È un’estate senza tormentoni, questa, tutte le canzoni mi sembrano già ascoltate anche quelle che dovrebbero essere nuove  e tutte le parole mi sembrano già dette anche quelle che riporto sul quadernetto delle parole nuove. I tormenti, quelli sempre. Ma non sono nuovi neppure loro. Li metto e li tolgo dalla valigia, alcuni ben piegati tanto so che li userò di meno, altri appallottolati a riempire spazi che altrimenti resterebbero non solo vuoti ma sprecati. Li ho tirati fuori soprattutto al mare, è un’abitudine consolidata. Ho letto che esiste nel mezzo di non so quale oceano un’isola costituita interamente di plastica e ho pensato che potrebbe esisterne una simile ma nata dalla stratificazione dei tormenti che quelli come me negli anni hanno provato a gettare nel mare. Quelli come me.

Quelli come me il mare lo guardano, ci entrano fino alle spalle e poi basta. Non è paura semplicemente non possono più.  Quelli come me hanno le orecchie che non possono bagnarsi mai, pena dolori ingestibili. Quelli come me hanno acufeni che non sono sibili o fischi  ma sciacquoni del cesso che perdono incessantemente come sottofondo alle azioni quotidiane. Quelli come me lanciano i tormenti nel mare e lo sanno che non li disperderanno, il mare li restituirà un po’ levigati e potranno immaginare di maneggiare smeraldi e non cocci di vetro. Quelli come me non raccolgono conchiglie per sentirci il rumore del mare dentro perchè come dice  mia figlia, la piccola, siamo noi le conchiglie con le onde nelle orecchie. Quelli come me hanno figli poeti che trasformano acque di scarico in flutti.

Il solo tormentone che mi risuona è ancora e sempre “l’estate sta finendo, un anno se ne va, sto diventando grande lo sai che non mi va”, inizio a canticchiarla a luglio perché sono una che arriva sempre in anticipo. La fine dell’estate coincide con il mio compleanno, alla fine di ogni estate io divento davvero più grande e ormai mi va come non mi va,  non importa più. Quando ero piccola volevo diventare grande. C’era anche un film: un ragazzino desiderava diventare adulto e non ricordo come o perché ma una mattina si sveglia ed era grande, all’improvviso. Ecco, a me sarebbe piaciuto. Ero una bambina che non voleva essere bambina, volevo togliermi di dosso la subordinazione come facevo con il pigiama. Sono stata una bambina diligente, questo è quello che ricordo e questo è quello che riportano le fonti, anche quelle ufficiali, le vecchie pagelle, una bambina silenziosa che raggiunge tutti gli obiettivi prefissati da altri, una bambina che legge moltissimo non per piacere, quello è arrivato dopo come arriva il piacere nella vita, sempre dopo, ma per estraniarsi, per non esserci pur non potendo andare via. L’assalto alla diligenza c’è stato con l’adolescenza, ma quella roba degli obiettivi prefissati da altri galleggia ancora lì, è diventato uno schema, dice la Dottoressa Elle. Appena qualcuno mi indica un obiettivo  io non fisso il dito che indica, magari, no. Mi fiondo su quello che ci si aspetta che io riporti come un Retriever ben addestrato.  

A metà luglio è morto il nostro Pastore Tedesco. Kimb. Kimb aveva il nome prima di nascere, prima di sapere che avremmo avuto un Pastore Tedesco, prima delle mie figlie. Kimb era Kimb nella mia mente anni prima che andassi a prenderlo un giorno prima del compimento dei 60 giorni, un piccolo orsetto che dormiva sul divano, quando ancora lo chiamavano Rudolph, per l’amor del cielo! Era Kimb. Aveva un orecchio moscio che non si è mai tirato su ed era il solo della sua cucciolata a pelo lungo, diverso da tutti i suoi fratelli anche nella stazza, era grande, il più grande tra tutti. Era Kimb, la crasi tra i due soprannomi che usiamo per chiamarci io e Lui. Era Kimb, il cane più buono del mondo, quello che mio padre mi consigliò di dare via perché mordace lo stesso giorno in cui il veterinario mi fece i complimenti perché oltre ad essere bellissimo era straordinariamente bravo. “Ascolta tuo padre, farà male alle bambine” . Io le frasi che iniziano con ascolta non mi sforzo nemmeno di sentirle, ormai, mi sembrano preludio a quelle cantilene ecclesiastiche, le invocazioni guidate durante un’elegia funebre. Alle mie bambine il male è arrivato sempre e solo dalle persone, mai dagli animali e infatti quelle abbiamo dato via. Kimb è morto a dodici anni sei mesi e un giorno, alle 20 di un venerdì sera, mentre mangiavamo sushi a casa, sdraiato al suo posto tra la sedia di Pepe che è sempre stata il suo grande amore e quella di Lui che è sempre stato il suo riferimento. Ha lanciato un urlo, rovesciato gli occhi e perso un po’ di urina. Basta. Lui ha cercato di fare qualcosa ma non c’era niente da fare perché non è che la morte arriva e puoi fare qualcosa, la morte porta via e non puoi fare niente. “non c’è più” gli sussurravo mentre gli scuoteva il muso. Pepe ha detto “non è vero, Kimb ci sarà per sempre”. Lo abbiamo vegliato per circa un’ora in attesa che venissero a prenderlo, gli abbiamo chiuso gli occhi e composto la bocca, lo abbiamo ringraziato, gli ho chiesto di salutare i cani con cui avevo condiviso pezzi di vita prima di lui, gli ho detto che nessuno sarebbe mai stato come lui. Lo hanno portato via ed è come se ci avessero svaligiato casa. Ho capito perché si dice “lanciare un urlo”: perché qualcuno viene colpito e ferito.

Io e il cagnetto ci ammazziamo di passeggiate. Al mare abbiamo percorso chilometri pisciando ogni cespuglio e annusando quanti più culi sconosciuti possibili, lui. Io ho percorso gli stessi chilometri limitandomi a chiedere “è maschio?” . Mia figlia sostiene che quella sia la frase che il cagnetto mi sente pronunciare di più, dividiamo il mondo canino non tra buoni e cattivi ma tra maschi e femmine, con i maschi litighiamo e con le femmine soccombiamo. Io e il cagnetto parliamo al plurale. Quando non siamo in giro con valigie cariche di tormenti andiamo nel giardino vicino alla casa dove vivevano i miei nonni, pochi minuti da casa mia. Ci andavo quando ero bambina, con mia cugina più grande. Nonna si affacciava ogni tanto, quando si ricordava che eravamo lì, penso, più per farci vedere che ogni tanto avrebbe controllato che per controllarci davvero. Noi sapevamo che si sarebbe affacciata prima o poi, ce lo aspettavamo. Ogni tanto mi siedo su una panchina e fisso la finestra del loro salone o quella della camera da letto, ripercorro la casa, i velux della mansarda da questo lato sono quelli sopra il divano sul quale guardavamo la televisione noi nipoti, dall’altra parte, quella che da qui non si vede, la camera dei miei zii. Il cagnetto si muove quel tanto che il guinzaglio consente, ogni tanto mi guarda ma finché sono seduta con lo sguardo fisso sa che non faremo niente di particolare, sa che aspetteremo un po’ un segno che non arriverà, poi ci alzeremo e continueremo la passeggiata, schivando i maschi come si fa con certi pensieri.

Ho rivisto mio fratello e mio nipote dopo sette mesi, la maggior parte dei quali passata pensando che non so se li avrei rivisti. Mesi nei quali ho imparato a non giustificarmi per le emozioni che provavo, mesi nei quali mi sono chiusa a chiave in stanze inaccessibili e dalle quali adesso fatico a uscire. C’erano regali sul pavimento tutti da scartare, un tripudio di carta scricchiolante e plastica di imballaggi, libri e strumenti musicali, pongo, palle e mazze da golf, c’era la pasta verde e il piatto a capotavola, la pipì fatta in piedi nel water , zia vieni a vedere. C’era un libro sulla gioia e c’era un momento in cui siamo rimasti soli e allora abbiamo letto il libro sula gioia non per estraniarci me per essere lì insieme a leggere una storia in cui Topolino è felice quando vede i fiori e Minnie è felice quando vede la neve e Pluto è felice quando spunta l’arcobaleno e Paperina è felice quando sta con gli amici e allora anch’io ho detto che sono felice quando Geppetto è con zia e gli ho chiesto quando sei felice tu? E c’era Geppetto che ha risposto “io sono felice quando sono felice”. Perché la felicità è cannibale.

C’era una festa senza torta e senza striscioni, senza invitati, c’era una festa e ho aperto tutte le stanze perché prendessero aria e luce, c’era qualche goccia di pioggia che alla fine non so mai se son lacrime con questa cosa che faccio sempre di tirare su la faccia, verso il cielo, appena cambia il vento e proteggo le orecchie ma il viso mai, lascio che si bagni e si asciughi e si stropicci che un anno se ne va, c’era un segno che questa volta è arrivato e un tormento trasformato in smeraldo, questa volta per davvero.   

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...