Cucino come se pregassi. Cerco lavorazioni lunghe, come un rosario per i defunti, taglio la verdura, elimino le parti brutte, seleziono quelle belle, sminuzzo, taglio, affetto, lavo, passo le dita sotto l’acqua del rubinetto, agito e scuoto, sfrego se serve e risciacquo e ancora da capo poi la lascio sgocciolare, metto sul fuoco un tegame, inizio a cuocere, accendo le luci sopra la cappa, mai la cappa perché m dà fastidio il rumore. Misuro la farina, investo del ruolo di tara una tazzina da caffè per calcolare quanti sono 30 ml di olio, impasto, accarezzo, benedico senza sapere come si benedice, benedico di buone intenzioni e di speranze, di regole rispettate tutte, di peso lordo meno tara, di sale messo a sentimento ma è un sentimento buono, benedico chiedendo aiuto a Pepe, assaggia, dimmi tu se va bene, io non assaggio perché altrimenti non sarebbe più un atto di fede, metto da parte, copro con un canovaccio pulito preso nello scomparto della credenza, appoggio la ciotola sempre nello stesso posto e prometto di non guardare se succede, se lievita, prometto di aspettare perché siccome non so farlo devo promettere per riuscire a farlo. Ma non prego. Cucino come una liturgia, mi inchino davanti al forno, genuflessa, guardo, cresco con gli occhi, mi alzo, apro le mani, faccio cose buone che raramente vengono anche belle, Pepe la mia chierichetta laica, se dovessi avventurarmi in chissà quale avventura la vorrei al mio fianco, è già stato così. In cielo come in terra.

Giocano ancora insieme, in giardino, non ai giochi di quando erano piccole ma ancora si perdono insieme da qualche parte. Litigano anche allo stesso modo di quando erano piccole, si fanno i dispetti, si provocano a vicenda ma non mi chiamano più per risolvere, per avere ragione. Le sento parlare: Pepe insegna a sua sorella a tenere una racchetta in mano, Cri insegna a sua sorella ad avere pazienza, Pepe non ci riesce, Cri impara subito il rovescio, Pepe si incazza, Cri ha un talento per ogni sport, inutile discutere. Discutono. Ogni tanto ci provo a chiedere silenzio, per favore, fate piano vorrei dire ma non esce niente, in queste settimane arrivo solo a un verso come un rutto dopo l’acqua frizzante, allora sto zitta, sento le bollicine nel naso e sul palato, parlo che nessuno mi senta così non devo spiegazioni, parlo al Lupo dietro lo sterno, sei sempre lì gli dico, dove vuoi che vada mi risponde. Lasciami stare male, allora, per favore. Lasciami il male da sbocconcellare, da succhiare, da ruminare, chè non posso mandarlo giù con un bicchiere d’acqua, nemmeno frizzante e per favore non mi guardare, non mi consolare, non mi dire che sono la più bella che non lo sono più da un pezzo e forse lo sono stata ma solo una volta e comunque non oggi. Quando rientrano dal giardino mi chiedono tutto bene mamma, tutto bene amore rispondo. La pace sia con te. E con il tuo spirito.

Sai cosa faccio, a volte, quando ho pensieri che mi intristiscono, mamma? No, amore, cosa fai? Ci gioco al gioco delle foche, te lo ricordi? No. Quello delle foche che spuntano fuori con il muso e tu le devi schiacciare. Povere foche. Parlavamo dei pensieri che intristiscono, però, mamma, non delle foche per davvero. Sì, è che io ho bisogno di andare fino in fondo anche alla tristezza, amore, ci vuole pazienza con me, so che non è il tuo forte perché non è nemmeno il mio, però ci vuole pazienza con me. Assaggio, mamma? Sì. È strepitoso. Amen.

Le ragazze vivono in un eterno presente, il futuro si spinge fino a lunedì o al massimo a maggio, io cerco qualcuno a cui appaltare il restauro dei ricordi e il futuro lo conto nelle ore di lievitazione, anche di quel tempo mi prendo il merito, come se le avessi messe di tasca mia, come se facessero parte della ricetta ecco, le metto una per una, le conto, le misuro, le verso, le aspetto, quelle ore sono mie al pari della farina, dell’acqua, dell’olio, del lievito, delle mani che impastano con decisione e con una forma nuova di gentilezza che solo io lo so quanto poco costa la farina, l’acqua e persino la gentilezza ma quanto pesa quando tutto pesa, anche il respiro.

Copritevi, fa freddo. No, mamma, non fa freddo, è aprile non fa più freddo, come fai a sentire freddo? Oh, ma il mio è un freddo lontano,  un freddo di tutte le volte che mi hanno detto di non camminare scalza, di portarmi dietro un golfino, di asciugare bene i capelli, bene la radice diceva mia madre, solo dietro la nuca e un po’ le punte capivo io, è quel freddo vecchio arrivato tutto insieme a farmi sfregare le mani, a farmi curvare le spalle, avete ragione, non fa freddo, ma per favore chiudete le finestre, lasciatemi un pezzo di coperta sul divano, ci mettiamo vicine, sì ma tu raccontaci qualcosa, mamma. Cosa? Qualcosa di te, per favore.

Sono le ragazze il mio lavoro. Me l’ha detto Lui una sera, forse era mattino. Avevo appena abortito l’idea di un progetto, io sono così, concepisco facilmente nuove idee ma sono un soggetto poliabortivo, dovrei essere seguita da un centro per i progetti a grande rischio, dove qualcuno di molto competente monitori i parametri e la crescita della mia idea, ma per come sono io potrebbe morire durante il parto. Con loro fai un ottimo lavoro, mi ha detto una donna gentile a cui la gentilezza costa poco ma pesa molto. Lo diremo alla fine, le ho risposto. Lo direte alla fine, bambine belle.  Quando sarà pronto, quando sarete pronte e scusate fin da ora per il giorno in cui piangerete l’una per l’altra, scusate se l’amore che provate l’una per l’altra vi arriverà addosso all’improvviso come un amore lontano, di tutte le volte che vi ho detto di tenervi per mano, un amore vecchio arrivato tutto insieme.

Mamma, ho trovato il modo di parlare con la me del futuro. E come fai? Con un sistema di lettere, scrivo alla me del futuro e nascondo le lettere, poi quando le trovo io sono già nel futuro, è come parlare con un’altra persona e così parlo con me stessa che poi, mamma, a volte è come parlare con lo sconosciuto numero uno. Io vorrei parlare con la me del passato. E perché, mamma, ci sei già stata con la te del passato. Per sperimentare la tenerezza, per accarezzarla un po’ di più, per non costringerla a stare dove non vuole, per dirle che alcune paure si sono rivelate insensate, come quella di venie colpita dal telefono della doccia con conseguente trauma cranico, chiusa a chiave in bagno, con l’acqua che continua a scorrere in una stanza d’hotel senza la possibilità di chiamare i soccorsi. Se la te del passato è arrivata nel futuro nonostante questa paura non hai più niente da dirle, mamma, che storia.

Siamo una società, mi ha detto Lui una notte che non dormivo, io e te siamo una società. Devo smaltire qualcosa di me, gli ho risposto io ma non è uscito niente, nemmeno un verso come un rutto dopo l’acqua frizzante, allora sono stata zitta, mi sono alzata, ho preso gli occhiali e un libro dal comodino, ho acceso la lampada vicino al camino, ho rubato la coperta al cane, ho letto perché quando leggo è come se pregassi, torna a letto mi ha suggerito il Lupo dietro lo sterno, stai troppo sveglio gli ho detto, lo so che ci sei, puoi appisolarti, mi accorgo di te anche se non sembra, sai, puoi agitarti anche meno. No, non posso. Allora stai qui, ti leggo questa storia, è scritta bene. Scrivine una tu, per favore. No, non ne ho più voglia. E di cosa hai voglia. Di niente.

Cucino come se bestemmiassi. Cerco lavorazioni veloci, apro il surgelatore, ravano negli scomparti, guardo le scadenze. Cerco ricette online, digito velocemente, accolgo i suggerimenti, mi mancano gli ingredienti, mi manca tutto. Maledico sapendo benissimo come si fa, maledico di cattiveria, di rancore, non me ne dispiaccio, non me ne pento. Accarezzo la carne che non mangio più da quasi dieci anni, la uccido due volte, con il sangue sulle dita segno l’uscio della porta, non è qui che devi venire, vai altrove, vai da chi so io a portare la sciagura, rosolo su tutti i lati, sfumo, chiudo con il coperchio, non ho mai creduto che il diavolo non fosse in grado di farli, abbasso la fiamma, osservo, resto in piedi ad aspettare che passi oltre, che arrivi il futuro e ci lasci incolumi. Ma non bestemmio. Cucino come un sabba, arrivo al limite del bruciare, dimentico, mi distraggo, recupero all’ultimo, non controllo, aggiungo senza misurare, apro buste e rovescio in pentole ancora fredde, faccio cose belle che non ho preparato io, io non sono qui, sono altrove con le dita sporche di sangue. Scrivo una lettera alla me del futuro, la consegno al Lupo che vive dietro il mio sterno, il mio futuro, oggi, arriva a lunedì, al massimo a maggio, è una lettera di scuse, una lettera di tenerezza, una richiesta di perdono. Tienila tu, per favore, dammela quando sarà pronto, quando sarò pronta, se dovessi perdermi all’Inferno sei il solo che può venire a prendermi, è già stato così.  

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