Animali forastici e dove trovarli

Sono stanca, Lupo. Stanca, stanchissima. È stanca Mamma Orsa, vorrebbe andare in letargo. Ti ricordi quando le Cucciole Orse mi hanno ribattezzata così? Quanto tempo è passato? Quasi sei anni da quando la Cucciola grande è stata usata per colpire suo padre e me, mio dio. Mayday, mayday, Lupo. Sono stanca e so che lo sai, ti sento anche senza parole, ti sento soprattutto quando non si sentono le parole, so che lo sai, ti sento agitato dentro la mia cassa toracica, smuovi tutto, scavi e tiri fuori, stai di guardia  ai miei pensieri, osservi quelli che escono e aspetti quelli che entrano, hai il tuo carico di lavoro, lo sento.  È stanca Mamma Orsa di tutti gli impegni delle Cucciole Orse che le cascano sulle spalle e l’abbassano ogni giorno un po’, ecco perché le Cucciole sembrano ogni giorno più alte, mica lo saranno diventate per davvero, che dici? Soprattutto la Cucciola piccola, mica può essersi alzata di tutta una testa nello spazio di una stagione? Non è possibile, Lupo, è Mamma Orsa che si abbassa sotto il peso dei giorni, vero che è così? Ti sento, Lupo, ti sento anche senza parole, ti sento con il fiuto, soprattutto di notte quando sto di guardia  al giorno che finisce e aspetto  quello che inizia, che stanchezza, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.

Sono cresciute le Cucciole, sì, me l’hanno fatta così sotto gli occhi e oltre gli occhi, me l’hanno fatto in fretta, in quest’anno maledetto durante il quale ti ho fatto lavorare tanto, tantissimo, chissà se sei stanco anche tu, Lupo. Ti sento  affaticato, ti sento anche se non ti lamenti, ti sento senza le orecchie, lo sai che valgono poco ormai, è tutto un bruciare e prudere e scrosciare di acqua lì dentro le mie orecchie, non posso più farci affidamento, guardo le labbra delle persone mentre mi parlano e vivo nel mondo delle ipotesi, con te non ne ho bisogno, ti sento senza le orecchie. Mamma Orsa ti sente stanco, Lupo, e teme sia colpa sua. Mamma Orsa teme sempre che sia colpa sua anche quando non è detto che sia colpa sua, soprattutto quando è stanca, stanchissima, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.

Mamma Orsa e Cucciola grande sono state a Roma per due giorni, quarantotto ore filate via sotto una pioggia sconsiderata, in mezzo a lampi e tuoni scagliati da Giove pluvio in gran forma, quarantotto ore passate in fretta, fatte di amiche ritrovate per la Cucciola e di passeggiate mischiata tra le persone per Mamma Orsa, con il cappello a ripararla e una mappa spiegazzata in tasca, con tanti pensieri, tanti davvero, da rimettere in ordine, con qualche affanno dal quale separarsi per poco, solo quarantotto ore, ma vere, con un paio di desideri da gettare agli dei per il tramite di una monetina, Mamma Orsa e il Lupo dietro lo sterno, a passeggio sotto il diluvio come se non fosse vero.

Dopo aver lasciato Cucciola grande alla fermata della metro  Ottaviano con raccomandazioni infilate a caso nelle tasche come spicci lasciati all’ultimo momento sono tornata in San Pietro perché avevo cose serie da sbrigare: mi serviva Santa Lucia. Una medaglietta di Santa Lucia, di quelle che si tengono nel portafogli o in qualche tasca. Mia nonna aveva la medaglietta della Madonna di Loreto, a cui era devota, pinzata nella sottoveste, ogni tanto scostava l’abito o la camicia e me la mostrava baciandola. La Madonna di Loreto non ha le braccia quindi io l’ho sempre patita molto perché sulle menomazioni non vado forte, anche la devozione di mia nonna non me la sono mai spiegata fino in fondo, aveva una sua versione dell’agiografia, diciamo che tendeva alla semplificazione. “Nonna che cosa fa Santa Chiara” “eh, Santa Chiara è importante.” “perché? che ha fatto?” “eh, Santa Chiara se la faceva con San Francesco, per quello è importante”. Ah. “Nonna, ma Santa Sonia esiste?” “No, tu non la tieni la Santa.” “E perché non esiste?” “eh, perché non hai un nome cristiano?” “In che senso non è un nome cristiano, scusa, mi hanno pure battezzata?” “eh, vabbuò, ti hanno battezzata ma quello perché il prete era amico di papà tuo, tua mamma ti ha dato un nome senza Santa”. Questa  nonna era, va da sé, quella paterna.

Mi serviva Santa Lucia, una medaglietta di Santa Lucia made in China direttamente da San Pietro.  Ho iniziato a frugare tra le medagliette infilate in diverse scatoline dentro un negozio grande che prometteva il fatto suo sull’argomento. Niente. Mi sono arresa, dopo sei o sette sante mi sembravano tutte la Madonna con un altro nome scritto sotto, persino Papa Francesco mi sembrava la Madonna con un altro nome scritto sotto (Papa Ratzinger no, sembrava proprio lui)è quello che chiamo l’effetto Trip Advisor per cui al quarto ristorante di cui leggo le recensioni vado in confusione e mi sembrano tutti uguali. Allora ho chiesto aiuto alla commessa. Non ho posto una domanda difficile “buongiorno, mi scusi, vorrei una medaglietta di Santa Lucia, se possibile” “Santa Lucia?” chiede come colta alla sprovvista la giovane ragazza ad occhio mia coetanea. “Sì” annuisco, confermo, sorrido persino. “Forse è meglio che chieda alla mia collega, per questo.” Sono rimasta ferma al forse per un attimo, come quando sai di aver capito bene ma non ti torna nel senso della frase. Forse. Non era sicura nemmeno lei che la sua collega potesse aiutarmi, per questo. Per questo indica la difficoltà del quesito, la specificità della richiesta che necessita di un intervento specializzato. Forse. Mi sono rivolta alla collega, sempre con il sorriso, finto, sulle labbra. Ho riformulato la richiesta. La collega, e forse madre della giovane e inesperta venditrice data la vaga somiglianza che ho colto nel lampo di stupore intravisto nello sguardo altrimenti spento, ha ripetuto la mia richiesta a voce alta. Sì. Ho riconfermato. Santa Lucia. Sono sicura. “allora, qui se vuole c’è Santa Marta.” “No, grazie, non voglio Santa Marta, voglio Santa Lucia, non so nemmeno che fa Santa Marta.” “eh beh, pure Santa Marta fà, per fare, pure Santa Marta fà.” Ho avuto un attimo di esitazione, volevo chiederle se avesse parenti a Napoli, se qualcuno della sua famiglia per caso arrivava dalla zona di Piazza Carlo III, se di cognome faceva come mia nonna. Mi sono trattenuta e ho continuato a sorridere. Per finta. “Allora qui, se vuole c’è San Francesco” “No, grazie, sto cercando Santa Lucia. Mi serve proprio lei” “ah, è per gli occhi, allora? Vuole proprio apposta per gli occhi? “Sì.” “è per lei?”. Ma che te ne fotte a te?! “No, devo regalarla” “ah, ho capito, allora San Francesco lo mettiamo via, pure San Giuseppe lo mettiamo via?” “sì, lo metta via, grazie.” “eccola qui, lo sapevo, visto? Ecco Santa Lucia, guardi un po’, ce ne sono due addirittura” “oh, grazie! Che differenza c’è tra le due?” “nessuna, la Santa è quella” “Sì, però in questa c’è scritto Santa Lucia ovunque proteggimi e in questa Santa Lucia prega per me, quindi la differenza c’è.” “e qual è?” “eh, mica e lo stesso pregare e proteggere, prendo questa che protegge, grazie.” “sì, ma anche la preghiera fà, per fare, pure la preghiera fà”. “Sì, per carità. Ma la preghiera è più in difesa capito, è più come dire difendimi se mi attaccano, io qui voglio la protezione anche se non mi attaccano, come con i figli, no? un conto è difenderli e un conto è proteggerli” “come dice lei, signora, la Madonna che scioglie i nodi la metto via o la prende?” “La prendo, che pure sciogliere i nodi non è da tutti.” Che fatica, Lupo, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.

C’era una zia di mia madre, anzi la zia di mia madre perché gli altri erano tutti zii, che iniziava ogni discorso in due modi: “se fossi Dio” oppure “se fossi al governo”, a seconda che la vicenda da gestire riguardasse il potere spirituale o quello temporale. Aveva una soluzione morale e politica a tutto, pur essendo dichiaratamente atea e monarchica nonostante il crocefisso inamovibile in casa e la visione femminista e progressista di se stessa. A volte mi chiedo come si possa arrivare da posizioni così lontane tra di loro, come si possa avere all’interno del proprio DNA le stesse percentuali di una famiglia e dell’altra, mi sembra folle essere il prodotto di istanze così lontane e inconciliabili eppure lo sono e forse sono così per questo, a volte guardo le Cucciole Orse e mi sembra impensabile che abbiano questi universi dentro le loro cellule, eppure li hanno e sono il miglior prodotto che potesse venire fuori o comunque confido molto nella selezione della natura  e nel salto generazionale e così spero che alcune idiozie non le riguardino o che comunque siano capitate ad altri, va da sé, non della parte materna. Che stanchezza, Lupo. Ho tanto desiderato essere Dio, quest’anno. Anche solo dio, un dio qualsiasi. Comunque un dio con determinate caratteristiche. Un dio abbastanza incazzoso e vendicativo, uno che non te le manda tanto a dire, uno con cui non ragioni molto e che promette poco, anzi, un dio che non ti dà garanzia alcuna sul dopo, nessuna teoria escatologica ma solo prospettive scatologiche. Un dio facilmente bestemmiabile, senza timore di essere punito perché imprecherei più forte e fulmienrei a caso e fanculo pure il libero arbitrio, via, tolto, ve lo buco ‘sto cazzo di libero arbitrio. Quest’anno ho trascorso molto tempo seduta sullo sgabellino della lavanderia a guisa di scranno in una cattedrale, che fortuna avere un posto dedicato per stendere dice la mia amica Gabri che sposta gli stendini in ogni stanza della casa a seconda del fabbisongo, io invece ho spostato pezzi di casa in lavanderia e seduta sullo sgabellino quest’anno ho pianto per ore, singhiozzando forte coperta dal rumore dell’asciugatrice e della lavatrice, insonorizzata, protetta e difesa allo stesso tempo, incapace di pregare, con una sola richiesta a riempire le labbra, chiedendo all’Universo di prendermi i pezzi che non mi servono chiedendo di rivolgere altrove tutto questo dolore. Sì. Così. Se fossi stata dio, un dio qualsiasi, anche un ciarlatano, un dio sedicente tale, un dio da poco, se fossi stata un dio minore avrei saputo a chi indirizzare il male che mi stava torturando, lo avrei spostato con un soffio. Sì. L’ho pensato. Ne vado fiera? No. Lo riafarei? Sì. Perché io sono così, ho ben chiara quella parte di me, cattiva, torbida, spietata e non è un difetto, magari fosse un difetto, sarebbe qualcosa che manca, qui invece c’è  e non posso toglierla. Posso farci dei compromessi. Posso metterla a a tacere, posso educarla. Posso evitare che sbraiti. Ma che stancezza, quanta stanchezza, Lupo, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.

Ho finto di non conoscerla, speravo facesse altrettanto non per lei ma per me, per il Lupo, per Cucciola Orsa. Invece no, nemmeno il tempo di prendere posto sul treno del ritorno, con le giacche piene di acqua e il trolley da sollevare mi guarda e si aspetta che la identifichi. Il mio sguardo diventa di pietra. Il mio istinto di conservazione è più forte del suo istinto di conversazione e infatti lei cede. Allora pronuncia il mio nome  “Sonia” ma lo fa come se fosse una domanda. “Si” e lo dico come se fosse una sentenza di condanna. Fingo ancora di non sapere di chi si tratti. E poi mi dice “sono la moglie dell’Orrendo Butterato”.  Mi viene in mente una frase scritta a matita sul libro di letteratura l’anno della maturità , il commento a un qualche brano non so quale, vedo la mia grafia sul libro, nello spazio tra due paragrafi, la memoria visiva è uno dei miei cavalli di battaglia, la memoria in generale è una delle condanne che mi sconto in vita: elì, elì, lama sabacthani, lo sconforto supremo, il dubbio nella sua espressione più crudele, fingo ancora, faccio come mia nonna materna quando non mi ha riconosciuta per la prima volta di tutte le volte successive, quando mi ha fregata così, faccio come mia nonna che il giorno prima sapeva chi ero e il giorno dopo mi ha detto “buongiorno Signora” con un distacco gelido che mi si è attaccato dentro,vicino al cuore e il Lupo ci si rifà i denti  quando è nervoso. Immagino di aver sentito male, ho le orecchie a puttane, Raperonzolo dal flaccido doppio mento qui davanti a me non ha detto così, ha detto “ci sono foglie proprio qui sul selciato” oppure ha detto” ho voglie che ho colmato con un gran gelato”, può anche aver confessato “sono doglie anzi no, guarda, ho solo defecato”.  Con lo sguardo disgustato le ho rivolto un olofrastico “eh”. Basta.  Ho preso il Lupo e Mamma Orsa, li ho fatti sedere davanti a Cucciola grande, che nessuno si avvicinasse. Basta. Nessun profluvio di contumelie, tutte rimaste a livello di pensiero. Basta. Ho promesso, seduta sul mio sgabello, che non avrei alimentato la rabbia, in cambio ho chiesto di riavere indietro mio fratello e suo figlio, nulla posso fare per il rancore, quello è e quello rimane. Nulla posso fare per il desiderio di vendetta, quello è e quello rimane, posso solo tacerli, lasciarli sbocconcellare al Lupo, lasciarglieli triturare e poi scusarmi con lui che alla fine mi difende mentre io proteggo la Cucciola, indifferente a tutto questo, lei con lo sguardo rivolto fuori dal finestrino, il sorriso di chi ha capito, di chi ha sentito ogni sforzo e ogni pianto, non con le orecchie e senza le parole. Lascio Raperonzolo alle sue telefonate, devono averle detto di non avvicinarsi ulteriormente altrimenti potrei uccidere. Sì. Posso. Guardo fuori dal finestrino e poi davanti a me, lei, Cucciola grande con gli occhi di suo padre e il mio modo di guardare: come si fa ad arrivare da entrambi questi posti contemporaneamente, nello stesso modo, nella stessa percentuale? È impossibile. È un miracolo. L’ho fatto io. Come se fossi dio. Ma che stanchezza, Lupo, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.