Avevo una frase nel mio profilo di whatsapp, un proverbio latino che mio nonno ripeteva sovente e che, per questo, è entrato nel lessico familiare. L’avevo scritto così, perché ci stava. Perché pensavo che avesse ragione quando, visibilmente stizzito, liquidava un atteggiamento, un comportamento, una persona che non stimava limitandosi a dire rustica progenie semper villana fuit.
Avevo una foto, scattata a Costa Rei in agosto, noi quattro in mare, io con un costume bianco vecchio di almeno cinque anni, abbracciata a lui che tiene le braccia per aria a mimare un mostro che afferra le ragazze, Pepe davanti a lui, fotografata di schiena che corre verso di noi e Cri dietro di me che quasi spunta fuori così, come qualcosa che cercavi da tempo e non trovavi e ci avevi perso le speranze. In quella foto sorridiamo tutti e quattro, anche Pepe che non si vede in viso, ma me lo ricordo che sorrideva. Quando Tiziana ci ha scattato quella foto eravamo felici. Anche prima. Anche dopo.
Non c’era nessun nesso tra la foto e la frase. Le frase era lì anche con la foto prima che non ricordo quale fosse. La frase era lì perché è qui che gira, in casa, da quarant’anni, significa “cosa ti aspetti?! Cosa ti aspetti?! Che le persone siano diverse da quello che sono? Che davvero chi nasce rozzo riesca a essere fine, ma proprio ad esserlo e non solo a farlo, a sembrarlo?”
E poi, di fondo, era una cazzata. Cioè una frase messa lì, poteva voler dire tante cose oppure niente.
E poi, un giorno, mi sono arrabbiata moltissimo. Mi hanno fatta arrabbiare moltissimo.
Moltissimo significa che se fossi stata una fumatrice forse avrei fumato un paio di pacchetti nel giro di due ore, che se avessi avuto un’arma sarei andata al poligono a scaricarla, che se fossi stata un animale sarei stata di sicuro una belva feroce e avrei sbranato, sarei stata una iena, credo, che con Cri avevo studiato che mangiano le ossa delle prede e le spezzano per nutrirsi anche del midollo. Moltissimo significa che se fossi stata pazza sarei uscita per strada a urlare la mia rabbia e la mia voglia di vendetta. Ma se fossi stata pazza forse non mi sarei arrabbiata.
Invece, sono andata sulle impostazioni del mio profilo whatsapp e alla frase latina ho aggiunto un pezzo. Mio nonno non lo avrebbe fatto, era elegante lui. Io ho scritto “tipo …” e ho inserito il nome del fenomeno che avrei voluto sbranare.
Sono stata infantile lo so. Ma era un modo. Avevo bisogno di un modo per dirlo che quella persona aveva tutto il mo disprezzo. Ha tutto il mio disprezzo.
Va bene, fatto. Scritto. Ciaone. Andiamo avanti. La rabbia non passa, i giorni che seguono sono spietati, i sorrisi della foto nel mare di Costa Rei sembrano trapiantati su altri visi, una donazione ex vivo, nessuno è morto, non sappiamo chi è il ricevente che si è preso i nostri sorrisi ma noi non li abbiamo più. È come se ci avessero spento la luce per un momento o per sempre, finché non si sa. Sto male. Fa male tutto.
Ma andiamo avanti. Perché tanto indietro non si può.
E poi un giorno Giorgia mi scrive un messaggio whatsapp per dirmi che stava scorrendo la lista dei contatti e la foto, la mia foto, le piaceva un sacco, mi ha detto qualcosa tipo “sei proprio tu, hai un’espressione bellissima”.
E poi un giorno lui mi dice che gli hanno mandato un messaggio whatsapp. Con la foto del mio profilo, uno screenshot, si dice così credo. E un’altra foto, presa da wikipedia. Orrore. Si, per tradurre la frase latina. Orrore. Non credevo ci fosse bisogno del Castiglioni Mariotti. E nemmeno di aver fatto le scuole alte, per dirla come direbbe il fenomeno che avevo aggiunto al proverbio.
Ecco, allora, gli mandano questa foto per dimostrargli che persona orrenda ha sposato.
Tra tutti i miei 260 contatti della rubrica solo uno ha letto la frase, l’ha cercata su Google- orrore- e si è attivato perché io venissi punita da chi di dovere, dall’esercente la tutela maritale. Un solo e unico contatto che, per altro, non era la persona citata nel profilo incriminato, la quale non avrebbe saputo nemmeno leggere in latino, avrebbe pensato a una formula magica. E mi avrebbe accusata di stregoneria.
Rimuovo la frase. Non perché volessi chiedere scusa o dirmi pentita di una cazzata, perché siamo tutti d’accordo che è una cazzata, almeno tutti e 260 tranne uno.
Sostituisco la foto, non ricordo con quale.
Cancello tanti dei 260 contatti. Molti altri li blocco.
Vado avanti, perché tanto indietro non si può.
Vado avanti ma aspetto. Il momento giusto, il nervo scoperto, l’occasione, che smetta di piovere. Aspetto. Come un killer, un sicario, un cecchino appostato. Come un poliziotto sotto copertura. Come un animale in letargo. Come un seme sotto terra.
Aspetto. Metto da parte, accumulo, catalogo, ordino, archivio.
Aspetto. Come un’ agonia, come una nascita, come un dolore, come il piacere quando lo rinvii perché altrimenti poi finisce.
Aspetto i sorrisi che non tornano, sono mezzi sorrisi quelli a cui arriviamo per un po’ di tempo, è tutto quello che possiamo fare, dobbiamo farcelo bastare.
Aspetto e cammino. Vado avanti, perché indietro non si può. Vado avanti. Salgo su per le montagne e scendo giù dalle montagne. I polpacci fanno male, le ginocchia protestano. Il cuore pompa veloce, fatica ad adattarsi. Il cuore fatica sempre ad adattarsi. Salgo e cammino e penso e aspetto. Scendo e scivolo e penso e aspetto. E risalgo. Un po’ più in alto. Su un’altra montagna. E un’altra ancora. Vado lontana dal mare e dai sorrisi quando c’erano. Vedi, Giorgia, come si cambia ? Sono proprio io e non sono più io. Grazie Giorgia, grazie che hai visto la foto e mi hai detto cose facili, veloci, vere.
E giù, giù da un’altra montagna, una discesa che è una catabasi, e fa male andare giù, non vedo, ho paura di cadere e non voglio tornare, in realtà, voglio restare su e nemmeno guardare giù, voglio restare su e guardare su, ancora più su, con il naso per aria e le lacrime ferme e la faccia che tira tutta, spiegazzata come un libro quando fai le orecchie per tenere il segno ma no, io non lo faccio, io uso il segnalibro ma faccio le orecchie per ricordarmi le pagine dove ho letto qualcosa che è stato scritto per me, faccio le orecchie e sottolineo e faccio quel rumore con la matita che lui mi prende in giro nel letto, la sera, appena apro il libro e prendo la matita lui si gira verso di me e mi dice “kkkrrrrr” e si, ho la faccia così, rigata, spiegazzata è tutta un kkkrrr fatto con la matita, ma è la faccia che ci ho messo, sempre, a salire, a scendere, ad aspettare, a sorridere nel mare, a immaginarmi iena.
Aspetto e sento che manca qualcosa. A me. Mi manca la possibilità di qualcosa. Mi manca la mia bocca rossa che dice e lascia il segno, che bacia e lascia lo stampo, che morde e lascia la scia rossa, di sangue. Mi manca la possibilità di scrivere una frase e dirla e pensarla a voce alta. Mi manca un posto. Mi manca un luogo, un tempo, uno spazio, una ricreazione, un progetto, un figlio nuovo, un amore, un momento per inspirare e scrollarmi di dosso la rabbia, una tana dove sbriciolare le ossa e arrivare al midollo, un riparo dalla pioggia, mi manca il dire la mia e boh, l’ho detta, quell’aria così, vuoi sentirla? sentila. Non vuoi sentirla? Non sentirla.
Mi manca di sorridere.
Aspetto e non succede niente e tutto accade. Aspetto e non mi spezzo nemmeno questa volta, nemmeno sotto il peso di questa rabbia e sotto il peso del bestiame della rustica progenie. Aspetto e non mi piego nemmeno più, però. Al massimo mi spiegazzo, come un foglio quando lo trasformi in un origami. O in un aereo e lo lanci. Come una pagina quando ci leggi qualcosa di importante.
Non mi piego, non mi spezzo.
Aspetto, salgo e mi spiego.
Ho messo una frase nel mio profilo whatsapp, è l’indirizzo del blog. mispiego.com.
Kkkrrrr.
Una mattina ero infognata in una riunione sulla sicurezza informatica, avevo il telefono senza suoneria. Mi compare la notifica di un messaggio whatsapp. Di Giorgia. L’ultima volta mi aveva scritto della foto, non ci scriviamo mai, ci incrociamo a scuola dai bambini, ciao, ciao, poi combiniamo e non combiniamo mai. Ha visto il mio profilo. Ha letto. Le piace. Allontano il telefono di getto, un istinto, un arco riflesso, la iena nella tana. Poi sorrido, piano, di nascosto.
Un pomeriggio ero appoggiata al muro celeste della palestra di Cri, durante un suo allenamento di Karate, stanca della giornata, giocavo con il telefono, cazzate, parole intrecciate, instagram, galleria delle foto, arriva un messaggio di Elisa. Ha letto mispiego. Le piace. Metto il telefono in borsa, scotta, mi brucio, mi brucia, come il sale del mare quando sei tagliato ma va bene, disinfetta, almeno a me dicevano così. Di entrare lo stesso, perché se brucia va bene. Disinfetta.
Aspetto e le rispondo. Anche se mi fa paura, perché ora lei mi vede spiegazzata, perché quando ho scritto il primo post non pensavo che nessuno, nessuno, leggesse. O almeno nessuno che conosco. E se mi leggi mi vedi nuda. Mi vergogno.
Rispondo a Elisa anche se brucia, ma lei ha quello sguardo anche se non la guardi, quello sguardo grande, lei ha gli occhi enormi e bagnati, uno sguardo dove temi possa annegare lei stessa e va bene allora essere nudi perché tanto disinfetta.
Aspetto e mi scrive Roby da Londra che mai più pensavo gli importasse di leggermi. Di sentirmi. Di vedermi salire e scendere e spiegarmi, avvoltolarmi, finire, ricominciare, biascicare, urlare contro e chiedere perché come si chiede scusa. Invece Roby aspetta. Aspetta me. Aspetta che io scriva.
E rispondo a me, ai fenomeni, a mio nonno che, tanto, ci era nato stizzito, ai clienti noiosi e ai collaboratori fastidiosi, alla rustica progenie che si, semper villana fuit e fatevene una ragione, a chi mi crede una strega ,alla professoressa di latino, e a quella di scienze della terra e chimica che finalmente lo posso dire la sua materia è sempre stata una colossale perdita di tempo al liceo classico, io la detestavo e si, sappia che no, non l’ho mai studiata, a mio padre che ha lo sguardo buono, a mia madre che mannaggia a lei, a lui che mi fa kkkkrrrr con le braccia alzate come un mostro, alle mie figlie che sorridono anche di schiena.
Aspetto. Mi spiego.