Il 3 di gennaio dell’anno in cui avrebbe compiuto 42 anni la Donna pensò che sarebbe morta. Non prima o poi come sanno gli esseri viventi ma proprio in uno di quei trecentosessantaerotti giorni rimanenti. Il pensiero arrivò come arrivano certi pensieri, che sembrano fatti da altri e allora li osservi per capirli o anche solo per vederli, per presentarti. Sdraiata sul divano con le gambe piegate appena, oltre la linea delle ginocchia unite la parete e sulla parete un quadro e nel quadro degli alberi e tra gli alberi una Donna che cammina, nessuno può sapere se si tratta della stessa Donna o solo di una donna, a nessuno importa.

A squarciare lo sguardo due cose: la voce della Donna che dice il pensiero a voce alta e il Marito che passa davanti al quadro proprio in quel momento impedendone la vista completa e trasformandolo, di fatto, in un altro quadro.

Il Marito pensa che la frase sia rivolta a lui, come ascoltatore. La Donna non sa perché quel pensiero le sia uscito a voce alta, non sa nemmeno se è davvero suo, potrebbe essere preso in prestito da qualcuno, forse dalla Donna del quadro.

Il Marito e la Donna si guardano, lui sembra molto alto oltre le ginocchia della Donna e sembra molto altro, pensa la Donna ma questa volta non lo dice e non sa perché. Non sa nemmeno perché non gli dica subito scusa, pensavo tra me e me non c’entri te. Lei sembra molto sola su quel divano ma meno di quanto vorrebbe, pensa il Marito e non lo dice nemmeno questa volta perché sa che lei dopo si sentirebbe in colpa. Sa che le chiede il perché, perché pensi che morirai quest’anno?

A questo punto il malinteso è irrecuperabile. Anche a dirgli che la frase non era per lui, non era per nessuno, non era nemmeno una frase ma solo un pensiero, anche a dirlo ormai è detta. Ormai è sentita, che è peggio che detta, se possibile. La Donna si mette seduta per metà, allunga le gambe e tira su la coperta grigia, regalo della mamma di una compagna di sua figlia, piccolo pegno di riconoscenza per un pigiama party di qualche anno prima, il Marito sembra alto ma non più di quello che è, sembra quello che è e molto altro. Il Marito si siede sul bracciolo, il quadro è più visibile di prima ma ancora non completamente, manca il terreno si vedono solo le chiome degli alberi, capelli su teste senza corpi o radici.

Se muori mi freghi. Le dice così, è sufficiente perché lei capisca cosa intende, cosa significherebbe quell’atto così umano e definitivo che chiamiamo morte nella sua vita, non più la loro, solo la sua. La morte di lei nella vita di lui sarebbe una fregatura rifilata, una patacca, un inganno bambinesco, una truffa mal architettata. La Donna lo sa perché loro se lo ripetono spesso e allora lo ha imparato, come una definizione, lo sa così, come sa l’art.2697 del Codice Civile, come sa che non ha niente da far valere, di conseguenza non ha niente da dimostrare.

Ecco perché la Donna dice che lo sa. Anche se le viene da piangere da un posto lontano che arriva all’improvviso, anche se non le importa, in fondo, di fregarlo. Perché lei pensa che morirà tra poco e non può dispiacersi per lui, deve commuoversi per se stessa, non può occuparsi di lui, deve preoccuparsi di se stessa. Non può dargli spiegazioni o cercare di farsi scusare, non può perdere tempo che non ha più, non può sentirsi in colpa perché non è colpa sua, non è colpa di nessuno, forse solo del pensiero che bastava non dirlo per lasciar perdere.

Preferisco così, comunque. Morire prima di te. Quest’anno mi scoccia morire, certo, ma va bene morire prima di te.

Il Marito le ricorda la loro differenza di età.

Non importa, te li cedo quegli anni lì. Tanto io non saprei come viverli senza di te, tu si. Tu te la cavi meglio in queste cose, io no. Ti chiamerei di continuo, sai. Sarebbe un’invocazione unica, dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina. E ti parlerei molto più di quanto non faccia adesso e mi incazzerei se non rispondi e scambierei per risposte segni, qualunque segno, anche la cacca di un piccione sul cofano dell’auto io lo prenderei come un tuo segno. Non puoi farmi vivere così. Tu invece faresti le tue cose, quelle senza di me, ti apparecchieresti anche la tavola lo so e metteresti il vino nel calice giusto, io no, senza di te mangerei in piedi dalla ciotola del Tupperware facendo a metà con il cane senza nemmeno lavarmi le mani mentre ti parlerei con la bocca piena diseredata e reietta.  

Non importa, te li cedo quegli anni. Non sopporterei il tuo funerale, manderei tutti a cagare, direi che non possono parlare di te, nessuno può farlo, solo io, io sola posso pronunciare il tuo nome, io sola, solo io posso raccontare il bene che hai fatto e il male che hai ricevuto, il dolore che hai sparso girando le spalle e la gioia spudorata del tuo sorriso il mattino presto quando il giorno ancora non sa di essere tale. Caccerei tutti come farisei dal tempio, non permetterei a nessuno di avvicinarsi, di vederti, di sfiorare il legno di quell’ultima barca, di portare fiori, di frugare tra ricordi come bestie tra i rifiuti. Nessuno potrebbe ricordarti, solo io, io sola, per tutti i giorni, ogni giorno, per la vita con me e anche quella prima nella quale sono entrata dalla porta della tua voce le infinite volte in cui hai narrato a me, a me sola, chi eri e cosa facevi mentre mi aspettavi.

Non importa, te li cedo quegli anni. Tu sai fare meglio di me, sai che non voglio niente di religioso e la foto deve essere bellissima. Nessun accenno a bontà che non ho, nessuna pretesa di riabilitazione, ho odiato moltissimo, ancora odio, potrei devastare per la forza dell’odio che nutro. Ho amato immensamente, ancora amo, potrei costruire un pianeta chissà dove con la quantità di amore che nutro.  Nessuna concessione alle emozioni di cui non soffro, si rammenti questo: io soffro di emozioni, alcune. Gli altri le provano, lo so. Io ne soffro. Se proprio ne ho provate è stato solo per capire se mi andavano bene oppure no. Nessuno sproloquio che cerchi di dare conforto al dolore dei nostri figli, abbracciali per me perché sarà la prima volta in cui non potrò farlo.

Non importa, te li cedo quegli anni. Conserva l’onestà che ci ho messo, soprattutto quella di pensiero. Perdona la mia incapacità di mediare. Ricorda i nostri segreti e poi disperdili, che nessuno possa conoscerli quando arriverai anche tu, ne avremo di nuovi, ce li racconteremo da principio, li inventeremo, ci faranno ridere, tu solo saprai quanto ti sono mancata, solo tu lo saprai e ne piangeremo insieme quando me lo racconterai e sarò io ad aspettarti questa volta.

Il 31 Dicembre dell’anno in cui ha compiuto 42 anni la Donna pensò che non era morta. Non del tutto. Dedicò un pensiero alla parte di lei che sì, era morta, senza dare disturbo, senza pretendere necrologi o lapidi, come muoiono le cose che abbiamo concluso, che sembrano fatte da altri, che le osservi e te ne congedi con educazione. Poi versò del vino in un calice, imboccò il cane con un pezzo del salmone che stava mangiando, si lavò le mani. Il Marito davanti a lei, nello sguardo intero, lui è il solo che sa se si tratta della stessa Donna.         

(A Fausta ed Ezio, che si sono sposati in inverno.)

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