Perdo lo sguardo, il mio ovviamente. Lo perdo a cinquanta centimetri, mica tanto, ma lo perdo. Resto così, alzo gli occhi dallo schermo e dai numeri, dalla prima nota della banca, dalle causali che alcuni clienti scrivono nei bonifici, roba di fantasia, nessuna cognizione che per saldare una fattura sia sufficiente indicare il numero della stessa, l’abbiamo emessa noi, se ci dite il numero sappiamo cosa abbiamo fatto, forse. Invece no, scrivono cosa pagano come un post su Instagram, prima o poi mi aspetto qualcuno che alla fine della causale inserisca anche “cit” o che ci spieghi il perché ha deciso di sottoscrivere un contratto con noi, dai, siamo curiosi, racconta un po’.

Tanti anni fa la segretaria di un cliente disse “veniamo da voi solo perché siete vicini”. Di lei si sono perse le tracce, noi ci siamo spostati, io ancora di più, fra due mesi saranno sette anni che mi sono rintanata in una sorta di torre d’avorio da dove continuo a svolgere il mio lavoro senza che nessuno mi veda, senza vedere nessuno, solo sentendo di tanto in tanto e facendomi sentire poco, sempre meno, che non mi va.

La motivazione della vicinanza era valida, però. In effetti reggeva. Poi a me le persone che dicono le cose per come le pensano, in fondo, fanno simpatia. Sono quelli che non pensano e dicono che vorrei bruciare su pire perenni.

Ho esagerato, lo so. È un mio difetto. Però lo penso.

Avevo una professoressa al liceo, insegnava letteratura italiana e latina, greco no, lo insegnava un’altra, una con i capelli sporchi. La professoressa di letteratura invece aveva lunghi capelli biondi e occhioni verdi sbatacchioni, raramente restava seduta alla cattedra, più facilmente si metteva seduta sulla cattedra, le dava quell’aria scanzonata e anticonformista che ci piaceva.

Lei perdeva lo sguardo, il suo ovviamente. Alzava gli occhi dalla classe, noi, ventitré o ventiquattro ragazze non ricordo, sì, eravamo tutte ragazze, e fissava appena oltre le nostre teste, verso la finestra che dava sul cortile e taceva per il tempo di un sospiro. Poi diceva: “una lavanderia. Dovevo aprire una lavanderia. Mi avrebbero portato i panni da lavare, avrebbero pagato subito e sarebbero andati via con la ricevuta gialla, sarebbero tornati a prendere i panni lavati e stirati il giorno indicato per il ritiro e sarebbero andati via con le veline sottile a ricoprire i maglioni o destreggiandosi con le grucce di metallo per le camicie, di fronte a macchie impossibili avrei detto che non c’era niente da fare e si sarebbero rassegnati, nelle ore di solitudine quando nessuno entra e non si sente il campanellino della porta sarei rimasta nel retro a stirare ascoltando la radio.” 

La capisco.

Al liceo anch’io perdevo lo sguardo, il mio ovviamente. Anzi no, prima lo gettavo e solo dopo lo perdevo. Facevo lo stesso anche con il cuore. Lo tenevo con la mano sotto l’orecchio, poggiato sul collo e correvo veloce, arrivata al segno tracciato per terra lo lanciavo estendendo al massimo il braccio e vedevo dove arrivava. Non ci riuscivo mai. Allora iniziava la ricerca. Lo sguardo lo recuperavo sempre prima del cuore, non andava lontanissimo, ho gli occhi malandati. Il cuore invece è un agonista.

Il problema dello sguardo era, è, il collegamento al sonoro del mondo. Per sentire dovevo, devo, guardare. Se perdo lo sguardo perdo i suoni attorno a me, resta il brusio, lo sciacquone del cesso quando il galleggiante della vaschetta è rotto, non sento, sentivo, più cosa mi dicono. Temo di aver perso molte informazioni importanti durante gli anni del liceo, soprattutto durante le ore di chimica o matematica o Scienze della Terra. Che materia era? A noi la insegnava una donnina odiosa dall’aspetto rancido. Ho esagerato, lo so. È, era, un mio difetto.  Però lo penso.

Forse a un certo punto la sua materia era diventata Geografia astronomica o qualcosa di simile. Quello è stato l’anno in cui ho lanciato il cuore più lontano che potevo, con i miei occhi mai avrei potuto ritrovarlo, infatti penso di aver vagato a lungo senza, sperando che un cane lo trovasse e me lo riportasse, anche smangiucchiato ai lati. Ero troppo impegnata a cercare lo sguardo che avevo perso, il mio ovviamente, per recuperare il cuore gettato lontano, il mio ovviamente, per occuparmi del calore al centro della terra o di altre idiozie astronomiche raccontate da una persona a cui non vibrava la voce mai, solo emetteva suoni con tono monocorde, mai un balzo, un guizzo, mai qualcosa, solo il niente, un enorme buco nero come quello che mi ritrovavo dietro il seno sinistro.

La donnina rancida è rimasta al liceo quando io sono andata via, non so che fine abbia fatto, avrà continuato a leggere dal libro di testo con la copertina tagliata nell’angolo in basso, omaggio all’insegnante, seduta alla cattedra per cinquantacinque minuti all’ora, ingiustamente assegnata a un classico invece che a uno scientifico, interrogando a sorpresa scorrendo il dito sul registro senza mai sorprendersi a interrogarsi su qualcosa, solo il niente, un enorme buco nero che la ingoiava a ritmo di cinquantacinque minuti alla volta.

Perdo lo sguardo, il mio ovviamente. Mi capita sempre più spesso ultimamente, lo sollevo, lo adagio sulla parete davanti a me oppure oltre la finestra della stanza dove lavoro a casa o in ufficio, senza guardare, senza sentire, sembro distratta e invece penso e sento.

Ho appena scritto senza sentire, vero. Ma quello è il sentire con le orecchie, questo è altro. È un sentire che soverchia il suono, è un sentire lontanissimo che restituisce contorni, bordi frastagliati, è un sentire futuro, presagio, profilassi contro l’angoscia metastasi dell’ansia. Perdo lo sguardo sempre di più e sempre meno lo vado cercando, mi rintano, sto zitta, mugugno cantilene, cerco rifugio in minuscole questioni, la porta della camera di Pepe che non chiude bene, la tenda del velux da rifare perché passa troppa luce il mattino, la parete del corridoio troppo grande e troppo vuota, la gratitudine da professare, il ripasso delle mie benedizioni declinate correttamente, ripetute a mente, ricominciare da capo quando se ne dimentica una che è il solo modo per impararle.

Chiudo gli occhi, a volte. Porto il pollice e l’indice all’attaccatura del naso, premo un po’ da sentire appena una fitta, resto così, vorrei essere altrove senza sapere dove, ovunque, da nessuna parte, qui, lontano, quanto lontano? Abbastanza da faticare a tornare, da faticare anche a trovarmi, come il cuore quando ancora lo lanciavo e vada come deve, recuperato sporco e infreddolito, vagabondo mendicante, ripulito a dovere, ben vestito a coprire un’eccessiva magrezza, risistemato dietro il seno sinistro in un buco troppo grande, pazienza, ci vuole pazienza e ti rimetterai, sussurrato ogni sera, ninna nanna dell’amor perduto.

Perdo lo sguardo, il mio ovviamente. Sempre più a lungo ormai, che sembro sovrappensiero e invece sono dentro ai pensieri, i miei ovviamente, così dentro che non succede più niente fuori, così dentro che non esiste il fuori, penzola solo un filo che sembra poco più di una corda, una cima di sicurezza, per non rischiare di non tornare più, qui, qui su, a riprendere lo sguardo e poggiarlo svogliato sui numeri, sulle causali dei bonifici, sulle idiozie, astronomiche, della gente, come se così fossero al riparo anche i pensieri, i miei ovviamente, come se così potessi anestetizzarmi, come se il vero rischio che corro fosse quello di restare dentro, così dentro da non sapere più se il fuori sia mai esistito e non di dover tornare su, aggrappata a un filo che è poco più di una corda sfilacciata.

Riapro gli occhi, sempre. Con i polpastrelli spettino i capelli e poi disegno il contorno dei miei occhi, li stiracchio con i mignoli, tiro in su le palpebre finché non sfarfallano le immagini davanti a me, faccio la conta dei denti con la lingua, mordo l’interno delle labbra, le mie ovviamente, fino a sentire appena il sapore di ferro, la corda non si è spezzata nemmeno questa volta, prima o poi accadrà, resterò lì, laggiù, dove? Non si sa, ma giù, è profondo, abbastanza da non recuperare più lo sguardo, il mio ovviamente.  

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