Adolescenza significa che non c’è dolo. È un evidente caso di alfa privativa, a-dolescenza: la danza di lacrime e risate su una base di stizza non è intenzionale. Che poi è come vivo io, salvo il discorso del dolo, ovviamente. Vivere con degli adolescenti è istruttivo, personalmente ho trovato più distruttivo vivere con degli infanti. In assoluto, comunque, è meglio vivere con dei cani. A star con gli adolescenti impari che le Regine delle Fate esistono, sono quelle che rispondono danza quando viene chiesto loro che sport praticano. Impari che se li fai incazzare ti metteranno la forchetta rimasta sporca o caduta a terra mentre apparecchiano controvoglia e raccolta senza risciacquarla, senza nemmeno soffiarci sopra entro i dieci secondi, pratica che uccide ogni germe, è risaputo. Tu mangerai con quella posata pestata dai cani dopo essere stati in giardino senza sapere i rischi che corri. A vivere con gli adolescenti ti senti come quando nel tuo quartiere cambia qualcosa, passi per giorni davanti a un cantiere, un negozio annuncia la nuova apertura, tu ci passi mattina e sera, vedi ma non guardi, poi il negozio apre e non hai capito bene di cosa si tratta e nello spazio di qualche settimana non ti ricordi più quale negozio fosse lì prima. Una profumeria? Un calzolaio? Adesso cos’è? Un’agenzia immobiliare. Prima cosa c’era? Boh. Ripensi al quartiere dove vivevi da bambino, ai negozi e quelli te li ricordi tutti. Farmacia-panetteria- latteria-fruttivendolo- edicola-drogheria. Invece qui, adesso, questi non te li ricordi. A vivere con gli adolescenti capita di dover spiegare cos’era una latteria. Il negozio che c’è adesso, forse, non ti serve, non è il tipo di negozio dove entreresti. Ma tanto non è lì per te. Va bene lo stesso, dici, a nessuno, perché nessuno ascolta. Solo il cane.
Vivere con qualcuno, chiunque esso sia, è fondamentale quando si ha la febbre o il sospetto di avere la febbre. Perché il termometro te lo deve dare qualcuno dopo averlo scalato e al termine dei cinque minuti lo devi dare a qualcuno che controlla la temperatura e tu devi capire solo dallo sguardo. L’operazione termometro non può essere svolta in autonomia. Non ho mai visto nessuno farlo. Impossibile. O, almeno, inconcepibile.
Una donna che si chiama Paola mi ha detto che il mio nome, Sonia, è molto diffuso. La riformulo. Sonia è un nome molto diffuso, a detta di una persona che si chiama Paola. Niente, me la rigiro in tutti i modi ma continua a non aver senso nella mia testa. Apro la rubrica del telefono. Ho mille Paola. Poi, non so in giro per l’Italia, ma qui a Torino si fanno chiamare tutte Paoletta. Ora, già Paola significa quel che significa, anche Sonia significa quel che significa, ma insomma a significato direi che non c’è gara, poi se lo usate anche con il diminutivo è veramente riduttivo. Ecco. Mille Paola. Nemmeno una Sonia nella mia rubrica. Ma Sonia è un nome diffuso. Ma soprattutto mi ci sono intestardita, su questa cazzata. Che non so nemmeno io perché, la vado ripetendo un po’ a tutti: ti rendi conto, una che si chiama Paola mi ha detto che Sonia è un nome molto diffuso, cioè, capito? Paola. Scusate, Paole e Paolette della mia rubrica, è che non me ne capacito.
Ho fretta. Sempre. Senza motivo, davvero io non ho motivi di fretta. Posso arrivare in ufficio quando voglio. Posso uscire dall’ufficio quando voglio. Le ragazze frequentano scuole vicine, accompagno entrambe e riprendo entrambe con tempi comodi. Ma io, ultimamente, ho fretta. Mangio in fretta, velocissima, non è mai successo prima. I tempi biblici dei miei pasti da bambina sono uno dei cavalli di battaglia narrativi di mia madre. Pare che ci mettessi quaranta minuti a mangiare un uovo al tegamino o alla coque. Lo dice sempre e cerca lo sguardo di mio padre, ti ricordi, gli chiede. Lui si ricorda. Ora, io pranzi di quaranta minuti a casa dei miei fatico a ricordarli, nel senso che ci si sedeva, si mangiava, ci si alzava. Però. Per carità. Lei ricorda, chiede a lui, lui conferma. Tutto giusto. Io ricordo la mia sedia. Avevo lei a destra e lui a sinistra. Il tavolo era rotondo. Davanti a me c’era il cucinino e poi negli anni mio fratello. I miei genitori fumavano a tavola, una volta finito di mangiare. Quindi, secondo il loro racconto mentre io ancora cercavo di convincermi che dovevo masticare e ingoiare. Dietro di me c’era la radio, sul ripiano angolare. Era spenta, non si mangiava con la radio accesa. Il televisore era in un’altra stanza. Ricordo anche un uovo, nel portauovo, il cucchiaino che stacca il bianco, albume, dal bordo, il rosso, tuorlo, nel qual intingere la mollica. Forse, mamma, non mi piacevano le uova. Adesso, invece, ho fretta. Sempre. Senza motivo se non che mi manca qualcosa, non so cosa, mi manca nel respiro che si fa corto, mi manca nelle ore di sonno risicate e rosicate e rosicchiate. Mi manca negli automatismi. Nell’ordine dettato per fare le cose. Nella programmazione. Ho fretta di andare incontro a un imprevisto per dire che, visto, l’avevo previsto. È tutto sotto controllo. Ho fretta e cammino veloce per andare da nessuna parte. Ho fretta e aumento gli allenamenti. Ho fretta e compro altri libri. Ho fretta e questa è una cosa nuova. Sono una neofita della fretta. Sono un’entusiasta della fretta. Ho fretta, non aspetto più. Mai più.
Siamo diventati importanti consumatori di caco-mela. È iniziato come un tentativo, da parte mia. Il cachi mi ha sempre fatto schifo. Proprio schifo, schifo che non si dice schifo del cibo ma se fa schifo devi dire schifo. Il cachi mi ricorda la maestra Clara, all’asilo. La maestra Clara non mi faceva schifo, ma gli zoccoli bianchi che aveva ai piedi sì. E anche il cachi come merenda del pomeriggio. Si spappolava tutto, risaliva lungo il cucchiaino, era impossibile non essere agguantati da quella gelatina vischiosa e arancione. L’arancione mi fa schifo. Quando aspettavo Cri, nei primi mesi di gravidanza, ho avuto solo due voglie. Vere voglie, proprio quelle che sono voglie, che devi soddisfare a tutti i costi, potresti uccidere per avere quello che non solo desideri ma proprio vuoi. Solo due voglie, in due serate diverse fortunatamente: un involtino primavera e il suo odore. E il gelato al cachi. Cristina adora il cachi. È la sola in famiglia. Ho trovato il caco-mela, questo curioso incontro tra il cachi e la mela. Ha la consistenza di quest’ultima e la dolcezza del primo. Lo prendo, proviamo. Ogni volta che porto a casa qualcosa da provare incontro una sola resistenza, una sola. Quella di Lui. Lui pensa, in partenza, che io sia stata mossa da un desiderio di novità che mi deluderà. Pepe dice che è solo perché non ha avuto Lui l’idea, una sorta di invidia della novità. Io non lo so, ma a volte mi sono sforzata di apprezzare per non dargli ragione, con il mapo per esempio, l’incrocio tra mandarino e pompelmo. Non in questo caso, però. Lui ha detto che il caco-mela non esiste in natura. È una forzatura. Anche tu, gli ho detto. Cosa si incrociano piemontesi con friulani, che poi uscite strani. Sei come il caco-mela, ho concluso. Ti ho dato una possibilità e mi sei piaciuto lo stesso. E niente, adesso va in giro per mercati a comprarli per le ragazze, perché io li prendo al supermercato e costano di più e sono meno buoni, certo. Lui sa dove prenderli, bravo. Solo gli ha cambiato nome e glielo abbiamo concesso, li chiama: melocaco. Lo capisco.
Mio nipote, duenne inglese con bilinguismo incorporato, mi ha portato in bagno, a casa dei miei genitori e mi ha fatto vedere il bidet. Per lui è un accessorio sconosciuto, a casa sua. Cos’è questo, Geppetto? Gli ho chiesto curva su di lui, occhi negli occhi. È il lavaculo. Lavaculo. Lavaculo. Laaaavaaaaculooooo. Anche i vicini lo hanno sentito. È il tempo trascorso con mia madre, lo so. Riconosco lo stile. Poi mi ha legata alla poltrona del salotto con il nastro del regalo che gli ho portato e mi ha fatto aggredire da un dinosauro, da un robot, da Ken rubato a sua cugina, mia nipote quattrenne italiana con rivendica incorporata e così quando lei si è accorta del furto gli ha strappato Ken di mano lui prima di piangere ha cercato di riprenderlo e le ha tirato qualcosa come i capelli o la maglia e io ero legata alla poltrona e loro litigavano e lui deve aver detto qualcosa come dad, help me e mio fratello che succhiava nervoso la sigaretta elettronica mi ha detto senti come parla bene, lo trovi cresciuto, è bello vero? Ho detto sì, sì, sì. Ho chiesto di essere liberata, hanno smesso di litigare per dirmi che non avevano ancora finito di giocare con me e anche mia nipote si è aggiunta e ha iniziato a farmi aggredire da Barbie, da Cicciobello cagacazzobua o quel che era e a quel punto è arrivata mia madre che era sul balcone della cucina a fumare e mi ha chiesto cosa ci facessi seduta e legata e poi è arrivato mio padre che era nel suo studio a lavorare e mi ha chiesto perché fossi seduta e legata. E io mi sono sentita un po’ in colpa.
Non ho presentimenti buoni. Pre-sento le cose quando vanno male, su quello sono davvero imbattibile. Se nell’aria c’è un accenno di tragedia o problema io lo capto con la precisione di un radar sofisticato. Se nell’aria c’è qualcosa che gira per il verso giusto niente. Niente. Io non sento niente. Sonia, mi sono detta, non Paola, Sonia, la felicità non fa rumore. È quel vecchio adagio che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce? Mi sono chiesta. Tipo, mi sono risposta. È più come quando da adolescente, ricordi, sei stata adolescente anche tu è inutile che cerchi di rimuovere, è tutto ancora lì lo sai, è più come quando da adolescente ti eri amminchiata con l’atarassia e l’aponia. Ah, che tempi gloriosi quelli in cui anelavi a tanto. Ecco. Non senti il turbamento, non senti l’agitazione, questa è la felicità, pensi sia l’assenza di segnali invece è il segnale. Tutto sta andando bene. Zitta, non pensare a voce alta. Zitta. Non andrà male solo perchè dici che sta andando bene. Ascolta, cosa senti? Niente. Ecco, giusto. Vuol dire che arriverà la felicità se non vibro, se non ho sentore alla bocca dello stomaco, se non mi trema l’anima? Vuol dire che è già qui la felicità. Sicura? No, sicura mai. Si tratta, sempre, di te. O di me.
Va bene. Va bene lo stesso.

Un po’ come per i segni zodiacali, è vero che ci sono abbinamenti geografici di inopportuno accostamento per la procreazione. Confermo che la cortese tracotanza dei torinesi mal si appaia con l’ombrosa ruvidezza dei friulani. Si generano esseri dai pregi certi sebbene nascosti, ma spessi come la cotenna del cinghiale.
(N. B. ma poi i bimbi ti hanno slegata?)
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Mi ha slegato mia madre, perchè stavo facendo agitare i bambini, poi non dormono.
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Cortese tracotanza dei torinesi è da standing ovation. La cortese tracotanza dei torinesi di riporto raggiunge poi vette inaccessibili.
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