Su di me

Mi piace la pioggia, camminarci sotto, lentamente. Non uso gli ombrelli, impicciano le mani, indosso il cappello. Al liceo amavo storia e filosofia,mi sono laureata in Giurisprudenza con una tesi di ricerca in procedura penale sul segreto di stato. La legge oggetto della mia ricerca è stata, poi, abrogata.

Indosso scarpe n. 38 da dopo la prima gravidanza, ho preso un numero perché il peso mi ha schiacciato i piedi che non sono tornati come prima. Nemmeno il resto, ma nei piedi si nota di più.

Sono una donna da buffet. Da spizzicare il mangiare un po’ di qua e un po’ di là, senza stare seduta con un piatto pieno. Sono una donna da colazione. Posso saltare il pranzo e la cena, non mi importa. Ma mai, mai la colazione. Amo i pancake con lo sciroppo d’acero e la frutta tagliata a pezzetti. Amo le colazioni in hotel, insomma.

Assomiglio moltissimo a mio padre. Per questo a volte non lo sopporto. Non assomiglio per niente a mia madre. Per questo a volte non la sopporto.

Mia figlia Pepe è una ragazza da buffet. E guai a toglierle la colazione. A volte non ci sopportiamo.

Non amo le famiglie. Forse nemmeno la mia. Nel senso organico, la famiglia come ente. Mi piacciono, o non mi piacciono, le persone che compongono le famiglie. Il nucleo famiglia mi insospettisce. Pensare che basti un legame di sangue a spiegare, risolvere e confortare mi sembra, sinceramente, riduttivo e ridicolo riferito a una relazione. E troppo facile. Non mi piacciono le cose facili, i pensieri facili, le strade facili, i rimedi facili, le persone facili.

Sto riscoprendo i tempi semplici a discapito di quelli composti. Uso il presente, amo l’imperfetto e l’idea della continuità, ricordo il passato, quello finito per davvero e penso al futuro, ma solo se è semplice.

Non ho tatuaggi,non sono contraria e nemmeno favorevole, non ho mai avuto bisogno di segnare nulla in modo indelebile anche sulla pelle. Ci ha pensato la vita, e la chirurgia, a incidere il segno dell’amore e quello della paura che, poi, cos’altro avrebbe senso ricordare? Ho un neo sulla spalla sinistra, rotondo e perfetto. Da poco l’ho preso a schiaffi perché, con la coda dell’occhio, mi sembrava una zanzara. Ho una macchia di caffè sul braccio destro, ci sono nata. Mio padre ne ha una identica sull’avambraccio. Ho una cicatrice che corre sotto il mento come un sorriso sotterraneo e ne ho una sulla fronte, le uniche due cadute da bambina. Con il tempo mi stanno spuntando dei nei rossi, ogni tanto ne compare uno, senza una logica, o perlomeno, senza che io ne sia a conoscenza. Forse tra qualche anno sembrerò la Pimpa. Forse è questa la logica sottesa alla loro comparsa.

Bevo preferibilmente il vino rosso, non bevo superalcolici, vado a dormire dopo le 22.30 solo in casi rarissimi e mai per guardare la televisione, non sono amante dei dolci, vado matta per le olive. Anche mia nonna le adorava. Anche mia madre. Anche le mie figlie. Fenomeni mitocondriali. Mi piace la birra, non mangio carne da oltre tre anni, l’ultima volta è stata a Firenze, non ne sento la mancanza ma mangio il pesce, quindi, no, non sono vegetariana. Manca la parola per descrivere la mia alimentazione. Mi piace che manchi la parola. Mi manca Firenze.

Amo dormire ma  non sono pigra, la  mia attività preferita senza nemmeno pensarci, senza nemmeno un dubbio è leggere, leggere, leggere. Mi piacciono i romanzi di esordio, gli scrittori emergenti, gli sconosciuti che ci sono riusciti. Leggo i ringraziamenti e mi emoziono. Vado in palestra almeno due volte alla settimana, anche tre a dirla tutta. Cammino moltissimo. Ho scoperto le ciaspole e ho capito che la neve può avere un significato anche per me.

Ho una migliore amica. Quella del liceo, quella che sa tutto. Ho amiche, poche ma vere. Amici, qualcuno, uno , uno solo, forse due ma uno è mio fratello, non vale. Conoscenti tanti. Sconosciuti tutti gli altri e va bene così. La vita è breve, un segmento cortissimo nella linea del tempo. Ho la piena consapevolezza della mia natura mortale. Allora, io non penso di potermi permettere di sprecare parte del mio tempo a conoscere qualcuno che non mi interessa. A dire cose che non voglio. A sentire cose che non mi piacciono. Non più di quanto è necessario per una civile convivenza sociale. Il minimo indispensabile. Per tutto il resto, no grazie. Nel mio segmentino non c’è spazio e non c’è tempo. Ho un discreto bagaglio umano, anche di casi umani, sulle spalle. Un discreto bagaglio di conoscenza, quarant’anni di azioni compiute nell’adempimento di un dovere, di relazioni necessarie, di prove e tentativi, di scoperte e conferme. Adesso, senza presunzione, io penso che per quel che mi riguarda sono in grado di distinguere a naso. Cosa si. Cosa no. Chi si. Chi no. Ci metto anche la possibilità di sbagliare. Mi lascio il margine di errore. Ma è statistica, niente di più. Non mi interessa. Adesso, io voglio vivere il pezzetto di segmento che ho davanti avendo una sola visione. La mia.

Amo i cani. Ne ho due ma ne vorrei dieci. Non mi interessano molto i bambini, anzi, no, non è vero. Non mi interessano gli interlocutori che ruotano intorno ai bambini. Mamme pancine e il loro mondo di vezzeggiativi pieno di manine e culetti e cacchine e nasini con moccolini, mamme da educazione siberiana piene di regole e codicilli, insensate nel loro sistema premiale e punitivo, mamme perfette come le loro madri, mamme insicure per colpa delle loro madri. Nonne. Ecco, tutto, ma le nonne no. Le nonne che parlano dei nipoti dicendo “il nostro è andato a nuoto già a 27 mesi”, “il nostro è arrivato primo alle prove invalsi” (anonime, nonna, sono anonime). Le nonne che ci mettono lo zampino, rapaci malefiche, ma non ci mettono la faccia, stronze paracule, e allora non è mai colpa loro ma è di certo merito loro. Quindi, amo i cani, tanto. Non mi dispiacciono i bambini, quando sono da soli, impegnati e concentrati in un disegno o in un gioco importante, il gioco è sempre importante,quando chiedono, quando ridono, quando sentono di essere il soggetto della frase e non un complemento.

Ci sono giorni in cui mi vedo top top top. E giorni in cui sono stop stop stop. C sono giorni in cui bevo due litri di acqua e faccio uno spuntino con la frutta. Ci sono i giorni in cui non bevo, non mangio, non parlo per ore con nessuno. Ci sono i giorni in cui la mia pancia è piatta, ci sono giorni in cui sembro incinta. Ci sono giorni in cui ci sono tutti questi giorni in uno solo. Lì è l’apocalisse.

Odio il Natale e l’obbligatorietà dei regali. Mi è indifferente ogni altra festa religiosa e non. Sono grata alle mie figlie di essere nate in piena estate, a scuola chiusa, così noi non organizziamo feste. Non mi interesso di religione. Mi disgusta la politica senza etica, specchio di un’ignoranza esibita ed esaltata. Penso che vada reso obbligatorio un anno di psicanalisi per tutti a carico del servizio sanitario nazionale, perché la gente non sta bene. Non sta per niente bene.

Ho avuto più fidanzati che parrucchieri, sono fedele ma ho tradito, ho avuto più amori che fidanzati. Ho tradito solo fidanzati, mai gli amori. Ho lasciato i parrucchieri senza tradirli, mai. Ho dimenticato un fidanzato, in particolare. Ricordo un amore che è diventato amore solo dopo essere finito, solo nella mia mente, solo dentro i miei occhi quando guardavo quell’uomo guardarmi. E mi vedevo. A volte chiudo gli occhi e lo ringrazio, li riapro e mi vedo, più vecchia, si,  ma ancora io, ancora integra.

Mi arrabbio moltissimo ma sempre per le stesse cose e sempre con le stesse persone. Quando gioco e scherzo parlo in dialetto. Quando sono furiosa parlo in dialetto, l’altro, fortuna del bilinguismo. Non mi commuovo facilmente, tranne se guardo Ghost. Quando ero incinta di Cri mi commuoveva Totti che metteva il dito in bocca. Ma quando ero incinta di Cri ho anche preteso un gelato al cachi. Non mi interessa il calcio, prenderei a testate i soggetti da bar che parlano della squadra usando la prima persona plurale e discutono dei soldi spesi per l’acquisto di un giocatore come se c’entrassero davvero qualcosa o se sapessero anche solo scrivere la cifra. Mi fa schifo il cachi. A Cri piace il cachi, non segue il calcio.

Tra Dylan e Brandon assolutamente Dylan. Ho visto Grease un numero incalcolabile di volte. Ho quarant’anni ma se trasmettono Dirty dancing ne ho 9, 10, 11… arrivo massimo a 16. Idem per Top gun. Ascolto Vecchioni dai tempi del liceo, quando mi si spezzò il cuore per la prima volta e lui sapeva cosa dirmi. Sapevano farlo solo lui, Saffo e Catullo.

Non mi piace la gente, in generale. Non amo la folla, non amo i gruppi, non mi sento a mio agio nella confusione. Non piaccio alla gente, o meglio o piaccio o non piaccio. Da subito e senza misure intermedie. Generalmente non piaccio. Perché la vita funziona come uno specchio, ho capito. Ovvio che se non mi piaci non posso piacerti. Non importa, tanto: se non mi piaci non mi piaci. Sarò civile, educata,  solo in forza degli insegnamenti ricevuti da piccola, ma so fare finta di non vederti. Odio gli errori grammaticali se li banalizzi e li ripeti. E le scuse. La locuzione “Università della Vita”. Quelli che mi toccano mentre mi parlano. Quelli che sei brava se gli dai ragione. Non do ragione.

Sono una donna senza talenti, non canto, non ballo, non sento nemmeno il ritmo o il tempo. Non disegno, dipingo, cucio, ricamo. Niente. Manualità zero. I miei lavoretti con la creta a scuola erano una pena. Non sono sportiva, non nuoto, non scio, non ho mai giocato a pallavolo, non ho mai fatto un saggio di danza. Niente. Ma faccio le imitazioni. E invento filastrocche stonate e raccapriccianti solo per ridere. Rido. Dico la verità. Voglio la verità, anche quando fa male. Ma non cerco la Verità. Non rincorro certezze, assolutezze, totalità. Mi piace la verità particolare, parziale, incerta. Purché sia vera, purché non sia il semilavorato di qualcun altro, purché arrivi dal fondo, dal profondo, dalla vita per come la si è vissuta. La più vera verità me l’ha rivelata una mia prozia, l’unica sorella di mia nonna, donna eccentrica e tenace, fastidiosa e impertinente quando diceva che nella vita è meglio fare invidia che pietà. Mentre si toglieva il cappello e lo buttava dove capitava,snocciolava le olive e le sue teorie. A volte non la sopportavo.

20181020_110337

Un’ipotesi assurda

 

Cosa faresti se ti zittissi

Puntando con gli occhi fissi

Misurando la distanza

Di noi due nella stessa stanza

Se,per caso, ti chiudessi la bocca

La tua lingua che si blocca

La parola non può più uscire

Fuori nessuno vuol capire.

 

Cosa faresti se  finisse il tempo

Il nostro, così per un contrattempo

Per un vano moto di orgoglio

Per tutto quello che non voglio

Le spiegazioni o un chiarimento

Quando piango mi trema il mento

Mi cola il naso e anche il trucco

Tu se piangi sembri un mammalucco.

 

Cosa faresti, allora, senza di me

Senza l’acqua già calda per il te

Senza un racconto dettagliato

Tu il maresciallo, io l’appuntato

Senza le spalle guardate a vista

Tu capitano io centrocampista

Senza il gioco quando si fa duro

Tu la nave io il porto sicuro .

 

Io so cosa farei senza di te

Metterei su l’acqua, solo per me

Berrei una tisana al finocchio

Con il mento che trema sul ginocchio

Chiusa in casa, sola, con i cani

Rimanderei  la vita a domani

Poi però mi vestirei vanitosa

Uscirei per il mondo furiosa.

 

Io so cosa farei se tu non vedessi

Mi arrangerei con tutti i miei eccessi

Non tornerei sui miei passi

Te lo dico, nel caso mi aspettassi

Ripenserei a tutto, come è iniziato:

Una distrazione, tu  fidanzato

Un capriccio, io arrogante.

Noi due colti in flagrante

 

Ripenserei a tutto come può finire

Se non ci si cura si può appassire

Se le parole diventano mute

Troppe volte le hai ripetute

Perdi la voce e la speranza

Conserverei quel che avanza

Al fondo di qualche cassetto

Come qualcosa che più non metto

 

Cosa faresti, ci hai pensato?

No, tu no, troppo occupato

Tocca sempre a me farlo

Sono io quella del tarlo

Del pensiero quando è fosco

Un picchio che abita il bosco

Se non senti più il rumore

Non c’è rimedio e l’albero muore.

 

Io so che te la caveresti

Qualche giorno di occhi pesti

Come chi è rimasto di stucco

E la faccia da mammalucco

Come un attaccante senza squadra

Come una guardia senza ladra

Ti sentiresti senza scampo

Pensando a quel bacio a stampo

 

Agli stivali marroni, a quel sogno

Alla luce spenta se mi vergogno

A una ragazzina con la bocca rossa

A organizzare la contromossa

Al tempo che ci ha attraversato

Al nostro slang tutto inventato

Parole fuori dal vocabolario

In aprile al nostro anniversario

 

lo so,penseresti ancora a me

Che penserei ancora a te

In fondo sono ipotesi post litigio

Quando il mondo intero si fa grigio

Lasciamo passare qualche giorno

Diamo al picchio il tempo del ritorno

Aspetta in silenzio accanto a me

Sta bollendo l’acqua per il te.

 

FB_IMG_1538633385659

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Invece, vorrei…

 

Vorrei avere la visione finale. Niente di mistico, religioso, apocalittico, no. Solo saper già vedere come verrà alla fine. Qualcosa. Come la mia amica Sara che fa l’architetto, visita case orrende e sa che saranno bellissime, sa quali colori e quali materiali e come posarli e vede la trasformazione dove gli altri vedono le macchie di umidità. Come Ernesto, il mio parrucchiere, che tu stai lì, seduta sotto il suo sguardo sicuro, con i capelli bagnati divisi in due sulla testa e appiccicati al viso, così simile a un topo bagnato, e lui vede come sarà alla fine. Cioè, lui taglia e sa già cosa sarà dopo. Ed è sempre come voleva lui. Magari non come volevi tu, ma lui sarà sempre soddisfatto. Lui sa già. Ecco, io vorrei avere questa cosa qui, di vedere la fine prima che finisca.
Vorrei essere una di quelle persone che arriva all’ultimo momento e trova subito parcheggio. Invece se contassi il tempo trascorso a cercare un posto credo che avrei almeno altri dieci anni da vivere, alle fine. Niente, io non posso permettermi l’ultimo minuto o di improvvisare. Credo che esistano questi individui speciali che ignorano del tutto il fatto che altri comuni mortali cerchino il parcheggio per mezz’ore intere. Come la mia amica Chantal. Io, quando sono davvero alla ricerca disperata, la chiamo. Le dico dove sono e lei mi dice “gira in quella via” oppure “fai inversione, vai lì…”, ecco, lei da casa sua mi trova il posto.
Vorrei provare cosa significa perdonare. La sensazione. Io non lo so, come si fa, cosa si prova, se davvero è come togliere un peso dal cuore, se davvero dopo sei in pace. Io non lo so fare. Io non so nemmeno se mi piace la pace. È una modalità dell’animo che non conosco e non mi attira neppure perché tutto il rimestio magmatico che mi si agita dentro è quello che mi tiene sotto carica. Però, vorrei provare, una volta sola, il perdono. Vorrei un personal trainer che mi mostrasse come si fa, vorrei provarci e poi decidere se ne valeva la pena. Vorrei provare un perdono laico, comunque. Qualcosa che non richieda l’intervento, l’intercessione del divino. E se potessi provare questa sola volta, allora dovrei anche scegliere, credo, chi o cosa perdonare. Dovrei provare con qualcosa di piccolo, di fattibile per essere una prova, ma se poi resta il mio solo tentativo non sarebbe meglio giocarmi subito i carichi pesanti e farla finita? Non lo so. Ci penso, ma non sono convinta. Roba da poco o roba importante? Ci provo o non ci provo? Gli altri o me stessa?
Vorrei più tempo per non riempirlo ma per svuotare il tempo che ho adesso e che è saturo. Vorrei più tempo per diluire il tempo che ho già, annacquarlo, allungarlo e farlo bastare. Vorrei fare le cose che faccio con meno affanno. Una mattina più lenta, un pomeriggio più rilassato, una notte meno rapida. Ecco, non voglio più tempo nel senso della lunghezza ma nel senso della larghezza dentro il quale muovermi in modo sensato e non come una scheggia impazzita.
Vorrei che qualcuno si occupasse anche di me, non sempre, non per tutto. Che so, qualcuno che mi chiedesse se sono stanca, se sono felice, se voglio essere portata da qualche parte invece di portare sempre. Qualcuno che mi dicesse che andrà tutto bene, invece di dirlo sempre io. Invece. In vece. In vece ci sono io. Un genitore o chi ne fa le veci. Io, che porto, che chiedo “sei stanca, siete felici, va tutto bene, come la vuoi la pasta, ti va bene la coda alta così, preferisci che ripassiamo prima geografia o storia, hai mal di pancia, ti sei messa la canottiera, hai preso l’acqua per l’allenamento?” invece, adesso tocca a me, occuparmi di loro. E di me. Ma non sono capace di farmi domande premurose e di accarezzarmi la testa da sola fino a quando non passa. Non so farlo su di me, non so farlo passare. Non so promettermelo. A loro, invece, lo assicuro. Sempre. Lo giuro proprio. Passerà. Ci pensiamo insieme. Lo facciamo insieme.
Vorrei essere tollerante e restare impaziente. Preferisco l’idea di portare un peso, un carico a quella di patire, accettare, è che c’è questa sensazione che si porta dietro la parola pazienza che proprio non mi va. Pazienza lo dici quando è andata male, quando è finita. E lo dici quando aspetti. E sei un paziente davanti a un medico e aspetti che lui ti dica cosa c’è che non va e che ti assicuri che passerà. Stai fermo, paziente, patisci, aspetti. No, grazie, io no. Vorrei tollerare, al massimo, portare il peso finché sento che posso farcela e poi basta, non tollerare più, non andare oltre. Ma vorrei spazientirmi, sempre.
Vorrei che qualcuno mi dicesse come fare con le caviglie di Pepe, che sono storte, anzi dritte, anzi storte, a seconda di chi la visita e lei, paziente, ascolta e io impaziente non accetto più un’altra diagnosi imprecisa, insicura, malferma come i suoi piedi che lo vedo io che sono storti e però non c’è nessuno che si siede accanto a me e mi dice come si fa a scegliere se farla operare, se farle mettere le viti che la raddrizzano oppure no, se con la crescita si sistemerà, se è giusto fare in un modo o se è sbagliato. Non c’è nessuno che mi tiene la mano e mi assicura che andrà tutto bene. Invece, io lo faccio. Con Pepe, le tengo la mano. E le giuro che la sistemiamo questa cosa qui.
Vorrei riuscire a mettere in pratica quella massima zen, quella che dice di non promettere quando sei felice, di non rispondere quando sei arrabbiato e di non decidere quando sei triste. Oh, lo vorrei tanto. Certe mattine mentre guido verso la scuola delle ragazze e siamo su un rettilineo che costeggia il campo volo e sembra che stiamo andando incontro al sole che è appena sorto e che è lì, ancora basso, una palla arancione e più mi avvicino meno lo vedo, come tante cose nella mia vita, ecco certe mattine quando penso al sole che sembra tramonti invece di sorgere io penso a questa frase, a questa semplice regola di condotta e mi sembra che se lo facessi tutto andrebbe meglio e non penserei che il sole tramonta mentre sorge, che tutto finisce, che non si muore di presentimenti,che tutto vale ma anche il suo contrario, che non so, io non so perché se mi avvicino lui sparisce. Allora ci provo, magari per una giornata ci provo. Ma il problema è la tristezza, che per me è un sottofondo. Non sono una persona triste, per niente. Ma mi tengo stretta la mia tristezza di sottofondo, quel suono lontano, quel dolore sbiadito, quel pensare sempre un po’ a qualcosa che non è, che non è più. E poi il vero problema è la rabbia. Non dovrei rispondere mai. E questo sembrerebbe molto scortese, penso. Per la felicità invece dovrei riuscirci, perché felice sono felice, ma non prometto mica tanto facilmente. E poi io giuro direttamente. Solo a loro due, però. Mentre le porto verso il sole che sorge, mentre le ascolto, mentre le guardo, mentre si prendono il mio tempo nel senso della larghezza e della lunghezza, mentre mi occupo dei loro pensieri invece dei miei presentimenti,  io lo giuro che andrà tutto bene come se avessi la sfera di cristallo, o la visione finale.

Perché mispiego

Avevo una frase nel mio profilo di whatsapp, un proverbio latino che mio nonno ripeteva sovente e che, per questo, è entrato nel lessico familiare. L’avevo scritto così, perché ci stava. Perché pensavo che avesse ragione quando, visibilmente stizzito, liquidava un atteggiamento, un comportamento, una persona che non stimava limitandosi a dire rustica progenie semper villana fuit.
Avevo una foto, scattata a Costa Rei in agosto, noi quattro in mare, io con un costume bianco vecchio di almeno cinque anni, abbracciata a lui che tiene le braccia per aria a mimare un mostro che afferra le ragazze, Pepe davanti a lui, fotografata di schiena che corre verso di noi e Cri dietro di me che quasi spunta fuori così, come qualcosa che cercavi da tempo e non trovavi e ci avevi perso le speranze. In quella foto sorridiamo tutti e quattro, anche Pepe che non si vede in viso, ma me lo ricordo che sorrideva. Quando Tiziana ci ha scattato quella foto eravamo felici. Anche prima. Anche dopo.
Non c’era nessun nesso tra la foto e la frase. Le frase era lì anche con la foto prima che non ricordo quale fosse. La frase era lì perché è qui che gira, in casa, da quarant’anni, significa “cosa ti aspetti?! Cosa ti aspetti?! Che le persone siano diverse da quello che sono? Che davvero chi nasce rozzo riesca a essere fine, ma proprio ad esserlo e non solo a farlo, a sembrarlo?”
E poi, di fondo, era una cazzata. Cioè una frase messa lì, poteva voler dire tante cose oppure niente.
E poi, un giorno, mi sono arrabbiata moltissimo. Mi hanno fatta arrabbiare moltissimo.

Moltissimo significa che se fossi stata una fumatrice forse avrei fumato un paio di pacchetti nel giro di due ore, che se avessi avuto un’arma sarei andata al poligono a scaricarla, che se fossi stata un animale sarei stata di sicuro una belva feroce e avrei sbranato, sarei stata una iena, credo, che con Cri avevo studiato che mangiano  le ossa delle prede e le spezzano per nutrirsi anche del midollo. Moltissimo significa che se fossi stata pazza sarei uscita per strada a urlare la mia rabbia e la mia voglia di vendetta. Ma se fossi stata pazza forse non mi sarei arrabbiata.
Invece, sono andata sulle impostazioni del mio profilo whatsapp e alla frase latina ho aggiunto un pezzo. Mio nonno non lo avrebbe fatto, era elegante lui. Io ho scritto “tipo …” e ho inserito il nome del fenomeno che avrei voluto sbranare.
Sono stata infantile lo so. Ma era un modo. Avevo bisogno di un modo per dirlo che quella persona aveva tutto il mo disprezzo. Ha tutto il mio disprezzo.
Va bene, fatto. Scritto. Ciaone. Andiamo avanti. La rabbia non passa, i giorni che seguono sono spietati, i sorrisi della foto nel mare di Costa Rei sembrano trapiantati su altri visi, una donazione ex vivo, nessuno è morto, non sappiamo chi è il ricevente che si è preso i nostri sorrisi ma noi non li abbiamo più. È come se ci avessero spento la luce per un momento o per sempre, finché non si sa. Sto male. Fa male tutto.
Ma andiamo avanti. Perché tanto indietro non si può.
E poi un giorno Giorgia mi scrive un messaggio whatsapp per dirmi che stava scorrendo la lista dei contatti e la foto, la mia foto, le piaceva un sacco, mi ha detto qualcosa tipo “sei proprio tu, hai un’espressione bellissima”.
E poi un giorno lui mi dice che gli hanno mandato un messaggio whatsapp. Con la foto del mio profilo, uno screenshot, si dice così credo. E un’altra foto, presa da wikipedia. Orrore. Si, per tradurre la frase latina. Orrore. Non credevo ci fosse bisogno del Castiglioni Mariotti. E nemmeno di aver fatto le scuole alte, per dirla come direbbe il fenomeno  che avevo aggiunto al proverbio.
Ecco, allora, gli mandano questa foto per dimostrargli che persona orrenda ha sposato.
Tra tutti i miei 260 contatti della rubrica solo uno ha letto la frase, l’ha cercata su Google- orrore- e si è attivato perché io venissi punita da chi di dovere, dall’esercente la tutela maritale. Un solo e unico contatto che, per altro, non era la persona citata nel profilo incriminato, la quale non avrebbe saputo nemmeno leggere in latino, avrebbe pensato a una formula magica. E mi avrebbe accusata di stregoneria.
Rimuovo la frase. Non perché volessi chiedere scusa o dirmi pentita di una cazzata, perché siamo tutti d’accordo che è una cazzata, almeno tutti e 260 tranne uno.
Sostituisco la foto, non ricordo con quale.
Cancello tanti dei 260 contatti. Molti altri li blocco.
Vado avanti, perché tanto indietro non si può.
Vado avanti ma aspetto. Il momento giusto, il nervo scoperto, l’occasione, che smetta di piovere. Aspetto. Come un killer, un sicario, un cecchino appostato. Come un poliziotto sotto copertura. Come un animale in letargo. Come un seme sotto terra.
Aspetto. Metto da parte, accumulo, catalogo, ordino, archivio.
Aspetto. Come un’ agonia, come una nascita, come un dolore, come il piacere quando lo rinvii perché altrimenti poi finisce.
Aspetto i sorrisi che non tornano, sono mezzi sorrisi quelli a cui arriviamo per un po’ di tempo, è tutto quello che possiamo fare, dobbiamo farcelo bastare.
Aspetto e cammino. Vado avanti, perché indietro non si può. Vado avanti. Salgo su per le montagne e scendo giù dalle montagne. I polpacci fanno male, le ginocchia protestano. Il cuore pompa veloce, fatica ad adattarsi. Il cuore fatica sempre ad adattarsi. Salgo e cammino e penso e aspetto. Scendo e scivolo e penso e aspetto. E risalgo. Un po’ più in alto. Su un’altra montagna. E un’altra ancora. Vado lontana dal mare e dai sorrisi quando c’erano. Vedi, Giorgia, come si cambia ? Sono proprio io e non sono più io. Grazie Giorgia, grazie che hai visto la foto e mi hai detto cose facili, veloci, vere.
E giù, giù da un’altra montagna, una discesa che è una catabasi, e fa male andare giù, non vedo, ho paura di cadere e non voglio tornare, in realtà, voglio restare su e nemmeno guardare giù, voglio restare su e guardare su, ancora più su, con il naso per aria e le lacrime ferme e la faccia che tira tutta, spiegazzata come un libro quando fai le orecchie per tenere il segno ma no, io non lo faccio, io uso il segnalibro ma faccio le orecchie per ricordarmi le pagine dove ho letto qualcosa che è stato scritto per me, faccio le orecchie e sottolineo e faccio quel rumore con la matita che lui mi prende in giro nel letto, la sera, appena apro il libro e prendo la matita lui si gira verso di me e mi dice “kkkrrrrr” e si, ho la faccia così, rigata, spiegazzata è tutta un kkkrrr fatto con la matita, ma è la faccia che ci ho messo, sempre, a salire, a scendere, ad aspettare, a sorridere nel mare, a immaginarmi iena.
Aspetto e sento che manca qualcosa. A me. Mi manca la possibilità di qualcosa. Mi manca la mia bocca rossa che dice e lascia il segno, che bacia e lascia lo stampo, che morde e lascia la scia rossa, di sangue. Mi manca la possibilità di scrivere una frase e dirla e pensarla a voce alta. Mi manca un posto. Mi manca un luogo, un tempo, uno spazio, una ricreazione, un progetto, un figlio nuovo, un amore, un momento per inspirare e scrollarmi di dosso la rabbia, una tana dove sbriciolare le ossa e arrivare al midollo, un riparo dalla pioggia, mi manca il dire la mia e boh, l’ho detta, quell’aria così, vuoi sentirla? sentila. Non vuoi sentirla? Non sentirla.

Mi manca di sorridere.
Aspetto e non succede niente e tutto accade. Aspetto e non mi spezzo nemmeno questa volta, nemmeno sotto il peso di questa rabbia e sotto il peso del bestiame della rustica progenie. Aspetto e non mi piego nemmeno più, però. Al massimo mi spiegazzo, come un foglio quando lo trasformi in un origami. O in un aereo e lo lanci. Come una pagina quando ci leggi qualcosa di importante.
Non mi piego, non mi spezzo.
Aspetto, salgo e mi spiego.
Ho messo una frase nel mio profilo whatsapp, è l’indirizzo del blog. mispiego.com.
Kkkrrrr.
Una mattina ero infognata in una riunione sulla sicurezza informatica, avevo il telefono senza suoneria. Mi compare la notifica di un messaggio whatsapp. Di Giorgia. L’ultima volta mi aveva scritto della foto, non ci scriviamo mai, ci incrociamo a scuola dai bambini, ciao, ciao, poi combiniamo e non combiniamo mai. Ha visto il mio profilo. Ha letto. Le piace. Allontano il telefono di getto, un istinto, un arco riflesso, la iena nella tana. Poi sorrido, piano, di nascosto.
Un pomeriggio ero appoggiata al muro celeste della palestra di Cri, durante un suo allenamento di Karate, stanca della giornata, giocavo con il telefono, cazzate, parole intrecciate, instagram, galleria delle foto, arriva un messaggio di Elisa. Ha letto mispiego. Le piace. Metto il telefono in borsa, scotta, mi brucio, mi brucia, come il sale del mare quando sei tagliato ma va bene, disinfetta, almeno a me dicevano così. Di entrare lo stesso, perché se brucia va bene. Disinfetta.
Aspetto e le rispondo. Anche se mi fa paura, perché ora lei mi vede spiegazzata, perché quando ho scritto il primo post non pensavo che nessuno, nessuno, leggesse. O almeno nessuno che conosco. E se mi leggi mi vedi nuda. Mi vergogno.
Rispondo a Elisa anche se brucia, ma lei ha quello sguardo anche se non la guardi, quello sguardo grande, lei ha gli occhi enormi e bagnati, uno sguardo dove temi possa annegare lei stessa e va bene allora essere nudi perché tanto disinfetta.
Aspetto e mi scrive Roby da Londra che mai più pensavo gli importasse di leggermi. Di sentirmi. Di vedermi salire e scendere e spiegarmi, avvoltolarmi, finire, ricominciare, biascicare, urlare contro e chiedere perché come si chiede scusa. Invece Roby aspetta. Aspetta me. Aspetta che io scriva.
E rispondo a me, ai fenomeni, a mio nonno che, tanto, ci era nato stizzito, ai clienti noiosi e ai collaboratori fastidiosi, alla rustica progenie che si, semper villana fuit e fatevene una ragione, a chi mi crede una strega ,alla professoressa di latino, e a quella di scienze della terra e chimica che finalmente lo posso dire la sua materia è sempre stata una colossale perdita di tempo al liceo classico, io la detestavo e si, sappia che no, non l’ho mai studiata, a mio padre che ha lo sguardo buono, a mia madre che mannaggia a lei, a lui che mi fa kkkkrrrr con le braccia alzate come un mostro, alle mie figlie che sorridono anche di schiena.
Aspetto. Mi spiego.

20181007_184414

Io che vi amo forte

 

L’amore che non dico io lo faccio

Ogni giorno,si , come un pagliaccio

Metto il nasone rosso e buffo

Un grande salto e giù mi tuffo

A bomba oppure è meglio a pesce

Alla buona, come mi riesce

Mi butto nella lotta quotidiana

Di sfangarla intera, la settimana

Indosso la tuta dai mille colori

Di pezzi rabberciati sui dolori

E poi le scarpe grosse a scacchi

Ma le mie hanno anche  i tacchi

Dipingo la faccia tutta bianca

Che non si veda l’aria stanca

Il sorriso mia unica espressione

Largo immenso che fa impressione

E sopra tutti i miei mille impicci

Ci sta bene la parrucca con i ricci

Una regolata alle bretelle

Agganciatevi, si va, bimbe belle

Da ultimo aggiungo il papillon

Che al vento suona come un carillon

E la melodia quella  vi resta in testa

Perché noi insieme  siamo in festa

L’amore che non dico io lo faccio

Ogni giorno,si , come un pagliaccio

Tiro fuori un fiore che spruzza

Lo uso per quelli della pagliuzza

che la cercano negli occhi miei

con la penna gli unisco tutti i nei

ma l’inchiostro è quello simpatico

non resta traccia, è emblematico

mi invento giochi di palloncini

li regalo tutti ma non ai bambini

li dono a chi non vola da un pezzo

a chi alla leggerezza non è avvezzo

e poi cammino strana, tutta storta

voi ridete e io sono contorta

voi ridete e allora funziona

questa mamma strana e buffona

che aveva già nel suo destino

di esser nata l’anno di Sbirulino

di aver nascosto con il fondotinta

una lacrima, che no, non è mai finta

di aver sempre un po’ di paura

di amarvi forte, senza misura.