Ho comprato un olmo, un bonsai. Per il nostro ventesimo anniversario, è stato lunedi scorso e non abbiamo festeggiato perché cosa vuoi festeggiare di lunedi? Le ragazze si allenano, io ho il corso di tedesco e gli animi, in generale, sono quelli del lunedi. Non c’ è mai da festeggiare.
L’olmo ha vent’anni, anche lui.
L’ho scelto nelle settimane scorse, prima ho cercato su Internet, ho mandato qualche mail e poi ho telefonato.
Non volevo un olmo, mi piaceva il ciliegio e ne avevo trovato uno meraviglioso nel tripudio della sua fioritura ma è da esterno e noi non siamo ancora in grado di occuparci di un bonsai da esterno, sapevo che lo avrei preso per la bellezza e poi lo avrei tenuto in casa per la paura e sarebbe morto.
Sapevo già tutto perché non si tratta di conoscere i bonsai o i ciliegi, è più quella cosa del conosci te stesso. Sapevo. So.
Poi mi ha infastidito la commessa di questo superbo vivaio nel cuore di Torino, in un gioco di incroci tra portici e rotaie del tram. Si, è vero, io sono stata un po’ insistente con le rassicurazioni che pretendevo, con le domande che ponevo, con i dubbi che muovevo ma la verità è che lei mi ha infastidita dalla voce, la sua, la voce figa di chi sa che ti sta facendo un favore a venderti un ciliegio bonsai di vent’anni nel pieno della sua festosa magnificenza. Io non ho la voce figa, mai. E non faccio favori.
Mi ha mandato le foto, dopo la telefonata abbiamo iniziato uno scambio di messaggi, per fortuna nessun vocale perché non li avrei ascoltati. Già i termini per il ritiro o la consegna hanno rivelato una scarsa propensione alla collaborazione. Il lunedì sono chiusi. Capisco ma non posso cambiare giorno, se il dodici aprile cade di lunedì non posso spostarlo. Venga prima. E dove me lo metto prima? Lo regali prima. Non è possibile, può consegnarmelo il lunedì in ufficio? Anche se siete chiusi al pubblico magari fate le consegne.
Si, le facciamo ma non fuori Torino.
Chi le ha detto che sono fuori Torino?
Allora venga lei.
Ma siete chiusi e poi io sono in ufficio, non posso andare via così.
Vabbè, se il bonsai le piace un modo lo troviamo.
Allora le ho chiesto se potevo metterlo nel roccioso e mi ha risposto domandandomi cosa fosse un roccioso e ci ha aggiunto la faccetta stupita.
Il mio pensiero è stato adesso vengo là nel cuore di Torino tra portici e rotaie e la faccetta stupita te la tolgo a suon di calci in culo trasformandola in una faccia di dolore. Poi ho controllato se esiste la parola roccioso e l’ho trovata: giardino roccioso, composto da piante e rocce. Cara la mia sabauda vivaista. Le ho mandato la definizione chiedendole per favore di non domandarmi da quali rocce fosse composto il mio roccioso perché la geologia non è il mio campo.
A quel punto i nostri rapporti erano già evidentemente deteriorati, era una gara a chi è più stronza cosa che a noi donne riesce sempre anche se stiamo per lunghi periodi senza praticare, è un attimo rimetterci in pista.
Quindi niente ciliegio.
Per stizza e incomprensioni semantiche.
E per paura.
È che lo so quanto ci vuole a tirare su qualcosa per vent’anni, a curarlo per vent’anni, si arriva a un punto che sai cosa rischi e non vuoi rischiare.
Sono solo numeri, dice Lui, non contano.
Sarà.
Ma io che i numeri non li ho mai capiti, come la geologia e un ‘infinità di altre cose sempre molto pratiche perché, bisogna dirlo, ho maggiori difficoltà a capire le cose che sono cose piuttosto che le cose che sono idee, io che i numeri non li ho capiti mai so che servono proprio quelli per contare.
Forse Lui intende che non si contano, che non serve.
Sarà.
A lui non serve. A me si, infatti io li conto. Ho scritto venti crocette su un foglio a righe ma non in fila, li ho scritti come scarabocchi quando parli al telefono, una piccola pioggia disordinata di ricordi. Un segno per ogni anno, dentro ogni anno dodici mesi, dentro ogni mese quattro settimane e una trentina di giorni, dentro ogni giorno ventiquattro ore per sessanta minuti ciascuna e attraversati da sessanta secondi ognuno, sbatti le palpebre, ricomincia dai sessanta secondi e fanne minuti fino a sessanta in un’ora e poi contane ventiquattro per sette giorni per quattro settimane per dodici mesi per venti volte.
Vent’anni.
Roba da usucapione insomma.
Che poi è una data convenzionale, quella in cui è entrato nella mia vita con la leggerezza di un appuntamento buttato lì come un maglioncino sulle spalle, ad aprile può fare molto caldo anche a Torino ma anche, ancora, molto freddo.
Quell’aprile faceva caldo, Lui era reduce da una febbre e da una settimana di antibiotici.
Io ero solo reduce da qualche mia battaglia anche se non ricordo quale.
Da quella sera di aprile di vent’anni fa la vita ha preso strade diverse, la sua, la mia, fino a diventare la nostra, dopo, a un certo punto, altrove e a restare comunque la sua, la mia. Questo è stato il lavoro più difficile. Quell’aprile è il punto di partenza dal quale conto per orientarmi, come per ritrovare l’auto fuori dal supermercato.
Questo aprile fa freddo, ecco perchè il ciliegio mi sembrava un prodigio in miniatura, nel mio roccioso i tulipani faticano a spuntare, non se la sentono ancora, osservo ogni giorno i progressi: fa capolino quello viola, forse più sicuro di quello bianco, di quelli neri non c’è ancora traccia. So che fioriranno perché li hanno piantati le mie figlie, fossi stata io lo scorso autunno a occuparmene sarebbero morti sotto terra. Aspetto. Mi viene bene.
Alla fine ho chiamato il bonsaista storico della città, quello che ha il nome che già sembra una specie di bonsai, gli ho chiesto se aveva piante di vent’anni per un anniversario, è stato zitto, sentivo lo sfregamento delle sue dita contro la barba sul mento ho immaginato, il respiro regolato dalla presenza di tutte le piante ordinate intorno alla postazione dalla quale mi parlava, il cassetto del registratore di cassa che scatta, il campanello della porta che suona quando questa si apre.
Si, mi ha detto, interrompendo la polifonia del suo mondo con la voce di chi ci ha pensato e poteva risponderti solo si o no e risponde si.
Per una fortunata serie di eventi ha spostato da qualche tempo il negozio a cinque minuti a piedi dal mio ufficio e io non lo sapevo, ecco vedi, mi sono detta. Nessun dubbio.
Sono andata con Cristina, era con me quel pomeriggio, dopo teatro e prima di andare a prendere sua sorella a tennis, come ogni venerdì, solo che aveva il braccio al collo perchè noi abbiamo passato la Pasquetta in sala gessi, io e lei. E l’ortopedico di turno. E la radiologa sgarbata e l’infermiera Conci “adesso a casa ti fai dare da mamma un bel foulard e tieni il braccio su”. Come può pensare che tu abbia dei foulard? Ti ha vista? Mi ha chiesto Cri.
C’è una bella vista dalla sala gessi di quell’ospedale, è al quarto piano, lo sguardo si allarga su Torino, sulla collina, il fiume. C’eravamo state cinque anni fa, quella volta però era una frattura vera. Questa volta solo una brutta contrattura, ha vinto un bendaggio rigido con qualcosa con lo zinco che non ho capito e un riposo di otto giorni. La volta scorsa un mese di gesso, a ridosso degli esami di passaggio cintura, doveva prendere la cintura verde. Anche adesso è a ridosso degli esami, deve diventare cintura nera, aspetta questo momento da otto anni, da quando ha iniziato. Cinque anni fa c’era una bella vista ma non l’avevo vista, ero reduce da una battaglia e pensavo a dove spostare la mia vita.
Tutti mi hanno chiesto se si fosse fatta male a Karate. No. Perché quello lo sa fare. Si fa male sempre fuori dal tatami, sempre mentre fa cose che sono cose che in genere non fa. La cintura verde poi l’aveva presa al termine di una prova impegnativa e anche commovente.
Cristina ha approvato l’olmo, lo abbiamo guardato per un po’, è piccolo per avere vent’anni ho detto, non c’entra la grandezza con l’età mi ha risposto il Signor Bonsai, lo abbiamo rinvasato due anni fa, bisogna potarlo tra quindici giorni, magari dica a suo marito di venire così lo potiamo insieme la prima volta.
Gli piacerà? Ho chiesto a mia figlia.
Si, mamma. Secondo me non se l’aspetta.
L’olmo ha un significato importante, ho scoperto. È meno bello del ciliegio, si, va detto. Meno colorato, non fiorisce e non sussurra sulle labbra voglio fare con te ciò che la primavera fa con i ciliegi, non incanta lo sguardo.
Però è solido. Ha le sue certezze, si vede. Va verso l’alto e un po’ si curva ma in modo dolce, come per ascoltare un bambino o il ciuffo verde che ha alla base del tronco, sono piantine che gli sono cresciute lì così, mi ha spiegato il Signor Bonsai, sono spuntate spontaneamente e si possono lasciare in modo decorativo o magari al prossimo rinvaso le posso spostare e lasciarle vivere in autonomia.
Vedremo, appena saranno pronte, ho risposto.
La giusta quantità d’acqua, radici resistenti, potatura poco impegnativa ma comunque necessaria, ha vent’anni e non si direbbe. Abbiamo possibilità di farcela, gli ho detto, mentre lo lasciavo per il fine settimana in ufficio, sull’asse del wc tirato giù, lontano dai termosifoni e nel solo punto dove gli arrivasse la luce e gli ho chiesto, per favore, di non morire, promettendogli che casa nostra gli sarebbe piaciuta, avevo già immaginato il posto, nell’angolo verde del salotto, sotto il quadro quello nostro, in cui lei è sdraiata e legge e lui le è seduto accanto,guarda le vele in mare dalla finestra, in quell’angolo c’è anche un Ficus, sai, pure lui bonsai e sta resistendo e poi a casa c’è Lui che è bravo con voi e ci sono io che sono brava con Lui e anche noi stiamo resistendo, in alcuni periodi meglio in altri peggio ma abbiamo imparato a proteggerci dal vento, a ripararci dalla pioggia, a coprirci per il freddo e a scoprirci senza essere visti, abbiamo anche noi un paio di rinvasi pesanti come battaglie alle spalle, le radici hanno tremato sai, cercavano la presa nel terreno e non la trovavano più, non c’era molto a cui ancorarsi e abbiamo pensato che fosse finita, soprattutto io l’ho pensato, invece bastava aspettare, solo che non mi veniva ancora bene, non lo sapevo fare ecco perché mi facevo sempre male.

Anche a me hanno recentemente regalato un bonsai, per il mio ultimo compleanno.
E’ un modesto Ficus Qualcosa. Non è bello, ma è simpatico, insomma, un tipo. L’ho chiamato Meitè, come il tristanzuolo calciatore ex-granata (per fortuna) con il quale condivide il ciuffo e la mobilità.
Anche a mia madre avevo regalato un bonsai, tempo fa, ma è morto subito. Così dice lei. Io sono certo che si è suicidato.
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Penso che i miei tulipani si siano sucidati. Alcuni, quelli ai quali sono stata più vicina.
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