La notte porta scompiglio. Che poi io non so nemmeno dirlo, ho un difetto di pronuncia, dico gli e sembra iii. Che poi me lo hanno detto, a me non sembra. Che poi è così che funziona con i difetti, in genere, sono gli altri che ce li indicano. Alcuni sono molto bravi nel farlo. Ho trascorso l’infanzia ostaggio dei miei cugini: “dì coniglio, teglia, caviglia, maglia”. Poi ho imparato a dire che due coglioni e hanno smesso. Lui invece mi imita e poi mi dice “pensa se mi chiamassi Moglia o Foglia o Paglia di cognome”. Non ti avrei sposato, gli rispondo. Ogni volta, sempre, lui dice così e io rispondo così.
Che poi a me sembra di dirlo benissimo, non lo sento proprio il difetto quindi vivo come se non ci fosse. Però c’è, sarà per quello che non trovo mai l’appiglio nelle notti di scompiglio che passano da un fianco all’altro per non arrendersi alla posizione supina, quella è la fine, quella è quella della fine. Che poi se un difetto non lo vedi vuol dire che non c’è oppure c’è ma non è così difettoso come sembra? Vivere come se non ci fosse significa che fingi che non ci sia? Ma se per te non c’è si può parlare di finzione? Ma se la gli andasse pronunciata come la pronuncio io e nessuno lo sapesse ancora? Cristina mi ha detto che, in fondo, l’eccezione è convinta di essere una regola: “cioè, se tu la osservi dal suo punto di vista lei ti dice non vedi che sono una regola, non vedi che cuoio si scrive cuoio e non quoio. Vuoi dire che questa è un’eccezione? A me che sono cuoio questa sembra una regola”.
A volte, la notte quando c’è scompiglio, Cristina è il mio appiglio. Non si dovrebbe dire, lo so, i figli sono altro. Sono altri. Lo so, lo difendo come principio ogni giorno, non intendo come Principio ma solo come principio, come inizio di ogni giorno, di ogni discorso con loro, su di loro, per loro. Ho smesso di difendere Principi, ho smesso di mangiare carne e fumare, ho smesso di guardare Grey’s Anatomy, ho smesso di rinviare. Anche Pepe è il mio appiglio, quando mi cerco indietro e non mi trovo, la guardo e penso che non si tratta solo dello spermatozoo più veloce, a volte, ma della migliore combinazione possibile di cellule. Poi penso ad altri e invece mi rendo conto che quella è stata la sola volta in cui sono stati i migliori. Cristina è il posto sicuro dove riflettere, una grotta, una casa in penombra, uno specchio che riflette quello che vorresti essere nella tua condizione migliore. Pepe è lo spazio aperto dove osservare, cielo e mare sottosopra, il sole allo zenit, lo specchio dove osservi i cambiamenti e ti riconosci solo nelle smorfie che sono rimaste uguali.
La notte porta scompiglio, cerco i miei appigli, conto gli sbadigli e li confondo con gli sbagli.
Siamo nel periodo della Mariafelicina. Anch’io avevo la mia Mariafelicina. Ogni brava ragazza ha avuto la sua Mariafelicina. Mariafelicina è la compagna, anche di un’altra sezione, che tu proprio: no, non sai, ma come si fa, ma che davvero, ma perché. Quella. Quella che dice una serie di idiozie e la gente intorno a lei pensa siano cose intelligenti, profonde, intrise di valore. La Mariafelicina in genere ha già le fattezze di una Barbie in un mondo di Skipper dove i tuoi coetanei sono la versione economica di Big Jim e di Ken non se ne vedono all’orizzonte. La Mariafelicina ha capelli che non sono mai grassi e unghie che crescono già arrotondate e con la lunetta bianca, mentre tu riesci a scheggiare lo smalto mentre lo stendi perché con la mano sinistra non sei capace di applicarlo e non vai nemmeno a buttare la spazzatura se prima non lavi, di nuovo, i capelli. I genitori di Mariafelicina hanno denti bianchi, sembrano fatti dall’Idealstandard. Il papà ha il motore della macchina per esprimere la sua virilità e dei jeans attillati che terminano sulle sneakers da cinquantenne che ne ha fatte tante ma meno di quelle che millanta. La mamma di Mariafelicina è anche la sua migliore amica, perché è stata Mariafelicina e perché sì, perché Mariafelicina è una di quelle ragazze che sorridono dicendo “mia mamma è più un’amica, la mia più grande amica, io a lei confido tutto”. Tu rabbrividisci. Forse perché patisci il freddo, invece no, è l’immagine di tua madre e dei tuoi segreti nello stesso pensiero. Mariafelicina ha sempre la pancia scoperta senza tracce di peluria. E poi la Mariafelicina, in genere, è molto impegnata perché fa ginnastica ritmica o danza e deve preparare il saggio e tutti devono sapere che lei deve preparare il saggio.
La mia Mariafelicina aveva un nome stranissimo, di quelli che non si sentono tanto anzi nemmeno poco, un nome raro, dicevano ammaliati i suoi cortigiani, io pensavo che rare sono anche certe malattie per le quali non c’è cura, insomma si fa presto a dire raro ma mica è detto che raro sia bello, altrimenti bisognerebbe dire che bel nome e non che nome raro. Guardavo il suo viso privo di imperfezioni ormonali e mi sembrava che fosse stato disegnato con un compasso, rotondo perfetto, preciso, roba da calcolarci il raggio e il diametro, a sapere la formula. Rideva per niente e portava i capelli dietro l’orecchio contemporaneamente, un tic pensavo io, no, un vezzo mi correggevano i cortigiani. Giusto. Io ci ho provato, lo ammetto, a fare la stessa cosa, non se n’è mai accorto nessuno, solo mia madre che guardandomi stranita mi chiese: “perché ridi come una scema e ti gratti la testa? Hai la forfora?” Fine del mio vezzo.
Ho incontrato la mia Mariafelicina trent’anni dopo. L’ho riconosciuta subito, nessuna esitazione, un cinquantenne con i jeans attillati e le sneakers ha fatto una battuta insignificante e lei ha riso portandosi i capelli dietro l’orecchio. Stesso viso rotondo ma con zigomi e labbra in 3D. Ci siamo salutate come due che non smaniavano dalla voglia di incontrarsi e trovarsi faccia a faccia con la propria adolescenza mentre sei un attimo occupato a vivere quella dei tuoi figli e stai combattendo con la nuova generazione di Mariafelicine. Perché no, io non sono amica delle mie figlie e nemmeno le voglio sapere le cose che raccontano alle amiche e nemmeno voglio che le mamme delle loro amiche me le dicano perché siamo amiche no, grazie. Perché non ci credo a certe relazioni, perché non sono così e quindi non posso essere una madre così, posso essere la sola madre che sono, la sola persona che sono e nelle notti di scompiglio afferro le mie figlie come un appiglio nonostante tutti i miei sbagli e trovo il senso, non il Senso ma il senso, la direzione, il percorso, il senso di marcia e questo è quello che loro fanno per me e sono per me e so che forse non è giusto ma sono loro che me lo danno il senso “di qui mamma, da questa parte”.
Però una cosa è certa: la vostra Mariafelicina è anche la mia Mariafelicina. Combatteremo insieme il suo approccio gioioso a ogni cagata, lo stupore decerebrato con cui guarda il mondo, l’allegria sprigionata grazie a un indulto, la sintassi denudata che esibisce. Saremo eccezioni alla regola che impone di definirle solari, spigliate, estroverse. Saremo eccezioni alla regola che impone di definirle. Saremo eccezioni in un mondo di Mariafelicine. E ci convinceremo di essere regole, in un mondo di Mariafelicine.

Anche mia figlia ha lo stesso difetto. Ci hanno detto che se l’avessimo fatta seguire da un logopedista alle elementari avrebbe risolto in breve tempo. Così, giusto per aumentare i sensi di colpa. Va be’, sopravviverà anche dicendo coniii invece che conigli (che lei adora!). Anche io vorrei smettere di vedere Grey’s, ma non c’è la faccio. Quanto alla Mariafelicina, no! Quella è roba da femmine. Però sarebbe interessante trovare il corrispettivo maschile!
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Devo ancora superare la morte di Derek. Un dolore troppo forte.
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