Quattro

 

Noi siamo quattro. Meglio, siamo quattro da uno che stanno insieme come riescono, come quattro che si conoscono da tempi diversi e che ci provano a stare sotto lo stesso tetto, nella stessa auto, allo stesso tavolo, condividendo lo stesso bagno, la stessa televisione, lo stesso argomento.
Io e quello più anziano siamo i due che si conoscono da più tempo, da quando lui aveva i capelli e io un ombelico decente. Ci conosciamo abbastanza bene, tanto da saper finire uno le frasi dell’altra ma non abbastanza da sapere come andrà a finire. Le altre due, invece, sono con noi da tempi più recenti, le conosciamo abbastanza bene, tanto da sapere che se la piccola parla di notte vuol dire che ha la febbre e che se la grande non parla è perché qualcosa la preoccupa, ma non le conosciamo abbastanza da sapere come andrà finire.
Noi siamo quattro, come i moschettieri quando è arrivato D’Artagnan e siamo anche noi un po’ tutti per uno e uno per tutti, meno eleganti e nobili, più prosaici e spicci nei modi ma la sostanza è quella. Noi siamo quattro, come le stagioni: io sono l’autunno, con le foglie a terra, le giornate piovose e quei colori che non ti aspetti e che ti ricordano la terra, le castagne, qualcosa che scricchiola ma resiste, colori accesi, caldi, che ci arrederesti casa. Cristina è la primavera, il legno che cresce, il verde della speranza, della rabbia, del suo sguardo lontano e pulito, la premessa, la preparazione a tutto quanto è da raccogliere. Pepe è l’estate che divampa di incendi, il mare che ti rende più bella, il sole sulla pelle e un bicchiere tra le mani, i piedi nudi, un ballo al tramonto con i capelli sciolti. Lui è l’inverno. Le giornate corte e preziose, un maglione caldo e morbido, una distesa di neve che protegge tutto quanto è sotto il suo manto, capace di ghiacciare la superficie e mantenere la vita appena lì sotto, a riposare, a crescere silenziosa, al sicuro.
Noi siamo quattro, come i Sofficini. Andiamo bene una volta ogni tanto, meglio al forno che fritti ma se ci schiacci il sorriso è sghembo, è un ghigno, il sorriso perfetto riesce solo nella pubblicità.
Noi siamo quattro, come i lati del rombo, del rettangolo, del quadrato. Abbiamo lati che cambiano le misure e aree diverse a seconda dei momenti. Siamo capaci di occupare una superficie vastissima disseminandola tutta di pezzi, pezzetti, libri, playmobil, sigari, calzini, matite, briciole di biscotti, occhiali, caricabatterie, scarpe e ciabatte spaiate e siamo altrettanto bravi a ricoprire lo spazio del divano tutti ammassati sotto il plaid. Inutile cercare di calcolare il nostro perimetro o la nostra area. Siamo un quadrilatero irregolare e non misurabile.
Siamo quattro, come gli schiaffoni che mia madre minacciava di dare a me e mio fratello quando eravamo piccoli: “se non la smettete vengo lì e vi do quattro ceffoni ben dati”. Non ho mai saputo se erano quattro in tutto, due a testa, o quattro ciascuno. E per anni ho pensato che i ceffoni fossero bendati. Alla cieca. Alla dove piglio piglio. Ecco, noi siamo così. Quattro ceffoni bendati. Siamo uno schiaffo che non vede dove si posa ma arriva. In genere finisce su quanto è troppo serio, sulla prepotenza, sul fare ingessato di chi non ride di se stesso ma solo degli altri.
Noi siamo quattro, come i punti cardinali. Io sono l’Est, il sole che sorge, la giornata che inizia spalancando le finestre e aprendo gli occhi, lui è l’Ovest, il sole che tramonta, la giornata che finisce, le finestre che si chiudono sulla cena pronta in tavola e tutto da raccontare. Cristina è il Nord, la nostra Stella Polare. Pepe è il Sud, dove il sole è al suo massimo. Ognuno ha il suo orientamento ma  non puoi prescindere dagli altri, per andare o per tornare. Se capovolgi l’emisfero è tutto al contrario, ti incasini un attimo. E ci vedi sempre rappresentati insieme, come nella Rosa dei Venti.
Noi siamo quattro, come il maiale nella smorfia napoletana che ti verrebbe da pensare che è un animale che rappresenta il peggio dell’uomo, la sporcizia e la bruttura e invece il maiale significa sostentamento e ricchezza. Del maiale e di noi quattro non si butta via niente.
Noi siamo quattro, come gli arti. Cristina e Pepe sono le braccia che prendono, abbracciano, stringono, esultano, cascano per le delusioni e si alzano per ballare a un concerto con un accendino in mano. Io e lui siamo le gambe. L’appoggio, la base, la solidità, il lavoro in salita, lo strappo muscolare del polpaccio per lo sforzo e alla fine le gambe conserte per il riposo, le gambe accavallate sotto il tavolo alla fine della cena quando resta da finire il vino.
Noi siamo quattro, come le fondamenta nella cabala e come il destino nella numerologia esoterica. Stiamo dando la struttura di base al nostro destino, siamo le fondamenta di ciò che c’è oltre, appena fuori dalla gettata del nostro sguardo. Siamo quattro da uno, loro due sono il destino. Noi due siamo le fondamenta.
Noi siamo quattro, come gli amici al bar della canzone di Gino Paoli e come i gatti quando non c’è più nessuno in giro e allora resti così, ancora un po’, a vagare, a raccontarti sempre le stesse cose, ad aspettare, a tirarla lunga per farla passare e alla fine te ne vai al sicuro, tra le mura di casa. Che sono quattro, come noi.

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In ripresa

 

Leggo, scrivo, penso, ripenso, non ci penso più, lascio andare ma torno a riprendere perché è così che funziono, mi manca l’addio, è sempre un arrivederci con i pensieri e con i ripensamenti, con le nostalgie e il carico di ricordi.
Poi mi blocco e resto ferma come se tutto fosse tanto o forse troppo e resto lì in mezzo ai pensieri, a quel che leggo, a ciò che scrivo e non vado avanti, non cancello e non finisco,  non chiudo e non so più cosa faccio, non che cosa fare ma proprio cosa faccio. Dura il tempo che deve non lo so, come quella frase di Alice quando chiede per quanto tempo è per sempre e Bianconiglio le risponde “a volte solo un secondo”. Io resto ferma e sospesa, anche sorpresa ma non stupita, resto con la pagina a metà, con la frase da finire, con le lettere che formano parole che so leggere ma non le leggo e non so più chi ha cominciato, chi ha deciso, chi se n’è andato e se poi ha davvero importanza o se conta solo chi resta e il resto non conta e se chi resta ha scelto di farlo e allora non ci si deve nemmeno fare le domande che mi faccio ora che sono ferma, che non leggo più e ho il libro aperto sulle gambe e ho la penna sospesa per aria come un uccello infortunato, come una gallina che si è agitata troppo e ho una pagina scritta per metà e un aereo, ancora, da prendere e dei sorrisi da andare a riprendermi perché anche le figlie le lascio andare e poi torno a riprenderle, perché siamo tutti grandi e forti e indipendenti e siamo tutti aquile che volano in solitaria e toccano le vette ma la verità è che anche le aquile il nido vuoto non lo vogliono e non so se sono un’aquila o solo un piccione da città ma nel dubbio, e con il nido vuoto, quei sorrisi vado a riprendermeli anche se si tratta di volare, ancora, e che non è più roba mia invecchiando, divento sempre più terrena, da brava vergine rompipalle, mi piace la terra sotto i piedi, le mani che sfiorano le zolle compatte lasciandole sfarinare tra le dita e il cielo sopra la testa, come il destino, gli dei, la sorte che non sai mai cosa sarà e puoi invocarlo o bestemmiarlo ma sempre con il culo appoggiato al suolo. Invece certi pensieri e certi sorrisi devi riprenderteli così, volando. Anche se non sei un’aquila. E allora volo e mi riprendo quei sorrisi e le loro proprietarie, le mani per attraversare la strada e un cono al gusto cioccomenta, una fetta di anguria e il vento della Sardegna che ti prende a schiaffi e c’ha ragione. E mi riprendo la suora seduta accanto a me che chiude la chat di whatsapp, spegne il cellulare e mi sorride mentre stringe il suo rosario e mi guarda accarezzare il mio bracciale tibetano, grano dopo grano, ciascuno coltiva ciò in cui crede e le sorrido pure io.
Volo e lo faccio per la quinta volta in cinquanta giorni che per essere una da piedi per terra e fili d’erba tra i capelli non è male, allora vuol dire che le mie paure le so gestire e le tengo a bada perché questo sono, solo paure ma io me le riprendo tutte, anche loro, perché mi sono costate lacrime e sangue e altri umori strani e lo sforzo di guardarle in faccia senza sapere riconoscerle e senza sapere chiamarle che sembravano spaventose e poi bastava solo dirlo, scriverlo senza lasciarle in sospeso e poco importa se non si capisce o se non piace. Le mie paure le scrivo tutte, le mostro tutte perché non siano loro a mostrare me, le butto giù su un foglio o dove capita, le racconto a chi c’è, a chi passa, a nessuno, a chi legge, a chi lo sa cosa vuol dire e mi sorride.
E mi riprendo un giorno, un giorno solo da figlia. Mia madre già sveglia quando mi alzo, a qualsiasi ora io mi alzi, fuma e traffica con la caffettiera mentre io apro lo sportello del mobile per prendere i biscotti e non importa in quale casa siamo, la nostra o quella in affitto al mare dove non sono mai stata ma lo so dove tiene il pacco dei biscotti e mi riprendo mio padre che guida lui e io seduta accanto come per andare a scuola e mi riprendo i discorsi familiari e lui che cambia le marce tirandole sempre fino all’ultimo che sembra che guidi un camion, così gli diceva il nonno e intanto io guardo fuori dal finestrino e anche se la strada non è quella della scuola e non ho il pensiero della versione di greco e il Rocci che pesa nello zaino, quando scendo un bacio glielo do lo stesso al mio papà, un bacio distratto, quasi lanciato e invece è solo così, per aria, in volo.
Volo per riprendermi un giorno, un giorno solo, lontana da lui che rimane a casa ad aspettarmi, ad aspettare i sorrisi che vado a riprendere anche per lui. E gli restituisco un giorno, un giorno solo lontana da me. E mentre lo scrivo l’hostess sta dicendo che in caso di emergenza bisogna aiutare gli altri passeggeri solo dopo aver indossato la propria maschera per l’ossigeno e non penso che questo sia un caso. Un giorno, un giorno solo. Per riprendermi la lontananza e disegnare il viso dell’altro nella mente , nei versi di una poesia, nel calice di vermentino freddo, nel cuscino vuoto accanto, nel desiderio liquido di riprendersi per mani senza parlare che non serve sempre parlare e poi corri il rischio di restare nel mezzo del discorso, con le parole ferme, sospese non sai più riprendere il filo perchè anche questo capita e stai così, con il ragionamento a metà. E allora tanto vale riprendersi per mano e basta e tenersi così, anche dopo che l’apposito segnale luminoso si è spento e puoi sganciare la cintura.
E mi riprendo il senso della vigilia, l’attesa, la veglia, il sonno che non arriva, la liturgia dell’aspettarsi, il tempo e lo spazio di un giorno che sembra per sempre nel saluto e poi è un secondo nell’epifania, eccola lì, la liturgia di ritrovarsi e riprendersi, così, sospesi, interrotti, cominciati e mai finiti, un giorno solo e mi riprendo tutto questo, le idee, i pensieri quelli più lontani, la paura di volare, la voglia di andare, il nido e qualcuno a cui insegnare che bisogna andare via che tanto i biscotti saranno sempre nello stesso posto, e qualcuno da cui tornare come una scelta, ogni volta, come un mistero, come un paesaggio conosciuto, qualcuno a cui tornare per portare dei doni, per ricevere un perdono, uno sguardo come una carezza lungo la schiena.
E mi riprendo gli occhi che si chiudono e vedono, gli ultimi scampoli di solitudine, i pensieri quelli più vicini, il foglio con le procedure di sicurezza inserite nella poltrona davanti, il bimbo seduto dietro che smette di piangere e ricomincia e smette e ricomincia, la suora concentrata sul bartezzaghi della settimana enigmistica e che forse non ha più bisogno del suo dio oppure è talmente sicura di lui che si concede di rilassarsi e mi riprendo il vociare, il rumore di fondo, il carrello delle vivande e la discesa e tutto così normale e allora non posso, io no, e mi riprendo la complicazione perché la semplificazione mi fa orrore, e mi riprendo i pensieri quelli più articolati e le sfide, le lotte, le questioni di fondo, i principi inviolabili, le regole e le deroghe, mi riprendo il senso di giustizia e il sapore della sconfitta, il livido sul polpaccio e i capillari che si rompono per niente, mi riprendo questo mio ferirmi da sola senza accorgermene, le botte che vedo solo dopo quando diventano viola e verdi , mi riprendo questo tempo in cui mi rompo da dentro, mi riprendo questa fragilità come un regalo del tempo, ogni livido come un fiore che mi sboccia là dove arriva il colpo e mi riprendo la sorpresa di fiorire, da sola.
E mi riprendo il bagaglio a mano, dalla cappelliera, che anche questa volta non sono morta. E mi riprendo i biscotti. E quei due sorrisi lì, che anche questa volta sono viva.

Riconoscersi

 

Nove anni o novanta o nove minuti o nove mesi.
La verità è che se non fossi arrivata tu, Pepe, io non avrei mai saputo quanto le cose possano essere complicate e difficili eppure naturali e non avrei mai saputo che si va avanti e si torna indietro e che quando torni indietro magari lo fai per cercare quello che avevi perso oppure per prendere la rincorsa e provare a saltare più lontano.
E non avrei saputo che ci si può dare i baci alla crema che sono quelli che si infilano nelle pieghe di ciccia e fanno la pernacchia e sono dolci e zuccherini ma non fanno mai male.
Senza di te non avrei sofferto la mancanza di sonno scoprendo i miei limiti fisici e superandoli. Non mi sarei sorpresa di me, non avrei cercato risposte a domande vecchie, non mi sarei sdraiata su un lettino fissando un quadro davanti a me per raccontare che non sapevo niente e che assistevo al crollo di tutto, tutto quello che credevo di sapere e non era vero più niente.
Senza di te non avrei capito che tutto si aggiusta e quello che non si aggiusta si butta e va bene così, che non importa che il pediatra dice che devi passare alla cena solida da quella settimana precisa se tu non vuoi passarci, si può fare poi, dopo, un’altra settimana e vai di latte e plasmon agitati dentro che mica tutti possiamo essere messi in una tabella o in una scala percentuale, in un grafico per lasciare a un altro la possibilità di barrare la casella e dire che tutto va secondo i piani.
Se non fossi arrivata tu avrei continuato a capire solo le cose comprensibili e i messaggi forti e chiari senza mai guardare tra le righe e senza imparare a leggere con le dita lungo il viso bagnato di lacrime, come il braile, e poco importa stare a specificare qui se le lacrime erano le mie o le tue, che differenza fa?
Noi ci facciamo piangere e ci asciughiamo le lacrime a vicenda, tanto, e questo non è sempre chiaro agli altri che ci vedono darci contro e abbracciarci nello spazio di minuti, manciate di secondi a fare fiamme e a spegnerle, giurandoci amore eterno dopo esserci liquidate con gesti stizziti delle mani a dire via, vai via, che mi togli l’aria e invece no, Pepe, non me la togli l’aria tu me l’hai restituita l’aria, mi hai presa per mano poco più che trentenne e mi hai accompagnata nel decennio che ignoravo perché nel mio pensare di sapere tutto, o molto, io non sono mai andata oltre i trenta anni nei miei progetti, nelle mie fantasie, nella mia immaginazione e senza di te questo decennio sarebbe arrivato lo stesso ma no, non sarebbe stato lo stesso. Senza di te non avrei pensato di mollare tutto, andarmene, restare, resistere, urlare e difendere me, le mie idee, le tue fragilità e tutte le tue rigidità e le mie.
La verità è che senza di te non avrei mai imparato a colorare fuori dai bordi, a camminare sul un muretto imitando un funambolo, non avrei imparato cosa significa mastocitosi cutanea paucilesionale espressa al tronco che no, non è una poesia e nemmeno una formula magica ma che comunque l’abbiamo quasi superata, anche quella e non avrei cambiato idea sul mondo, sulle persone che lo abitano così vicino a noi, sui colori per dipingere la casa e sulle montature degli occhiali da vista. Non avrei mai fatto pace con i miei piedi e la forma dell’unghia del mignolo se non avessi visto che ti sei presa anche quello da me.
In questi nove anni ci siamo tenute per mano come si tengono le cose preziose, con decisione e delicatezza, ci siamo inventate parole e frasi in codice, ci siamo sopportate e malsopportate, spesso, tu hai dimostrato ogni giorno di non essere la controfigura di tua sorella e a volte hai dovuto importi per questo, per scappare al termine di confronto e hai fatto bene,Pepe e se qualcosa posso augurarti è di mantenere salda questa forza, questa lotta interiore, questo fuoco che ti brucia e ti alimenta e ti fa essere originale e sola e unica e così diversa da quelli che non sanno che l’anguria si mangia affogandoci la faccia dentro, che si ride facendo rumore e si vive ridendo, che le lacrime sono incorporate nel bagaglio a mano di ogni ragazza per bene, che ci si può dedicare a un cane, a un quadro, a una canzone, a un tocco sulla pelle di qualcuno che gli si sfiorano i pensieri a saperlo fare, che si può essere tutto questo a nove anni, novanta, nove giorni o nove mesi, che si può essere se stessi con leggerezza e si può cedere e lasciare andare la rigidità, la spigolosità, la paura, senza però abbandonare mai niente che nella vita tutto serve, che siamo noi a decidere cosa possiamo essere.
Io senza di te tutto questo non lo avrei saputo e non mi sarei conosciuta davvero e non mi sarei riconosciuta attraverso di te e non mi sarei superata grazie a te che torni indietro, prendi la rincorsa, salti, dipingi , guardi con gioia un signore che tiene ferma la porta del bar dicendoti “entra pure principessa” e dici “mamma, questo signore mi ha riconosciuta” e poi togli gli occhiali per meditare perché “quando si medita nessuno ha difetti, mamma, gli occhiali non servono”, canti, scrivi, vivi, ridi, mangi, corri, nuoti, voli , torni giù, scappi e ti nascondi e hai preso la mia vita per portarla in salvo, per metterla al riparo da strade segnate e percorsi scontati, per non farmi essere ciò che non volevo diventare.
La verità è che se non fossi arrivata tu questo decennio che non immaginavo esistesse non mi avrebbe fatta rinascere. Oggi io festeggio insieme a te ogni giorno di questi nove anni in cui ci siamo tenute per mano e ci siamo conosciute e riconosciute, scoperte e meravigliate, combattute e riappacificate, festeggio insieme a te il tempo che ci è consentito e le mani che si cercano per sfiorarci i pensieri e che riescono ad accarezzare il cuore, che è lì il posto dove vivi tu.
Anche io ti ho riconosciuta, principessa.
Buona Vita, Pepe.