa c’era una bella vista ma non l’avevo vista, ero reduce da una battaglia e pensavo a dove spostare la mia vita.

Tutti mi hanno chiesto se si fosse fatta male a Karate. No. Perché quello lo sa fare. Si fa male sempre fuori dal tatami, sempre mentre fa cose che sono cose che in genere non fa. La cintura verde poi l’aveva presa al termine di una prova impegnativa e anche commovente.

Cristina ha approvato l’olmo, lo abbiamo guardato per un po’, è piccolo per avere vent’anni ho detto, non c’entra la grandezza con l’età mi ha risposto il Signor Bonsai, lo abbiamo rinvasato due anni fa, bisogna potarlo tra quindici giorni, magari dica a suo marito di venire così lo potiamo insieme la prima volta.

Gli piacerà? Ho chiesto a mia figlia.

Si, mamma. Secondo me non se l’aspetta.

L’olmo ha un significato importante, ho scoperto. È meno bello del ciliegio, si, va detto. Meno colorato, non fiorisce e non sussurra sulle labbra voglio fare con te ciò che la primavera fa con i ciliegi, non incanta lo sguardo.

Però è solido. Ha le sue certezze, si vede. Va verso l’alto e un po’ si curva ma in modo dolce, come per ascoltare un bambino o il ciuffo verde che ha alla base del tronco, sono piantine che gli sono cresciute lì così, mi ha spiegato il Signor Bonsai, sono spuntate spontaneamente e si possono lasciare in modo decorativo o magari al prossimo rinvaso le posso spostare e lasciarle vivere in autonomia.

Vedremo, appena saranno pronte, ho risposto.

La giusta quantità d’acqua, radici resistenti, potatura poco impegnativa ma comunque necessaria, ha vent’anni e non si direbbe. Abbiamo possibilità di farcela, gli ho detto, mentre lo lasciavo per il fine settimana in ufficio, sull’asse del wc tirato giù, lontano dai termosifoni e nel solo punto dove gli arrivasse la luce e gli ho chiesto, per favore, di non morire, promettendogli che casa nostra gli sarebbe piaciuta, avevo già immaginato il posto, nell’angolo verde del salotto, sotto il quadro quello nostro, in cui lei è sdraiata e legge e lui le è seduto accanto,guarda le vele in mare dalla finestra, in quell’angolo c’è anche un Ficus, sai, pure lui bonsai e sta resistendo e poi a casa c’è Lui che è bravo con voi e ci sono io che sono brava con Lui e anche noi stiamo resistendo, in alcuni periodi meglio in altri peggio ma abbiamo imparato a proteggerci dal vento, a ripararci dalla pioggia, a coprirci per il freddo e a scoprirci senza essere visti, abbiamo anche noi un paio di rinvasi pesanti come battaglie alle spalle, le radici hanno tremato sai, cercavano la presa nel terreno e non la trovavano più, non c’era molto a cui ancorarsi e abbiamo pensato che fosse finita, soprattutto io l’ho pensato, invece bastava aspettare, solo che non mi veniva ancora bene, non lo sapevo fare ecco perché mi facevo sempre male.