Una mattina, era un lunedì ma non ricordo quale, una compagna di mia figlia  è entrata in classe pochi minuti prima delle 8 e le ha detto “ho visto tua madre”. Niente di strano, il mio ufficio è davanti alla scuola, porto il cane a passeggio prima di iniziare a lavorare. Niente di strano, le ha risposto Pepe. La compagna ha sorriso senza mostrare i denti, ha stirato le labbra ai lati del suo faccione “parlava con uno che era in un macchinone e rideva. Ecco come scoprire che tua madre si è fatta l’amante.” Poi ha aperto la bocca e mostrato i denti. Gialli.

L’avevo vista passare sul marciapiede opposto al mio, quel lunedì mattina, mancavano pochi minuti alle 8, Pepe era già entrata, me la immagino appoggiata al termosifone tiepido in classe, con le mani lungo i fianchi mentre chiacchiera con gli altri, senza timore di mostrare i denti, ma forse lei non fa così, io mi appoggiavo al termosifone con le mani lungo i fianchi e la immagino così perché altro non so immaginare che non sia il mio ricordo, su di lei però innesto il sorriso che nel ricordo di me è raro, su di lei non è un elemento di fantasia. Non mi saluta mai, questa compagna. Non mi guarda nemmeno negli occhi le volte in cui le rivolgo la parola, ne ho parlato spesso con Pepe, mi dà fastidio perché sento che nasconde qualcosa. Cosa? Mi chiede mia figlia. La cattiveria, Pepe, vorrei dirle. È difficile guardarti negli occhi, mi spiega Lui quando gliene parlo, sostenere il tuo sguardo. Come la fate lunga, mi stizzisco. Mamma, avrà paura di restare pietrificata, come con Medusa, sai, no?

“Farsi l’amante” suona d’antan, riporta a tappezzerie di velluto in rilievo e divani a fiori. È una frase che potrebbe dire mio padre, anzi no, nemmeno, mio padre usa la locuzione farsi l’amico o farsi l’amica. “Quello si è fatto l’amica” e fin da bambina sapevo che c’era una nota di clandestinità, che quell’ amica non era la stessa parola che indicava la mia amica Laura. E poi il verbo fare. Come si fa a fare le persone, a farsi le persone? Non mi piace nemmeno pensare di avere amici, figuriamoci farmeli. Si è amici. 

Tu cosa hai risposto a Maria Impicciona?

Chi è Maria Impicciona?

La tua compagna facciona.

Mamma, però.

Hai risposto Mamma però?

No.

Cosa hai risposto?

Ma niente, che le dovevo dire, che mi sembrava strano.

Solo?

Sì. Cosa dovevo risponderle?

Per prima cosa che sì, in effetti tua madre qualche chance ancora ce l’ha a differenza di altre. Poi che tua madre non è così stupida da farsi l’amante davanti alla scuola che frequentate da 13 anni, come minimo lo porta in ufficio facendolo entrare in un secondo momento. Infine, di andare dall’oculista perché nel macchinone c’era Gabriella.

Perché te la prendi così?

Perché è così che nascono i pettegolezzi, Pepe. Perché lei non sa cosa ha visto ed era certa di quello che ha immaginato, perché non puoi confondere l’immaginazione con la realtà, sarebbe bello, sarebbe meno noioso, ma non è vero, è una finta, è una rappresentazione e ci sono passata tante volte, ho sentito persone raccontare qualcosa che non è mai accaduto solo perché nella loro testa era accaduto. Perché Maria Impicciona non poteva sapere se dirti questa cazzata poteva farti male, non poteva sapere che non mi avresti riconosciuta nella descrizione che ti stava facendo, non poteva sapere che non avresti avuto il dubbio. E se tu ne avessi sofferto? E se per sei ore tu fossi rimasta con il pensiero che stava capitando qualcosa che metteva a rischio la tua famiglia? Te l’ha detto perché sperava che tu ci restassi male. E questa non è amicizia. E non è nemmeno immaginazione. È cattiveria.

Che fatica, dico alla Dottoressa Elle, durante una delle nostre sedute, era un giovedì ma non ricordo quale, ci vediamo sempre di giovedì. Faccio più fatica degli altri. Delle altre. Lo spettacolo delle madri mi incuriosisce, forse perché non sono mai sicura di conoscere la parte e le altre sanno ripetere tutto il copione, le altre si affidano alla natura e sembra non sbaglino mai. Io no. Ma io ho un piano, ho un programma, le dico con tono cospiratorio. Forse dovrei ucciderla dopo averglielo rivelato, sa troppo di me. Io non seguo l’istinto ma non lo posso dire a nessuno. Il mio piano è lasciarle. Le ragazze. Lasciarle alla loro vita senza di me. Prepararle a questo. E il mio programma è sintetico, pochi punti chiarissimi: onestà, impegno, responsabilità e risate. Tante, tante, tante risate. Il ricordo delle risate. Non ho nessuna intenzione di riempirmi di loro ricordi, una parte di me sa che li perderò tutti i ricordi, io, a un certo punto. Voglio esattamente il contrario. Lavoro incessantemente per essere in quanti più ricordi loro, per stare lì, al sicuro. È la mia garanzia se non di immortalità almeno di lunga vita. Si vive per tre generazioni, più o meno, secondo la Medicina Tradizionale Cinese, il tempo di far svanire il ricordo. Mi basta una sola generazione, la loro. Quante risate si ricordano con la propria madre? Ecco, a questa domanda tra cinquant’anni le mie ragazze risponderanno che si ricordano solo risate con la loro mamma e nel dirlo si commuoveranno. Ma poco. Solo un attimo. Poi rideranno e io sarò lì, in quel suono. E Freud muto. Che fatica.

Vorrei che lo sapessero, comunque. Che faccio più fatica di altri e che a volte questa fatica mi fa sentire nel posto sbagliato, che spesso mi fa sentire inadeguata, come se a un certo punto della vita avessi imboccato l’alternativa sbagliata, come se avessi fatto scelte che non erano quelle che volevo fare. Vorrei che lo sapessero che mi distraggo spesso. Che ci sono parti di me che vanno lontano per poco tempo e che vado a raccattare per riportarle a casa e ripulirle dai bagordi. Vorrei che lo sapessero che mentre assisto alla loro costruzione la mia non si è ancora compiuta, che siamo cantieri senza superbonus, paghiamo tutto noi, io, loro, che mi sembra che loro stiano venendo meglio di me, più solide, più efficienti, più accoglienti e questo mi provoca un movimento dietro l’ombelico, un calcio da dentro dove un tempo c’erano loro, un movimento a cui ho dato un nome un giovedì e ho pensato che potevo anche morire dopo questa epifania, sapevo troppo di me ormai. L’orgoglio. Che fatica, ma che orgoglio.

Ho i nervi scoperti, sono completamente esposta. A cosa, mi chiede lei, seduta in auto, in doppia fila con le quattro frecce lampeggianti e il finestrino abbassato. Mancano pochi  minuti alle 8, è un lunedì, c’è un gran passaggio di auto che scaricano ragazzini tutti uguali con zaini tutti uguali e scarpe tutte uguali che vengono fagocitati dal cancello spalancato della scuola. Le sorrido mostrandole i denti, la bocca stirata allarga il sipario delle rughe che si sono appoggiate da qualche anno proprio in quel punto. Alzo le spalle. Il cane tira un po’, questo è il suo tempo e io lo sto impiegando in altro. Vorrei andare da mio fratello ma non riesco, le confesso. Non ho abbastanza giorni. Ho il trasloco dell’ufficio nella nuova sede. Le vacanze di carnevale delle ragazze. Febbraio. Dura così poco febbraio, le scadenze sono sempre le stesse non diminuiscono eppure è un mese maledetto, me lo diceva sempre il pediatra delle ragazze, sempre. Febbraio è un mese maledetto, signora. Questo febbraio. È il primo febbraio dopo lo scorso febbraio. È un anniversario che mi spaventa. È già passato un anno, dice lei, guardando nello specchietto se l’auto dietro ci passa lo stesso. Sì, passa. È che questa suona tutta appena ti avvicini, nemmeno la devi sfiorare, si lamenta. Anche io, suono tutta come la tua auto. Qualcosa del genere. Le ragazze mi hanno detto che ripeto sempre la frase “non ce la faccio più” . anche io, mi rassicura, anche io lo dico sempre. Sai, tanti anni fa, tantissimi, dicevo sempre “non ce la faccio”, sempre, per tutto, gli altri facevano cose e io non ce la facevo, l’ho raccontato a Pepe che mi ha detto, vedi, mamma, se adesso non ce la fai più vuol dire che alla fine ce l’hai fatta. È diventata grande, anche Pepe che era la piccola, suggerisce lei mentre fa cenno al conducente dietro di passare tranquillo. Proprio non riesci ad andare? No.

E poi mi è tornata l’otite. Ormai ogni sei mesi abbiamo appuntamento. Inizia con un aggravarsi della dermatite, aumentano i fischi e il senso di ovatta e poi comincia il dolore. Pepe mi mette le gocce con grande cura, scalda il boccettino tra le mani e conta quattro gocce mirando con estrema precisione. Mi lascia distesa sul fianco. Se hai bisogno chiama, mamma. Il mio corpo non vuole più sentire. Lui mi accarezza la testa, sussurra qualcosa che non capisco, se mi copri le orecchie quando mi parli è un casino gli dico. Cri mi parla da un’altra stanza, si dimentica continuamente che ho bisogno di guardarle le labbra. Non voglio più parlare, racconto alla Dottoressa Elle. A febbraio non parlerò. Tratterrò il fiato e basta, lo lascerò passare in apnea. Perché vuole andare da suo fratello, mi chiede. Perché penso che se mi vede e se sto con lui poi farà il bravo. Non combinerà disastri e non gli capiterà nulla. Ci devo essere io per farlo stare tranquillo, per farlo ridere. Ma non riesco ad andare, ho il trasloco dell’ufficio, il mese spezzettato e le scadenze, tutte, che mi strizzano l’occhio dalla scrivania mentre io osservo il soffitto. E gli allenamenti. Non posso saltare gli allenamenti, perché se ne salto uno poi li salto tutti, se cedo una volta poi cedo sempre, se salto un punto del programma qui salta tutto il programma e so io la fatica che faccio a tenere tutto insieme. Più fatica degli altri.

Vengo a prenderti da Maria Impicciona per le 18.30?

Mamma, però.

Però un cazzo. 18.30?

Sì. Ma non guardarla male.

Non la guardo proprio. Fatti solo trovare pronta che non ho voglia di salamelecchi cortesi, non sento e mi viene mal di testa con niente, poi ha quei gatti che girano per casa e si strusciano lamentosi sulle gambe, mi fanno schifo.

Dai, sono belli almeno i gatti.

Da morire.

Resto in corridoio, declino l’offerta di un caffè fuori tempo massimo, di un bicchiere d’acqua, di accomodarmi in cucina, batto lievissimamente il piede per tenere lontani i gatti, non so se serve ma ci spero, con la coda dell’occhio dalla porta socchiusa scorgo il salotto. C’è il divano a fiori. E tappezzeria in rilievo. Guardo mia figlia arrivare sorridente dalla stanza di Maria Impicciona, mi osserva e pensa brava, continua così, come farebbero le altre madri, non dire niente di quello che pensi, brava, sorridi. Con lo sguardo le confermo tutto. Ringrazio moltissimo per l’ospitalità che prima o poi ricambieremo. Mi volto, capisco il senso dell’espressione guadagnare l’uscita. Detesto queste situazioni, penso che potrebbero smascherarmi, penso che potrebbero accorgersi che non conosco la parte ma che ho un piano. Pepe mi rassicura, sono andata bene. Nonostante i gatti.

Le ho detto che nell’auto c’era Gabri, che avrebbe dovuto guardare meglio.

Brava.

Mah.

Cosa?

È che mi ha risposto “allora tua madre è lesbica”. Che le dico?

Parolacce?

No.

Allora niente, lasciale la sua ragione.

Che fatica, mamma.

Sì, amore mio.

Un pensiero su “I miei alibi e le mie ragioni

  1. E niente: devo avertelo già detto che quando ti leggo mi viene in mente il gioco dello Shanghai, che richiede sangue freddo e una grande visione d’insieme, e la capacità di fare scelte che gli altri magari non capiscono.
    Ti consiglio di non completare mai la tua Costruzione: alla fine poi dovresti sottostare all’Inaugurazione, e quello credo proprio che non riusciresti a sopportarlo.

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