Pare che io abbia i reni pieni di sabbia. Due maracas piene di granellini, piene piene. Pare che un primo rimedio sia l’acqua. Certo, sabbia, acqua. Secchielli e castelli. Ma io sono più brava con i castelli in aria che con quelli di arenaria, non ho pazienza, non metto la giusta dose di sabbia bagnata, non batto con sufficiente convinzione sulle pareti del secchiello. A me i castelli di sabbia non vengono. Quelli in aria, invece, mi regalano grandi soddisfazioni. Mi ci trasferisco per lunghi periodi. Assomigliano più a torri d’avorio ma non starei a sottilizzare, la questione è fine ma non sottile, la vicenda è granulare. È sabbia spessa di quella che ti grattugia se tira vento. Ci scriverò un messaggio d’amore e poi lascerò fare all’acqua.
Pare che sia un discorso di familiarità, che è una parola con la quale avere familiarità dopo una certa età. Perché te lo chiederanno sempre. Ha familiarità con la menopausa precoce? Ha familiarità con il diabete? Ha familiarità con il colesterolo? Ha familiarità con le malattie cardiache? Ha familiarità con la nefrite? E poi ti chiederanno, con tono assolutamente normale, se i tuoi genitori sono viventi. La prima volta ho guardato il medico come per dire “ma stai scherzando, certo che sono vivi!! “. Eppure, potrebbero non esserlo e sulla sola base della età questo non farebbe di te un povero orfano da compatire. Pare, quindi, che c’entri la familiarità. Si. Ho familiarità con le nefriti, con l’ipertensione, con il diabete. Con le malattie del fegato. Con le aorte che scoppiano. Con i capelli bianchi. Con il nervoso, con il guazzabuglio di paura e ironia, con i film di Totò, con pane e panelle, con le borse, quelle belle, con l’amore per i cani, con l’introspezione patologica, con il senso di giustizia e ancor di più con quello di ingiustizia, con il cuore forte e con lo stomaco che si contorce. Ho familiarità con l’idea della morte, con i fantasmi, con l’amore quello eversivo, che toglie tutto, tutto quanto non serve e ti lascia nudo, unico e solo. Altrimenti no.
Pare non c’entri la rabbia, questa volta, com’era per la colecisti. Simonetta, la maestra di shiatsu di Pepe mi ha ricordato la teoria della Medicina tradizionale cinese, che anch’io studio. Lo so. Lo so. Sono le pietre che non ho lanciato durante il mio cammino. I famosi sassolini nelle scarpe, pare, solo che invece di toglierli io li ho tenuti. Con quelli piccoli, poi, non dovrebbe nemmeno essere difficile recuperare. Quelli che pesano poco, quelli li posso lanciare, posso buttarli in un lago e guardare i cerchi, magari è anche distensivo. Ma con i macigni come si fa? Con le rocce staccate dalla frana? Sono quelle che mi preoccupano di più. Perché se anche trovo la forza di lanciarle via poi però scateno uno tsunami, mica due cerchiolini delle balle. Sono i sassolini, quelli di Pollicino. A me non servono per ritrovare la strada di casa, ma per ricordare tutte le volte che avrei risolto la questione con una sassaiola e non l’ho fatto. Sono i sassi, quelli della morra cinese, di carta-forbice-sasso, sono tutte le volte che non ho detto sasso pensando di cavarmela con la carta.
A me pare che,poi, alla fine si tratta di me. Come sempre. Con quella parte di me che sa. Sa in anticipo, sa come in una visione, come in un’intuizione, una sensazione, quella parte di me che sa un momento prima che qualcosa accada che, si, sta per accadere. Io non so fare molto, nella vita, ma so le cose un attimo prima. Non quel tanto che basta per diventare ricca con un gioco ad estrazione. Non quel tanto che basta per vincere una scommessa. Io so le cose un attimo prima più come chi parla di qualcosa che poi accade. Ma ne ha parlato prima, quel prima che basta a dire che era prima, prima che accadesse, prima che si sentisse, prima che tutti dicessero quella cosa. Prima io dicevo, di me, lo dicevo a lui proprio prima, prima dell’ecografia, prima degli esami che mi diranno cos’altro c’è e poi vedremo, prima dicevo a lui che io sono una montagna che si è erosa negli anni e ogni pezzetto scavato e sgretolato è un granello di me. Sono sempre io ma ho un’altra forma. Non più montagna con la cima che svetta, difficile e per molti faticosa. Mi sono erosa fino a diventare una spiaggia di granelli grossi, impossibile farci i castelli, ma l’ombrellone lo pianti e non vola via, è sicuro. Perchè? Per amore, quello che ti lascia nudo, altrimenti no. E per stare nudi è meglio la spiaggia. Lo so, lo sapevo prima. È che ho familiarità con le sensazioni.