Io non sento il ritmo.

È tutta la vita che mi sento dire che sono aritmica: non ho imparato a suonare uno strumento perché sono aritmica, non so ballare perché sono aritmica, sono stonata perché sono aritmica, non capisco la metrica perché sono aritmica.

Ho cercato il significato della parola, oltre quello ovvio dato dall’ alfa privativo. E ho visto che l’ambito naturale dell’aritmia è quello medico. Si dice aritmia del polso, aritmia del cuore  e non è che non hai il ritmo del polso o del cuore.  Hai un ritmo diverso. Irregolare rispetto agli altri.

Mi sono sentita meno aritmica. Di essere irregolare lo so da sempre.

Come un verbo, come un numero primo, come una sequenza .

Sento i suoni, ma li sento a modo mio. Li sento da irregolare. Li sento con il tatto e non con le orecchie. Li sento con l’olfatto e non con le orecchie. A volte li sento con gli occhi, non sempre. Ma non li sento con le orecchie.

La musica mi arriva  come uno schiaffo o come una carezza.

Le parole hanno un suono che sento sulla pelle. Le parole sono taglienti o affilate, roventi o congelate, scavano o sfiorano, lenitive o urticanti.

Le parole profumano o puzzano.

Le parole sono il mio mondo, il mio tutto e risuonano per me, di me, di come sono io. Non saranno mai metricamente corrette. Impossibile. Non saranno mai formalmente corrette. Impossibile. Non saranno mai un gran componimento. Impossibile.

Sono le mie. Sono io in qualche modo, in tanti modi a dire il vero in ogni modo.

E quindi sono e saranno aritmiche, irregolari, istintive eppure ragionate, calcolate, pesate, vomitate,rimaneggiate mai rigirate, indagate, cercate e non ricercate, deboli, potenti, cattive, intense, buone, oneste, spietate,vere.

E sono e saranno messe in una rima azzardata perché sono il mio gioco, perché il mattino mi alzo e sveglio le mie figlie e le preparo alla giornata che sarà canticchiando in rima, inventando il tempo e i suoni, recitando in modo improvviso e improvvisato , perché possano iniziare con un sorriso, con una risata, per una parola sbilenca nella frase, per una parolaccia che ci sta proprio bene, per una mamma che infila in una rima tutto il gioco che può, tutto l’amore che può finché può.

Non chiamiamole filastrocche, per carità. Sono cresciuta nel mito di Rodari, lo so cos’è una filastrocca.

Non chiamiamole poesie, per favore.  Ho passato troppi  anni in compagnia della letteratura  greca, latina e italiana per non saper riconoscere una poesia. Ma questo è il motivo per il quale so anche che la parola poesia arriva dalla parola che significa fabbricare, costruire materialmente qualcosa.

Io faccio, costruisco poestrocchie. Pasticci di parole con una rima che anche uno stupido può leggere. Magari non può capire, ma leggere si.

Ed io sono esattamente così. Sono esattamente questo. Sono una poestrocchia.

È che sento le mie ragazze ridere tra una mutanda e una calza, mentre si pettinano o fanno colazione e so che durerà ancora poco questo nostro intrattenerci snocciolando rime improbabili. Ma io ci ho messo quasi 40 anni per imparare a giocare e non voglio smettere. Ed allora faccio rotolare giù parole come pezzetti di lego rovesciati dal cesto dei giocattoli e le sparpaglio tutte e non so quali userò o cosa costruirò ma mi servono tutte  e fate attenzione a non pestarle quando passate, potreste farvi male, il lego sotto il piede nudo è doloroso…

Io mi sono fatta male con alcune parole, adesso le maneggio con cura, non le tengo vicine, le osservo con circospezione, mi ci avvicino a piccoli passi.  Per altre ho un vero e proprio rifiuto.

Convenienza. Mi fa rabbrividire.  È una parola che striscia e sibila come un serpente, sa di profumo preso dal cestone delle offerte nel reparto bagno e detergenti del supermercato. Cela gli odori naturali, copre le intenzioni reali, maschera, nasconde, inganna, spinge ad accontentarsi.

Perdono. Non la capisco. Non so usarla. Ha il suono dei cocci rotti. È verde, non come la speranza ma più come la bile. Odora di sigaretta bagnata lasciata per giorni nel posacenere. Qualcosa di dolciastro, inutile, macerato.

Ad altre parole ho tenuto il muso a lungo, le ho coperte per non sentirle direttamente sulla pelle, adesso le sto scoprendo per capire se fa ancora male.

Famiglia. Famiglia è una parola dolorosa, per me odora di spazio chiuso, di corridoio della scuola. Suona monocorde come un elenco numerato di cose da fare. Obbliga a una mimica bellica, con il dito puntato come un’arma: “è la MIA famiglia” “sai cosa ha fatto la TUA famiglia?”.

Ha un colore grigio come la parete della sala d’aspetto dal medico di famiglia. Appunto.

L’ho coperta tanto tempo fa, ho smesso di sentirla e ho cercato di usarla il meno possibile. Mi dà ancora fastidio doverla maneggiare.  Allora l’ho sostituita con Noi. Noi profuma di alberi dopo il temporale. Noi  suona di risata improvvisa, di pianto nella notte, di piumone scricchioloso la domenica mattina, di “prendi sotto braccio la felicità, basta aver coraggio, all’arrembaggio”. Noi ha tutti i colori, alcuni anche sui muri con il pennarello o sul divano.

Noi fa rima con poi. E la storia è ancora tutta da inventare.

 

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