L’adolescenza è un bel posto ma non ci vivrei

No, non è vero. L’adolescenza è un posto terribile. Inospitale. Un posto di merda, in estrema sintesi. Lo dico qui, tanto qui le mie ragazze non ci vengono e se anche venissero leggerebbero quello che già sanno perché lo sentono dalla mia viva voce. Io non è che so, davvero, chi viene qui, a parte qualcuno, ogni tanto becco una mia frase su qualche social che gira, qualche storia di WhatsApp o di Instagram con mie parole accompagnate da hashtag come #riflessionigentoriali ma senza la citazione dell’autore di quella riflessione genitoriale. Vabbè. Comunque, preferisco non sapere chi viene qui. Anche perché chi mi conosce di persona non ha motivo di passare a leggere, basta che mi telefoni.

Allora, l’adolescenza è un posto terribile, confermo. Lo dico soprattutto a voi, avvocate di quello studio di Corso Vittorio che anche se non vi conosco so che venite qui, lo dico soprattutto a voi perché so che avete una manciata di anni in meno di me e qualche figlio piccolo sparso in varie sezioni colorate della scuola materna (Scuola dell’Infanzia, lo so) o delle prime classi delle elementari (Primaria di primo grado, lo so) alle prese con recite e concerti scolastici ai quali applaudire e lavoretti di merda da elogiare ed esporre su mensole bene a vista ad altezza pargolo. Nessuno spoiler, siamo stati tutti adolescenti, no? Ecco, allora pensate a voi, pensatevi indietro e non solo avanti, ricordatevi senza imbrogliare che tanto non si vince niente e senza argomentare, tanto non c’è un giudice che dà ragione a controparte.

Ne parlavo con Andrea, il mio amico storico dal ginnasio all’Università, di come succede che una volta genitori ci si dimentichi di essere stati bambini prima e adolescenti dopo. C’è un istituto scolastico a Torino, quelli come me e Andrea che hanno frequentato il liceo negli anni Novanta sanno benissimo che si tratta del peggior diplomificio della città, sanno benissimo che si tratta(va) dell’ultima spiaggia prima che i genitori cedessero alla presa di consapevolezza di avere un figlio scemo, era il diploma a tutti i costi, era il miraggio che avendo perso un anno fosse possibile recuperarlo facendone due in uno. Non avevi raggiunto le competenze richieste per superare un anno per mille mila motivi? Nessun problema, andavi lì e potevi recuperare non solo l’anno perso ma anche quello successivo. Geniale. Ecco, Andrea mi diceva che ha sentito diversi genitori raccontare di aver iscritto in quell’istituto i propri figli vantandosi, come se non sapessero di cosa si tratta o come se avessero dimenticato.

Si dimentica, è la via più facile. A me le cose facili non sono mai piaciute.

Dunque, l’adolescenza, vi assicuro, è un posto tremendo. Fa sempre troppo caldo o troppo freddo, il tempo è bello, sereno, certe giornate di sole che non si descrivono e in un attimo la tempesta come in montagna, cambi improvvisi e inaspettati del meteo che tu dici ma è possibile con tutti gli strumenti che ci sono adesso non prevedere? Sì, è possibile. Si mangia poco o troppo, si ha fame in momenti inopportuni e lo stomaco si chiude agli orari convenuti per i pasti per poi spalancarsi alla qualunque non appena parte l’avvio della lavastoviglie e l’ultimo alone dello sgrassatore è stato rimosso dal piano cottura in acciaio. Ci si veste in modo curato o come senzatetto senza considerare il contesto. Si mischiano gli stili e i tessuti, un pezzo della mamma ma che non sia da vecchia, uno di un’altra stagione, un pezzo della sorella chiesto, supplicato in prestito, un pezzo bucato, rotto o comunque  almeno un po’lacero, come fanno alcune spose che devono indossare qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di prestato e qualcosa di blu.  Ci si lava moltissimo i capelli. Anzi, direi che il livello di sanificazione dei capelli è direttamente proporzionale all’entusiasmo profuso in una qualsivoglia attività. Non posso, ho i capelli sporchi (io non andavo nemmeno a buttare la spazzatura, mio padre si incazzava perché proprio non capiva, aveva un cortocircuito cognitivo per questa mia risposta), mia figlia arriva al parossismo: sento che mi stanno per sporcare i capelli. Dal momento in cui pronuncia questa frase so che i suoi impegni scemeranno inesorabilmente fino al momento della doccia.

In doccia si ascolta musica, loro portano Alexa e l’attaccano in bagno, io portavo il mangiacassette e lasciavo andare il nastro, loro danno ordini con tono imperioso, io da fuori che mi dispiaccio per Alexa trattata in quel modo. In doccia si canta e questo è universale e transgenerazionale. Le mie ragazze cantano le stesse canzoni che cantavo anch’io. A volte. Non l’ho capito subito, ma è come se ci fosse un tipo di sofferenza (base emotiva per le canzoni che ascoltavo anch’io) generale, uguale per tutti. Avevi quindici anni trent’anni fa? Hai quindici anni oggi? Fa lo stesso. È la sofferenza generale, come la formazione generale obbligatoria per i lavoratori, non importa il settore merceologico, non ti si chiede il codice ateco, beccati questi contenuti generali che rappresentano credito formativo permanente, beccati il cantautorato che ci è arrivato prima di te e solo per te a dire quanto male fa.  Anche dopo trent’anni.

In auto la musica la decidono loro secondo lo schema consolidato sin da quando erano piccolissime: una canzone a testa. Le canzoni che ascoltano in auto io non le ascolterei nemmeno dietro pagamento altro che l’abbonamento a Spotify. Soprattutto alle 7.15 del mattino in tangenziale con tutti che entrano a Pianezza-Collegno e  nessuno che esce a Savonera. Questa mattina Cri ha scelto: Paranoia Mia di non  so chi e Vita Paranoia di non so chi. Il trend era comunque chiarissimo. E questa è la sofferenza solo sua, della sua generazione, di doppie spunte blu ignorate e storie social a cui non vengono messi cuoricini, è la sofferenza specifica come la formazione specifica dei lavoratori, quella che ti prepara ai rischi propri del tuo settore. Io ne resto fuori, ascolto senza commentare (troppo), senza capire (tutto), metto la freccia per sorpassare e la rimetto per rientrare nella corsia, temo che non siano felici perché io sono ossessionata dalla loro felicità, dal saperle felici, felici e basta non per forza felici di me, se sono felici di tutto in quel tutto ci sono anch’io allora, nell’universale c’è il particolare, rispetto il limite dei 70, mi comporto secondo le regole, accosto, aspetto che scendano e riparto senza di loro che vanno. Senza di me.

È così, l’adolescenza è un posto ostile. I confini mobili portano a discussioni, care avvocate dello studio di Corso Vittorio, segnate che questa è materia vostra e sul codice non lo trovate. L’adolescenza è tutta una questione di confini: loro vogliono pezzi del tuo fondo, tu rispondi con il cazzo che ti do più di quello che hai che è moltissimo e anzi tieni pulito il confine e rispetta le distanze, allora loro ti accusano di fare troppa ombra e ti intimano di abbassare gli alberi e tu vorresti prendere il fucile e regolarla nel modo più veloce. Più o meno. Le mie ragazze non esagerano, io ero molto peggio ma i miei genitori non erano me e Lui, va detto. Come va detto che, di tanto in tanto, mi sembrano in difficoltà rispetto ad alcuni amici che hanno genitori che sono spariti, fratellastri che compaiono, disagi sparsi tra i diversi domicili, madri ossessionate dalla verginità e dal controllo del telefono (Dio grazie che non siete paranoici come la mamma di Carla, le ha dovuto mandare una nostra foto insieme per dimostrarle che era davvero uscita con me mi ha raccontato al rientro da un pomeriggio in centro, la madre di Carla avrà i suoi motivi per non fidarsi ho suggerito, no, no, è solo pazza)  noi siamo così poco avvincenti e tormentati da risultare impresentabili. Per il resto, la vicenda somiglia molto a una trattativa sindacale, se qualcuna di voi fa diritto del lavoro sarà avvantaggiata. Se c’è anche una penalista tanto meglio perché vi imbatterete in situazioni odiose come omicidio e cannibalismo: il vostro bambino con le mani sporche di tempera per decorare il lavoretto di merda non esiste più, è stato ucciso e/o mangiato da questo nuovo soggetto che abita a casa vostra, a volte come ai domiciliari, a volte come in un ostello. Ogni tanto vi sembrerà di scorgere dei pezzi di quel bambino, un movimento delle dita non più cicciotte e sudaticce tra i capelli, persino una risata di pancia, penserete che sia tornato che non è mai andato via e invece sono solo rigurgiti. L’adolescente ogni tanto vomita brandelli del bambino che era. Imparerete ad appezzarlo. Come il ruttino dopo la poppata.

Le parole sono poche o troppe contemporaneamente, bisogna imparare a tacere. Ti viene da impazzire, ma come, hai passato mesi e mesi per insegnargli a parlare scandendo bene le sillabe, leggendo e rileggendo adattamenti di fiabe da libri di cartoncino rosicchiati sui bordi e adesso tu devi tacere. Sì. Bisogna tendere alla regola del 7 su 10, almeno. Cioè, parli 3 volte ogni 10. Per il resto su YouTube ci sono molti mantra che tornano utili. A me salva aver amato sconsideratamente degli improbabili oggetti d’amore durante l’adolescenza, la mia. Quando mi dicevano che l’amore salva sempre intendevano forse questo? Ricorrere all’esperienza passata per sopravvivere nel presente? Ciascuno si salva con quel che ha e, alla fine, io ho questo: aver amato sempre e sempre aver desiderato di essere amata soprattutto da chi trovava questa attività troppo faticosa e impegnativa (un minuto di silenzio per tutte le volte che così mi hanno definita).

Questo è l’adolescenza, una relazione sbilanciata nella quale tu ami e non sei mai certo di essere ricambiato, certi giorni giureresti di no, in altri hai una flebile speranza, ogni tanto suonano le campane a festa perché sì, è evidente, che nonostante i toni sei amato anche tu e allora ti azzardi a fare progetti per il fine settimana o per le vacanze e vieni inesorabilmente disilluso. Non importa. Questo è. Pensare a qualcuno che non sai se ti pensa, che molto probabilmente non lo fa. Fare il simpatico per strappare una risata a qualcuno che si imbarazza per te, sentirlo ridere per qualcosa che non sai e che gli è apparso sul display, nei giorni migliori ti senti chiamare e ti viene mostrato quel che fa tanto ridere solo che a te non fa ridere ma ridi lo stesso, per finta e non importa se invece di mamma o ma’ ti ha appena chiamata Amo. Meglio di quando ti chiama Alexa, con lo stesso tono che usa per Alexa. Sono passata sopra a Voga che una volta mi aveva chiamata Patty. Avevo 17 anni. Sono passata sopra nel senso fisico dell’espressione, penso di averlo travolto con tutto il mio disgusto e la mia indignazione, come si permetteva di rivolgersi a me usando il nome della sua ex, quella cessa, cessa anche nel nome, cessa anche nel diminutivo, che aprisse bene gli occhi per vedermi, vedere me, amare me. Voga è il motivo per cui oggi so cosa succede. È il motivo per cui so che non è facile stare con me ma lasciarmi è ancora più difficile.  È il motivo per cui non lascio più.

Avevo capito che mi avrebbe tradita da come stava parlando con lei quando l’abbiamo incontrata, per caso. Si sono aperte le porte dell’ascensore, noi uscivamo e lei aspettava di entrare, si sono guardati e riconosciuti,  ma dai, non ci credo cosa ci fai qui, ci vivo, al quinto piano e tu?  ma dai, mio fratello e mia cognata vivono qui da un paio di settimane, inaugura la casa stasera, ma dai, è quello del trasloco di 15 giorni fa, sì è lui, ma dai, ma dai, ci vediamo, sì, sì, ci vediamo. Non me l’ha presentata, ero lì accanto a lui come il carrellino della spesa, avevo un gonnellone ampio, era di mia madre, a lui piaceva moltissimo come indossavo i gonnelloni, mi diceva che ero bellissima con i gonnelloni solo che non ne avevo ma per fortuna mia madre era entrata negli anni Novanta roteando gipsy nei suoi gonnelloni e per fortuna avevamo la stessa taglia, lui non sapeva che non erano miei e mia madre non sapeva che mi servivano solo per farmi dire che ero bellissima, che non avevo nessun altro motivo per indossarli o per toglierli. La Signorina Ma Dai alla fine gliel’ha data, anzi prima della fine. Quando gli ho detto che lo sapevo mi ha chiesto come fosse possibile. L’ho sentito, gli ho detto. Da chi, mi ha chiesto. A quel punto ero già in frantumi, penso che un pezzo di me abbia sorriso e che lui lo abbia scambiato per un ghigno. Non da chi, da cosa. E l’ho lasciato, perché lui non era capace di farlo, di farmi così male mi ha detto mentre io ero capacissima.

L’adolescenza è un posto in cui si fa ciò di cui si è capaci pensando che basti sempre e che sia sufficiente a definirti, è una palestra in cui si suda e si fa fatica senza sapere perché. È il posto in cui nascono le ossessioni che ci seguono come ombre per la vita, ciascuno ha le proprie, non fate finta di averle dimenticate che non ci crede nessuno, non dovete necessariamente dirle io lo faccio solo perché ho imparato che per me è meglio così, è meglio dire molto (quasi tutto) così chi resta, chi vuole restare, è informato e chi non vuole ha motivi validi per andarsene. Io non lascio più. Ciascuno si salva con quello che sa e io questo so, che non lascio più. E lo sanno le mie ragazze, che non vado via, resto, magari mi sposto di lato, vicino all’uscita di emergenza, dove non mi si vede ma ci sono ad aspettare la loro felicità, ad amarle, amarle, amarle sempre senza che loro lo debbano mai desiderare.

L’adolescenza è un posto difficile ma a me le cose facili non sono mai piaciute.  

Esemplare di adolescente del 1993. Casa di Giorgia, foto scattata da Monica. Calze nere concesse da madre ossessionata dalla volgarità, come strappo alla regola.

Avvisi e divieti (2023)

Alle 4.40 del 4 gennaio mi è stato chiaro che non mi sarei riaddormentata, forse mai più, e pertanto potevo arrendermi, smettere di lottare con il piumone, i cuscini, le lenzuola e persino con i pensieri, lasciando che mi prendessero in ostaggio, alzarmi in segno di resa come quando ti colpiscono a palla prigioniera, e che la tristezza delle 4.40 suona in modo dolce, soprattutto se è il 4, tutta un’altra tristezza da quella che coglie alle 3.30, per dire, più aguzza, più appuntita.

Quando si è molto tristi, dice Merlino a Semola in una scena de La Spada nella Roccia, non c’è che una cosa da fare: imparare qualcosa. Nei primi tre giorni dell’anno ho chiesto informazioni per cinque corsi e due master, con il Lupo che mi vive dietro lo sterno in stato di allerta, preoccupato del mio restare in pigiama ma ancora di più dell’interessamento tutto nuovo per un corso di Ikebana, mi ha ricordato che con i fiori e con le piante vivi forse è meglio che io eviti un contatto diretto e che, in fondo, con il pigiama sono carina. Quando ho proposto il corso di Kintsugi mi ha detto che funziona solo con il ciotolame e che, in fondo, anche con tutte le mie ferite aperte sono carina.

Ha lavorato moltissimo in questi primi giorni,il Lupo, esattamente come nell’anno appena trascorso durante il quale ho letto 60 libri, ho portato a termine 120 allenamenti e ho tenuto in servizio il Lupo dietro lo sterno pe circa 360 giorni.  Lupus sanus in corpore sano.  Che poi, a dover dire il perché mica lo so. Della tristezza, intendo. Mi è presa così, come certe ubriacature quando ti prendono male e diventi molesta e lagnosa, do la colpa all’anno che è terminato, uno dei più faticosi e brutti da quando ho memoria e quindi da molto tempo. Ma non faccio bilanci, per quello c’è la commercialista. E non faccio pronostici, per quello c’è l’astrologo. Sui propositi ho già detto come la penso, mi annoia anche solo la parola. Rimugino nella mia tristezza, la esploro fino in fondo e lascio che faccia un po’ come le pare.

Quando sono molto triste la sola cosa che mi riesce di fare è camminare. Non con il pigiama. Il cane è il mio salvavita, mi costringe a uscire. Nel nostro percorso quotidiano c’è la tappa ai giardini, quelli della mia infanzia, sotto casa dei nonni, lì ci sono due rocce tra le panchine. Non ne ho mai capito il significato, in realtà non me lo sono chiesto fino a quando non ci sono tornata da adulta, con il cane. Ho una foto tra quelle due rocce, scattata da un mio zio, una delle poche cose carine che gli riconosco nei miei confronti, la foto è venuta bene per essere una foto della prima metà degli anni Ottanta. Quella foto è nel mio salotto e non so perché, ce l’ho messa io ma non so perché. Le foto di quando sono bambina non mi piacciono mai. Mi vedo e non mi riconosco nell’intero, solo nei dettagli, nei pezzi: la frangetta, i capelli così biondi da dover essere giustificati in famiglia, il sorriso forzato di chi vorrebbe essere altrove ma non può, l’occhio strabico che disorienta. Mi facevano togliere gli occhiali per essere fotografata, non so se per evitare un effetto del flash oppure se perché c’era lo stigma dell’occhiale e così sono rarissime le mie foto nelle quali mi riconosco davvero, perché io mi vedevo solo con gli occhiali, se li toglievo non vedevo e quindi non mi vedevo. Alle mie figlie non verrebbe mai in mente di togliere gli occhiali per farsi fotografare e io penso che, forse, loro sapranno sempre riconoscersi senza bisogno di andarsi a recuperare componendo pezzi e pezzetti. Il cane non fa mai la pipì contro quelle due rocce, non mi va.

L’idea di ricominciare con i ritmi pieni dalla prossima settimana, mi sono detta. Sicuramente quello concorre a determinare la mia tristezza che è sempre un po’ un misto di stanchezza e insoddisfazione, un vapore acquoso e grigiastro che non è pioggia e non è  nebbia, che sai cosa non è e non sai cos’è, di certo c’è solo che è grigio e che è giusto così, mica può essere tutto bianco o nero, sono nell’età del grigio. Grigi i capelli che crescono, grigio il Lupo dietro lo sterno, grigio il cappotto sotto il quale lo nascondo. “La vedo grigia” è un’espressione abbastanza usuale di mia madre. È tutto grigio. L’idea che tutto mi costa di più, dopo lo scorso anno, anche solo stare in piedi e fornire indicazioni minime: dov’è il tubetto di dentifricio nuovo, la maglia termica è stesa, a pranzo la pasta al pomodoro che non si sbaglia mai. Sono aumentati i pedaggi per entrare nei miei pensieri, per percorrerli e ci sono cantieri, lavori a non finire, restringimenti di carreggiata soprattutto di notte, sono stati abbassati i limiti di velocità perché si creavano troppi incidenti e no, non erano dovuti alla distrazione e  l’ aumento del carburante, quelli che vanno avanti a rabbia ne sanno qualcosa. L’idea di perdere la barra di comando se cambio un solo elemento e di non essere in grado di riprenderla e di non sapere più fare tutto quello che c’è da fare o , peggio, di non aver più voglia di fare tutto quello che c’è da fare ma c’è una rotta da seguire anche se mi sento come Ifigenia quando le hanno detto che, alla fine, suo padre ci andava a combattere a Troia, stava solo cercando un modo per propiziarsi mare e vento.

Alle 4.40 del 4 gennaio mi è stato chiaro che avrei dovuto segnalare nuovi divieti e  nuove avvertenze. A cominciare dal sottofondo quando sono sola in casa, niente più telegiornale di Sky tg24 ma maratona di Harry Potter e basta perché non sono in grado di ascoltare i nomi dell’attuale governo in continuazione, molto più credibile il Ministero della Magia. Poi, interdire l’accesso alla lavanderia ai non addetti perché quella è la stanza del mio piagnisteo, che ciascuno si trovi il proprio luogo deputato. Intendo vietare anche l’uso della locuzione “è un periodo” riferito a qualsivoglia avvenimento, lo sostituiremo con un più onesto “è la vita”, perché è esattamente quello che è tutto questo cadere, rialzarsi, venire colpito, colpire, schivare, abbassarsi, adottare la strategia dell’opossum, ripetere da principio come un circuito di allenamento, due giri di ripetizioni e il terzo giro a tempo cercando di infilare quante più ripetizioni in quel tempo e portate il battito al massimo e lasciarlo abbassare, bere un goccio d’acqua per togliere il sapore ferroso dalla bocca e poi da capo, per lo stretching ci sarà tempo alla fine.  È la vita, dico al Lupo e così si acquieta.

Quando sono molto triste e cammino a lungo succede sempre che mi ricordo qualcosa che poi mi fa sorridere o piangere o tutte e due le cose insieme e non che mi faccia passare la tristezza ma è come se mi ci facesse camminare sopra senza la paura di farmi male, come quando ero bambina e papà, d’estate,  portava me e mio fratello ai tappeti elastici e potevamo saltare e cadere senza pericolo, lui entrava insieme a noi a volte ed era capace di fare un balzo altissimo e tornare giù dritto perfetto , mamma no, aspettava fuori e controllava i sandali, che nessuno li confondesse con i propri e ci sorrideva da dietro la rete, con la sigaretta tra le mani e le gambe abbronzate. Ieri, durante la passeggiata con il cane,  sono arrivata alle rocce e diversamente dal solito mi sono seduta sulla panchina più vicina e ci ho appoggiato i piedi sopra.

Tutte le donne del ramo materno, mi sono detta. È sempre lì che affondo la mia tristezza da quando ero una morula aggrappata alla cavità uterina di mia madre, quarantacinque anni in questi giorni ed è sempre lì che cerco il suo rimedio, in quelle frasi che metto insieme come tanti pezzetti, per vedermi, per riconoscermi, per darmi le indicazioni di cui ho bisogno mai come adesso. Mia madre dice sempre “parente di mio parente a me non viene niente” che è il discrimine per interessarsi o meno alle vicende di famiglia, dai battesimi ai funerali passando per i matrimoni, mio padre torna a casa con la notizia dell’invito da qualche parte e lei applica questa semplice regola logica per decidere se è tenuta o meno ad accettare. La mia bisnonna diceva “se non è netto è freschetto” che significa pace, anche se non è pulito come vorresti almeno è rinfrescato, fatti bastare quello che puoi fare, va bene. Mia nonna diceva “il monaco buono non esce dal convento”, che significa stai attenta a quello che sembra un affare, perché se davvero lo fosse resterebbe dov’è, se il monaco valesse davvero quel che dicono resterebbe in convento a fare il suo, non lo troveresti in giro in cerca di collocazione. Mia zia adotta il parametro delle dimensioni del culo. Il culone è pericoloso, bisogna stare lontano dai culoni perché non si rendono conto dei danni che sono in grado di provocare. Quando mio nonno era ricoverato in terapia intensiva, prossimo alla morte, hanno fatto entrare a turno ciascuno di noi nipoti per un ultimo saluto. Lui non era cosciente ma noi sì e quindi tutti in coda come per le centomila a Natale siamo entrati a turno. Mia zia in qualità di primogenita e camerlengo coordinava ingressi e uscite, faceva entrare il nipote, due parole, usciva lei e poi rientrava per fare cenno che toccava a chi c’era dopo. Quando è toccato a me sono entrata e quasi non l’ho riconosciuto quel piccolo uomo in quel letto attaccato con tubi e tubicini a dei macchinari, ho dovuto osservarlo nei dettagli, nei pezzi del viso, il naso grande, le sopracciglia, il mento e ricomporre l’immagine intera per decidere che sì, si trattava di lui. Mia zia gli accarezzava la mano piena di ecchimosi ricoperta da cerotti e aghi e piangeva, quanto piangeva mentre sussurrava hai visto che bello il nonno, sai che sta morendo il nonno, non ce la fa il mio papà, non ce la fa questa volta, hai visto che bello e io annuivo e poi scuotevo la testa e poi annuivo e piangevo anche io ma senza fare altro, senza parlare. In quel momento si è avvicinata un’infermiera per ricordarci che è ammesso un solo parente alla volta e allora mia zia, in lacrime, fa cenno di aver capito e poi la guarda mentre questa si gira di scatto e si allontana dal monitor dove delle linee verdi segnano che è ancora vivo e strabuzzando gli occhi zia diventa serissima e mi chiede “ma è legale fare lavorare in questo reparto una con un culone tanto grosso?”, io impiego qualche secondo a capire la domanda e a capire che si aspetta davvero una risposta da me. Confermo, è legale. “non dovrebbe esserlo, perché questa con un colpo di culone stacca qualche filo, qualche cavo e i cristiani muoiono per colpa del suo culone”, poi ancora scandalizzata è uscita e mi ha lasciata sola con lui che era impassibile e allora sono stata certa che si trattasse di mio nonno.  

Alle 4.40 del pomeriggio del 4 gennaio ero seduta su una panchina con i piedi appoggiati ad una roccia e raccontavo a una bambina bionda cosa è accaduto dopo, in quella stanza della terapia intensiva quando sono rimasta sola con il nonno, tanto sono passati più di dieci anni e ormai interessa a pochi, forse a nessuno. Per prima cosa ho controllato il monitor, perché in effetti con quel culone non si sa mai. Ho appoggiato la mano sulla sua senza portare peso, gli ho detto che le bambine erano a casa con il papà, avevano quasi finito l’asilo e c’era aria di vacanze e di mare. Poi, sussurrandogli “veniamo a noi”, ho coniugato al presente indicativo il verbo essere in greco, prima, seconda e terza singolare, seconda e terza duale, prima, seconda e terza plurale. A quel punto gli ho detto che ci avevo pensato a lungo e che mi trovavo d’accordo con Parmenide per quella storia dell’essere che non può che essere. Infine, ho gli ho sussurrato l’art.2697 del Codice civile che è il faro della mia navigazione. Esattamente quello di cui parlavamo io e lui quando restavamo soli. Un attimo prima che mia zia rientrasse l’ho salutato per sempre e ho lasciato il posto a chi aspettava dietro di me. La bambina bionda è rimasta in silenzio, penso che abbia paura di balbettare e quindi preferisce stare zitta anche se di cose da dire ne avrebbe. Non importa, sai, se non è netto è freschetto le ho detto. Poi le ho confessato di aver dimenticato il verbo essere in greco e tutti gli altri verbi, riesco ancora a leggerlo ma basta, non vado oltre. È che a un certo punto serve spazio e a qualcosa si deve rinunciare. Sai che ci assomigli a Semola, quello della spada nella roccia, sei la bimba nella roccia, la prendo in giro, anzi sei la bimba di roccia e così le strappo un sorriso. Facciamo così, le prometto, quest’anno mi impegno a sollevarti e portarti via da qui, non so quando, nessuno lo sa, ma mi sembra di allenarmi solo per quel momento.

La Bimba nella roccia.Giardino Kranji-Rivoli.