A casa tutti bene

 

Gigi ha quindici mesi e i riccioli nuovi, un vocabolario stentato di sillabe facili, gambe magre e ancora rigide che sembrano montate in un secondo momento al suo corpo smilzo, si muove a scatti di corsa sempre sull’orlo di una caduta e non cade o se cade si rialza. Gigi ride e piange. Gigi squittisce gridolini allegri e imita come una scimmietta pelosa, il dito sulla guancia per dire è buono, batte le mani per dire sono brava, le braccia intorno al collo di sua cugina quasi dodicenne per dire voglio stare con te, le carezze tra i capelli della cugina col nome di sillabe facili, Pepe, per dire voglio che tu stia con me. Gigi ripete mammamamma e questo non cambierà per molto tempo, chiama nonnanonna e scappa con movimenti da piccolo robot, batte sulle finestre, aspetta vicino alla porta, cresce ogni giorno come si cresce nelle foreste o tra i boschi o nei villaggi, un pezzo da ciascuno, un pezzo ad ognuno, Gigi che non deve sentire le cose tristi, Gigi protetta, Gigi che verrà su tra le risate in questo villaggio che oggi sembra quello dei Puffi. Gigi sta bene. Noi stiamo tutti bene.

La ragazza con i capelli color dell’ebano e la pelle bianca come la neve, di cui ho detto appena cinque mesi fa, sempre più sola nel suo bosco, senza Principe, senza bussola, senza luce deve salvarsi da sola. Lei pensa che non ci riuscirà. La strega sa che ce la farà. Ma quel che pensa la strega non conta niente, o solo poco, no forse niente. La ragazza con i capelli color dell’ ebano uscirà dal bosco e riderà, imparerà a venir su tra le risate, anche lei. In questo villaggio che oggi sembra il villaggio dei Puffi.  Quel bosco che una manciata di settimane indietro  sembrava l’anticamera di una vita è diventato la sala d’attesa di quel che non si sa, inutile parlare per metafore. Pensava che il Principe fosse lì nei paraggi ma lui era già lontano, troppo lontano e quando qualcosa, o qualcuno, diventa così lontano, che devi strizzare gli occhi e anche così non riesci più a vederlo, allora significa che non devi più sforzarti. Pensava che sarebbe uscita da lì con lui. Ha scoperto che deve stare lì, ancora un po’. Senza di lui. Ha scoperto che il Principe è solo un signore qualunque, con il suo carico di vita e di errori, con i suoi pregi solo che sono anche quelli lontani, troppo sforzo per rivederli. La ragazza con i capelli color dell’ebano e la pelle bianca come la neve ora sta male. Ma starà bene. Noi staremo tutti bene.

Mia madre non è più figlia adesso, alza lo sguardo appena un po’ sopra la cima degli alberi che vede dal terrazzo mentre fuma le sue Diana rosse. Li vede entrambi, o forse no, dura poco. Li saluta e si concede un pezzo di commozione poi si volta perché Gigi batte sulle finestre all’urlo di nonnanonna. Perché la ragazza con i capelli color dell’ebano ora sta male, perché è ora di merenda per Pepe, perché c’è una quasi dodicenne con un nodo nei capelli che non si scioglie se non con la sua spazzola, nel suo bagno, con la sua mano. Perché qui nel villaggio che oggi sembra il villaggio dei Puffi c’è sempre qualcuno che la richiama indietro dalla sua commozione e la riporta giù, come il fumo delle Diana rosse quando lo inspiri. Perché entrambi, lassù, stanno bene. Anche lei sta bene. Noi stiamo tutti bene.

Mio padre ha braccia grandi che ci sta il mondo lì dentro, forse no, ma ci sta il villaggio che oggi sembra il villaggio dei Puffi. Ha le ginocchia malandate, è colpa del peso che porta e dell’incapacità di piegarsi di fronte alla banalità. Mio padre trattiene tutto e tutti, getta reti con le maglie strette per non farti andare via, ti lascia credere che puoi cadere ma non ti lascia cadere mai. Mio padre piange di tristezza, io lo so. E di delusione, io lo capisco. E mi guarda con gli occhi buoni e lì c’è il colore degli occhi di Pepe, di mio fratello, delle nocciole nelle torte e ci capiamo solo così, basta solo questo. Mio padre è una roccia levigata, ha qualche chiodo piantato perché noi ci siamo arrampicati e ogni volta è stata una sfida da vincere ed è capitato anche di perdere e scivolare. Ma lui non ci ha mai lasciato cadere. Mio padre ha le braccia grandi che ci stanno tutti i suoi figli e tutti i suoi nipoti e lui sente che quello è il mondo intero e allora sta bene. Noi stiamo tutti bene.

Cristina vuole tagliare i capelli, ma solo fino alle spalle, tra otto settimane toglierà l’apparecchio con sei mesi di anticipo rispetto a quanto previsto e preventivato. Perché è stata brava, diligente, scrupolosa. Per merito suo. Ha vinto un bronzo nella sua ultima gara, pur avendo perso due incontri. Ma ha combattuto, ha ascoltato la sua istruttrice e si è presa uno spazio sul podio. Tiene Gigi al suo collo e la fa dondolare, fa finta di lasciarla cadere e non la fa cadere, la fa ridere e vengono su così, come gli alberi nella foresta, ognuno con le sue radici ma vicini, come giovani abitanti di un villaggio che oggi sembra il villaggio dei Puffi. Cristina sta bene. Noi stiamo tutti bene.

Pepe è venuta su ridendo che non ci avrei scommesso. Pepe non vuole tagliare i suoi capelli, Gigi si perde con le dita lì in mezzo. Pepe ha gli occhi nocciola, occhi buoni, ed è una roccia piena di spuntoni che sono parole e graffi ma poi basta lo sguardo e ci capiamo così. Pepe allarga le braccia e il mondo cambia, Pepe ride e il villaggio che oggi sembra il villaggio dei Puffi ride. Pepe va a cena con suo padre, indossa la gonna con le stelle di brillantini e mette il profumo. Suo padre le regala una rosa. Io non ci sono ed è giusto così. Pepe sta bene. Noi stiamo tutti bene.

Mio fratello si prepara. A diventare roccia levigata, a sentire addosso i chiodi di chi sta solo cercando la propria strada. Mio fratello si prepara ad avere braccia forti come quelle di nostro padre e chissà se lascerà la rete con nodi un po’ più larghi perché per tutto quello che non fai scappare c’è tutto quello che non lasci  entrare. Mio fratello si prepara eppure non sarà pronto al mondo che cambia, ma spero abbia dalla sua l’eco delle risate del nostro villaggio che oggi sembra il villaggio dei Puffi. Mio fratello ha Roby, che si prepara all’amore solo per amore. Mio fratello sta bene. Noi stiamo tutti bene.

Lui ha fatto sapere ai suoi errori che sono pari, adesso. Che il conto è chiuso. Porta sua figlia a cena fuori, le regala una rosa, lei è bella come non è lui, è altro da lui come un albero in una foresta ma ha quelle radici che sono le sue. Ridono, entrambi. Lei lo sfiora con gli occhi nocciola e lui guarisce in un punto che non sapeva malato. Non si capiranno mai con lo sguardo, loro. Dovranno sempre sfiorarsi per sapersi. Lui ha braccia forti ma non stringe e non trattiene e non tiene. Ha ginocchia che si piegano se serve. Ha occhi verdi come la figlia che vuole tagliare i capelli, si guardano e il mondo cambia in un punto che non sapeva andasse cambiato. Lui ha me, sempre ogni giorno, un passo indietro, uno avanti, uno accanto. Una danza senza musica, una danza tra le risate del villaggio che oggi sembra il villaggio dei Puffi. Lui sta bene. Noi stiamo tutti bene.

Io rido. A volte piango. Ma soprattutto rido. Ho quarant’anni di cose addosso, qualche chiodo infilato, il segno di qualche scivolata, ho quarant’anni di delusioni e ripicche, di poesie imparate a memoria, di articoli di codice, di posologie di nurofen, di amori finiti e ripensati, di errori e braccia strette al petto. Ho occhi da guardare, capelli da far tagliare, saluti da mandare. Ho una danza sempre ogni giorno da ballare. Ho silenzi. Ho parole con sillabe facili da pronunciare, il dito sulla guancia, le mani da battere per dire brava, le mani da far battere a tutti, nel villaggio che oggi sembra il villaggio dei Puffi, che non dobbiamo dire cose tristi perché io sto bene. Noi stiamo tutti bene.

Fenomenologia dello sputtanamento

Lo sputtanamento è una componente della vita umana, un modo di manifestarsi del karma, un’arma del tempo. L’esistenza usa lo sputtanamento come strumento di riequilibrio delle forze e ridimensionamento dell’ego ipertrofico. Questo è lo sputtanamento, quello buono. Come il colesterolo, quello buono. Questo è lo sputtanamento che rivela al mondo o a parte di esso che no, non sei un genio. Che si, hai fatto una robaccia.

Lo sputtanamento ha una funzione sociale e una dimensione etica: colloca lo sputtanato sul gradino che merita, quello che si è davvero conquistato con la sua condotta, strappandogli il sorriso beffardo di chi pensa di avercela fatta. Lo sputtanamento rivela che non ce l’hai fatta. Ad agire di nascosto e scorrettamente. A mentire. A simulare. A fingere. A nascondere. Lo sputtanamento dichiara che no, non sei superiore a nessuno. Ti toglie il mantello di Superman e ti ricolloca più correttamente raso terra come Ciccio nella fattoria di Nonna Papera.

Lo sputtanamento si rende necessario quando dal cosmo arrivano segnali di superamento dei livelli di hubris per troppi giorni consecutivi, allora si rende indifferibile la soluzione drastica e con effetti nel lungo periodo. Perché, comunque, lo sputtanamento non è definitivo. Tende a un periodo medio lungo a seconda dell’evento dal quale scaturisce e al quale deve rimediare. Ma comunque c’è una riabilitazione che passa attraverso l’esercizio della dimenticanza. Si lascia dimenticare, ci si lascia dimenticare.

Lo sputtanamento richiede preparazione da parte dell’agente sputtanante. Un lavoro più o meno di lungo di attesa e appostamenti per colpire una volta e una volta sola. Lo sputtanamento non ha due colpi a disposizione, deve avvenire in un’unica soluzione, altrimenti si confonde con la vendetta che ha in sé qualcosa di volgare, poverina, mentre lo sputtanamento ha un fine volto alla cessazione di una condotta tracotante.

Lo sputtanamento è democratico, inclusivo, antirazziale, apolitico, aconfessionale. Lo sputtanamento non discrimina per età o genere, inclinazioni sessuali o stato di salute. Lo sputtanamento è progressista. È liberale. Interviene solo  in caso di tracimazione, quando lo sputtanando esce dal limite e non è più in grado di reggere, da solo, il peso delle sue architetture. Lo sputtanamento tende verso uno stato di equilibrio, è la mano invisibile nel mercato delle azioni deplorevoli.

Lo sputtanamento è un atto dovuto, quando si supera il limite consentito di malefatte e pochezza d’animo, lo sputtanamento ha un’operatività di ufficio. Agisce e basta. Non è ammessa l’invocazione delle attenuanti, nemmeno le generiche. Non c’è spazio per invocare l’infermità. Lo sputtanamento lo sa che è solo un tentativo di salvare la faccia. Perché si, lo sputtanando si rende conto che quello è. Un problema di faccia. Ecco perché l’unica moneta che lo sputtanamento riconosce per il pagamento del conto che presenta è la vergogna. Altrimenti detta scuorno. In napoletano si dice “mettersi scuorno”. Traducibile con provare vergogna. I napoletani te la fanno indossare la vergogna. Come le orecchie d’asino dietro la lavagna. Come un segno che ti resti appiccicato quel tanto che basta a farti togliere la faccia impudente. Strunz’.

Lo sputtanamento è personale. Non ha niente a che vedere con la famiglia, gli avi o gli eredi. Ecco perché l’agente sputtananate proverà tenerezza verso una madre che si scusa per il comportamento del figlio adulto. E non ne proverà alcuna verso chi tenta di far ricadere le responsabilità in capo ad altri. O verso chi si servirà di soggetti, strumentalizzandoli, spingendoli a comportamenti da sputtanare. Lo sputtanamento sa individuare le responsabilità precise di ciascuno di noi. Non colpisce alla cieca. Sa distinguere i principi del foro della serratura dalle cameriere della bettola di paese, l’uomo stanco che si spaccia per integerrimo invece di dichiararsi finito e finto. Lo sputtanamento non spara sulla croce rossa. Lo sputtanamento riguarda chi si dichiara innocente ma ha le mani sporche. Mica per forza di sangue. Mica lo sputtanamento interviene per fatti cruenti. Lo sputtanamento ha giurisdizione per i delitti dei balordi. I balordi siamo noi. Tutti noi. Quando pensiamo di aver agito senza lasciare tracce e invece abbiamo lasciato la scia con il nostro nome, abbiamo mandato un messaggio di troppo al nostro complice per paura e quello sparisce, puf, senza pensare che la fuga dell’indiziato è una prova. I balordi siamo noi, tutti noi. Quando guardiamo un profilo social all’insaputa del titolare di quelle foto e commentiamo e raccogliamo informazioni e poi così, dall’alto della nostra intelligenza, ops, ecco che lasciamo il segno del nostro passaggio clandestino. I balordi siamo noi. Tutti noi. Quando ci dicono “vai a vedere cosa scrive, vai a leggere” e andiamo, curiosi e leggiamo ma non capiamo perché tanto nessuno ci ha chiesto di capire, ma solo di leggere e di vedere se c’è spazio per lo sputtanamento e lasciamo traccia del nostro passaggio che volevamo segreto. Siamo noi, i balordi. Quando pensiamo che lo sputtanamento sia roba per tutti. Quando pensiamo che siamo noi quelli che possono sputtanare gli altri. Gli altri chi? Gli altri balordi.

Lo sputtanamento non è reciproco. Lo sputtanamento non ha, sempre, bisogno di chiamare per nome e cognome. Quella è l’esecuzione. Lo sputtanamento è diretto, si rivolge all’interessato, lo sputtanando. Senza necessità che nessun altro capisca, senza enfasi e attenendosi sempre all’evidenza dei fatti per come sono realmente accaduti. Altrimenti è calunnia. Lo sputtanamento è colto, usa le parafrasi, ha proprietà di linguaggio, non si serve di iperbole, predilige la litote. Lo sputtanamento sorride del balordo che cerca la parola litote su Google. Lo sputtanamento è ironico e universale. Ci riguarda tutti, tutti noi balordi.

Lo sputtanamento arriva. E non ci si può fare niente, davvero, possiamo solo farci trovare con le mani alzate.

Pare che sia tu

Tu te ne sei andata per davvero, pare. E io ho male da qualche parte ogni tanto. Pare che tu sia, finalmente, libera. Senza più letto con le sponde, pannolone, sguardo fisso. E io ho male da qualche parte ogni tanto. Pare che sia tu. A farmi male da qualche parte ogni tanto. Per esempio tra le costole sento una fitta. È il tuo abbraccio che stritola sulla porta, il casqué obbligatorio per entrare in casa tua, la tassa di soggiorno  insieme a tutti quei baci schioccati sulla guancia come se vederci fosse, sempre, una festa . Per esempio la bocca dello stomaco che si chiude e stringe. È che non so se dirti che voglio prima la pasta e non la carne perché tu mi chiedi, io ti dico pasta e tu mi dici carne perché sono come mia madre e poi, dopo la pasta, la carne non la mangio. E sono le tre del pomeriggio. Sai che non mangio la carne da quasi quattro anni? Anche mia madre, solo che è lei che ha fatto come me, questa volta.

Allora, sei andata via definitivamente, dicono. Pare che tu abbia, finalmente, tutti i tuoi ricordi di nuovo, senza più nebbia e buio e vuoti che occupano spazio. E io ho male da qualche parte ogni tanto. Pare che sia tu. A farmi male da qualche parte ogni tanto. Per esempio le tempie che scoppiano. Sei tu che mi dici che ho una gran testa io, che devo scrivere, studiare, fare la giornalista. Io ero quella con la gran testa. Le belle erano le altre, le mie cugine. Ed era pure vero. Adesso, quella testa che pulsa è piena, forse adesso, sai, vorrei essere bella anch’io per un attimo e contare su quello. Per esempio il nodo stretto in gola, come un sacchetto pieno, le interiora del polpo, sei tu che canti mentre mi pettini e sciogli i nodi ma hai la mano pesante e voglio scappare ma non scappo mai perché io non scappo, non mi hanno insegnato che si scappa, resto, ubbidiente, calma, mentre tu canti, disobbediente e impaziente.

Sei andata via per sempre, ora. Pare che siate, finalmente, di nuovo insieme tu e lui senza più attese e speranze. E io ho male da qualche parte ogni tanto. Pare che sia tu. A farmi male da qualche parte ogni tanto. Per esempio le mani mi formicolano, come se avessi problemi di circolazione. O voglia di picchiare qualcuno. Si, ce l’ho. Come se ci avessi dormito sopra con tutto il peso del corpo. Sei tu che mi fai giocare con Barbara a pulire il bagno, perché una volta i bambini si potevano far giocare così, a pulire, a fare le cose dei grandi, eppure sai che noi ci divertivamo davvero. Le piastrelle tutte, non solo quelle in mezzo alla parete, non abbiamo mai potuto fregarti. Ci avevano già provato le nostre madri, sapevi già il trucco e allora controllavi la fila più alta, compito di Barbara, la più grande, e la fila più bassa, compito mio, la più piccola. Per esempio gli occhi mi bruciano, soprattutto uno. Il destro. Sei tu che mi passi la mano sul cerotto che lo copre il giorno in cui me lo hanno appiccicato addosso. La benda. La chiamavamo così. La benda. Sei tu che mi cuci il vestito da fatina per carnevale. Sono io che ti dico che non si è mai vista una fatina con la benda come un pirata e piango. Ed è un casino piangere con la benda, la colla diventa fastidiosa sulla pelle, le lacrime ristagnano e sembra che non si asciughino mai e forse è così se dopo 36 anni sono ancora lì. Sono le stesse di allora. Sei tu che mi piangi nell’occhio destro.

Sei andata via e non ti vedrò più. Pare che, finalmente, tu potrai rivedere me e le mie figlie, i baci con il casqué che rifilo loro e tutto quel toccarle sempre e accarezzarle e farle ridere e farle giocare. E io ho male da qualche parte ogni tanto. Pare sia tu. A farmi male da qualche parte ogni tanto. Per esempio le guance mi si infiammano e tirano, prudono. Sei tu che ridi fino alle lacrime, sei tu che imiti le facce strane dei cristiani (= qualunque appartenente al genere umano del quale si ignora o si dimentica il nome), sei tu quella volta in macchina sola con me, io guido, tu parli e dici cose che mi sfiorano le guance e io non so quando. Quando è stato che tu, svagata, distratta, innamorata prima di lui e poi dopo solo dopo molto dopo di tutti gli altri, che pure noi davanti a lui diventavamo cristiani e basta, quando è stato che tu mi hai capita tanto e conosciuta tanto. Per esempio le spalle, mi pesano, come se portassi un mantello enorme e faticoso mentre vorrei il mantello dell’invisibilità e invece no, non si è mai vista una fatina con il mantello dell’invisibilità. Sei tu, con la pelliccia e la spilla di rubini, che chiami l’ascensore e cerchi di aprirlo prima che si accenda la luce verde, ancora con il rosso. Lui che ti dice, ogni volta, aspetta, questa fretta che hai è mai possibile. Impaziente, disobbediente. Sei tu che vai da lui, per sempre. E sulle spalle il peso di aver visto così tanto amore da non sapere come si vive senza.

Sei andata via, Cocò. E io ho male da qualche parte ogni tanto. Pare sia tu. Qui. In fondo, nel centro, dentro, nascosta dove non si vede. Dietro il nero degli occhi. Lo stesso nero, io e te. Pare sia tu a farmi male da qualche parte ogni tanto. Pare sia tu. Che resti, sai,che mi imiti, disobbediente, qui dentro me che ti imito. E non scappo, io non scappo.

Ciao Cocò, nonna bellissima e giocosa.

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La verità

 

La verità è che la verità non esiste.

La verità è che ti raccontano della verità dei sentimenti e non è vera. Che parola folle, sentimenti. Senti. Menti. Senti? Menti. A te stesso e agli altri. Quello che senti è reale ma non è vero. Senti questo calcio nel culo? È reale. Ma non è vero. Mente. La verità dei sentimenti è che sono reali come un calcio nel culo. Ma mentono.

La verità è che all’Università ho imparato che esiste la verità processuale. È vero quel che si dimostra vero nel processo. Un processo è fatto di tante cose, soprattutto di scambi di parole, di memorie, di tesi sostenute con la forza persuasiva della parola. La parola più bella è quella più vera nel processo. Ecco perché alcuni avvocati sono più bravi di altri. Perché raccontano meglio la verità processuale. Altri si limitano agli intrallazzi con i carrozzieri con il dubbio di quante zeta usare. Comunque saranno vestiti nello stesso modo, gli uni e gli altri. La verità è che non si può distinguere il capace dall’incapace.

La verità è che la capacità è la possibilità di contenere. La verità è che nessuno è davvero capace sempre per sempre. A un certo punto arriva quella quantità minima che fa uscire tutto e la verità è che non è niente di imprevedibile, di inaspettato, non è una tegola che casca sulla testa, la verità è che è una goccia che fa traboccare il vaso. E il capace diventa incapace.

La verità è che sono arrivata in ufficio con un carico negativo addosso e con la musica cattiva nelle orecchie a darmi il tormento, a superarmi in rabbia e urlavo e ridevo, mi guardavo nello specchietto e piangevo e ridevo e per la prima volta dopo mesi ho faticato a trovare un posto, un parcheggio e tutta quella negatività mi batteva sul finestrino a dirmi “hai visto deficiente? Hai visto che sono di nuovo qui? ”

La verità è che agli anziani dovrebbero rinnovare la patente non se sentono o se vedono. Ma dovrebbero provare a cronometrare il tempo che impiegano da quando salgono in macchina a quando partono e liberano il parcheggio. Quello è. Non serve altro. Liberate i parcheggi velocemente. Voi avete poco tempo per questioni anagrafiche, noi diventeremo anziani nell’attesa che voi usciate. E avremo poco tempo anche noi. La verità è che il tempo è poco.

La verità è che la gente spia. È curiosa. La gente vuole sapere cosa fai, per il gusto di saperlo, di raccontarlo a uno che non ti vede. La verità è che poi non se lo sanno tenere. Spifferano come un infisso vecchio. Come l’aria dall’intestino del mio cane, me ne accorgo solo dalla puzza mai dal rumore. La verità è che non racconteranno mai la verità, non a testa alta, nemmeno a voce alta. Perché la verità non esiste.

La verità è che manca il coraggio. Da una certa età in poi manca il coraggio di sentirsi bene, belli, liberi, perfetti, giusti. Pepe ne ha ancora, Cristina sempre meno. La verità è che i bambini sono coraggiosi e che non si torna bambini. Si diventa vecchi. Impauriti. Lenti. La verità è che anche i coraggiosi hanno paura.

La verità è che i legami di sangue non esistono. La verità è che le persone che noi scegliamo non hanno il nostro sangue. La verità è che si giocava con i cugini da piccoli perché lì ti portavano. Perché i miei genitori non avrebbero mai organizzato una cena con i genitori di Laura, la mia migliore amica delle elementari e delle medie. Ma con i miei zii. E allora stavi con chi c’era. La verità è che nella vita è meglio stare con chi ci piace perché, al netto del tempo passato in coda per un parcheggio, la verità è che la vita dura poco.

La verità è che più lavori, più cresci, più spali la merda incrostata dai tubi della tua esistenza più sei solo. Saranno sempre di meno le persone con cui condividere i tuoi risultati. Ma saranno persone preziose, saranno quelle giuste. La verità è che nemmeno loro saranno indispensabili.

La verità è che non si può essere madre e figlia contemporaneamente e con la stessa intensità. La verità è che i figli vanno lasciati andare. E anche i genitori. La verità è che si sceglie, anche in questo caso. C’è chi sceglie di essere più figlio, c’è chi sceglie di essere più genitore. Io ho scelto, esco in fretta dal parcheggio perché, dopo una giornata in ufficio, porto le mie ragazze a tennis e a karate.

La verità è che si dimentica. La verità è che ci si dimentica. Di ascoltare, perché se quel che senti mente, magari quel che ascolti no. Ci si dimentica di aver detto, di aver pensato. Ci si dimentica pezzi di vita, ci si dimentica il valore del tacere quando non si sa. Ci si dimentica gli uni degli altri. Ci si dimentica dei legami. Si hanno i segni dei nodi e ci si dimentica come ce li siamo fatti. Si dimentica il bene e l’amore. Si dimentica anche il male. Ma dopo. Solo dopo, questa è la verità.

La verità è che siamo tutti un pezzo dimenticato di qualcuno che non sa più chi siamo. La verità è che, a volte, ci si può ripresentare e ricominciare. Io lo facevo con mia nonna nei tempi meno bastardi della malattia, quando mi dava del lei e non sapeva di me perché mi aveva dimenticata.

La verità è che all’Università non si impara niente. È che la gente spia dal buco di una serratura che tu decidi, ma non lo sa e pensa di aver “scoperto” e non c’era niente di coperto. La verità è che il tempo basta, basta sempre. La verità è che il sangue è solo un fluido corporeo ma mio fratello l’ho scelto e prenotato per questa vita e lui è arrivato. La verità è che io mi sono ripresentata a me stessa e non capisco, non capisco, proprio non capisco chi non ci prova a fare lo stesso. La verità è che ho paura. La verità è che dimenticherò le mie figlie ma so che mi innamorerò di loro sempre, come se fosse la prima volta. E mia madre dimenticherà me. La verità è che non so se questa volta le piacerò quando ci ripresenteremo.

Ma questa è la mia verità e la verità è che la verità non esiste.

 

coraggio

Raccolgo le forze

 

Raccolgo le forze. Mi volto poco, sempre meno, sempre per gli stessi motivi e per le stesse ombre. Sono mendicanti squallidi, hanno visi lividi e bisogni pallidi. Non voglio perdonarli , non ci penso proprio. Non li combatto ma li ho già vinti. Si dice che tutti i nodi vengono al pettine. Io non ci credo ecco perchè ho le forbici in mano.

Raccolgo le forze perché ho smesso di raccogliere le provocazioni che pesano troppo e valgono niente. Non viaggio comunque leggera, è un fatto mio, di indole e costituzione, le sensazioni pesanti is the new “ho le ossa grandi”.

Raccolgo le forze e non ho più fretta. Aspetto. Si dice che la fretta sia una cattiva consigliera, non lo se è vero. Si dice che la pazienza sia la virtù dei forti. Io mi sto allenando, mi è servita molto la meditazione. Della vendetta.

Raccolgo le forze e sollevo dubbi, praticamente faccio frontal squat con i manubri per rassodare i miei pensieri.

Raccolgo le forze perché i fiori non mi piacciono, raccolgo le forze perché quelle ho innaffiato e curato e poco altro ho seminato che non fossero le mie forze, le mie sole forze e loro mi hanno ripagata con un raccolto abbondante e generoso.

Raccolgo le forze e resisto. Resto salda, questo è resistere. Mi oppongo fortemente. Al vento, quello leggero, quello della calunnia che i mendicanti squallidi mi hanno sbuffato addosso. Alla frase, quella sulle mie figlie, condannate ad avere una madre come me. Detta da un’altra madre. Detta da chi non conosce vergogna. Raccolgo le forze e presento il conto, si dice così quando devi regolare un torto ricevuto. Subito.

Raccolgo le forze per stringermi di più ogni volta che mi sento sola e lontana, infilata nel fondo di qualche ricordo buio, per consolarmi, per contenermi, aggressiva, con un abbraccio che mi risolva le crisi. Raccolgo le forze ed è la mia terapia.

Raccolgo le forze e racconto, coloro le labbra di rosso, come in un rito tribale o in un sacrificio. Come un indovino o una sacerdotessa, testimonio, ricordo. Sono un correo che confessa ma non si pente.

Raccolgo le forze e aspetto. Ascolto. Ogni scusa non richiesta si dice che sia un’accusa manifesta. Chissà la telefonata di prima cosa è. Osservo. La neve che scende, si poggia, si sporca, si scioglie. Il mio riflesso nel vetro, mi piace quel che vedo, mi volto poco sempre meno. Le ombre non lasciano impronte.

 

neve