Bisognerebbe dormire di notte. Quantomeno piazzarsi sul divano a guardare un po’ di tv a volume  bassissimo. Certamente non scrivere. Assolutamente non cliccare sul tasto “pubblica immediatamente”. Bisognerebbe aspettare il mattino successivo e rileggere, correggere infine decidere di lasciar perdere.

Bisognerebbe dormire  di notte e basta, senza mal di schiena, senza sete, senza pipì, senza pensieri finanche senza sogni, dormire un giusto sonno ristoratore, non troppo e  non troppo poco. Bisognerebbe darsi la buonanotte che duri tutta la notte e lasciarsi cogliere impreparati dalla sveglia.

Invece, invece, la sveglia suonerà tra tre ore, alle sei.  La casa è nel silenzio, il cane piccolo dorme, il cane grande dorme, la figlia grande dorme, la figlia piccola dorme. Lui dorme. Io sono sveglia e sento un gran rumore eppure c’è un silenzio perfetto neanche una sirena in lontananza, un gatto che si lamenta, il  ticchettio maldestro di un orologio. Io sono sveglia e sento un gran rumore. Tutto tace e io sento il frastuono.  Tutto tace e io sono il frastuono.

Lo scorso fine settimana hanno portato mio padre in ospedale con l’ambulanza, ha avuto un malore che si è risolto con uno spavento  supremo. C’è di buono che si è risolto. Ho avuto paura, una paura antica, una paura bambina. Ho avuto momenti di paura vera. Ho pensato che sarebbe morto, per qualche secondo l’ho pensato, poi ho pensato che forse sarebbe morto, poi ho saputo che non sarebbe morto, non domenica, non ora, non mentre pranzava, non quella domenica. Non sarebbe morto. Ho pensato che me lo avrebbero portato via, ho fatto lo stesso pensiero dopo oltre trentacinque anni e nel farlo avevo di nuovo le gambe penzoloni mentre stavo seduta nella sala d’aspetto di un pronto soccorso e avevo quella paura, quella paura lì, non un’altra, no proprio quella paura che avevo da bambina quando pensavo che me lo avrebbero portato via. Nei miei pensieri peggiori, da piccola, lui non moriva, mai, mio padre era-è- immortale. Lui non se ne andava mai via di sua volontà, troppo grande l’amore per me per farlo, ne ero certa. Nei miei incubi lui non tornava perché lo avevano portato via, l’avevano arrestato da innocente- troppo onesto mio papà per essere colpevole- l’avevano rapito, lo tenevano chissà dove e me lo portavano via. Allora se succedeva di notte  mi svegliavo, ciondolavano le gambe seduta sul letto, il lettino di mio fratello accanto al mio e lui lì beato inconsapevole, scendevo e andavo in camera dei miei genitori, facevo il giro del letto, lui dormiva dal lato della finestra e mi mettevo davanti a lui, in piedi, ferma, in apnea. Aveva gli occhi chiusi e mi chiedeva se era stato un brutto sogno, gli rispondevo di si, mi faceva spazio e mi infilavo tra lui e mamma. Il mattino dopo gli chiedevo come facesse a sapere che ero lì, accanto a lui, in piedi perché non avevo fatto rumore, il frastuono lo sentivo solo io. Mi rispondeva, ogni volta, che lui dormiva “con un occhio solo”. Per me significava che mio papà ci proteggeva tutti sempre. Non che avesse il sono leggero. Se questa paura arrivava di giorno spostavo l’area di gioco mia e di Diego dalla cameretta sempre più verso la porta di ingresso e allora era tutto un “dai si prendi le macchinine gioco con te in corridoio”, lui era contento io ero in appostamento. Non sapevo leggere l’ora ma riconoscevo il suono del campanello. Doppio veloce. Era lui, era fatta, non lo avevano preso.

Lo scorso fine settimana l’ho riportato a casa, ho aspettato di vederlo uscire con le sue gambe dal pronto soccorso, ha sorriso, ho sorriso un po’ in apnea,  ho guidato con lui seduto accanto ed era fatta.

Adesso smaltisco di notte, dormo con un occhio solo e sento ogni rumore. Tutto tace e io sento il frastuono. Tutto tace e io sono il frastuono.

È il lupo che mi vive dietro lo sterno, l’animale che mi porto dentro. Con la luna piena la nostra convivenza si complica. Ah, non è adesso la luna piena? Ah, sarà tra due settimane? Ecco, figuriamoci allora cosa succederà.

Il lupo che mi vive dietro lo sterno è costretto dalla gabbia toracica, sta lì, così vicino al cuore che a volte temo lo abbia mangiato, così prossimo ai polmoni che  a volte dico ecco perché mi manca il respiro. Vive in gabbia e ho imparato a conoscerlo, è mio. Passa molto tempo a dormire ma penso che dorma con un occhio solo, non so se per proteggere me o se stesso. Non so se c’è differenza.  Poi succede, perché succede, che si svegli. E allora passa molto tempo sveglio, il mio lupo dietro lo sterno.  E succede, perché succede, che voglia uscire, che voglia fare un giro anche piccolo, anche appena più giù, nei visceri molli, nell’addome, dove la gabbia non c’è, dove il rumore del cuore che pompa non lo indispettisce, dove ogni respiro non lo costringe ad accucciarsi, e allora per sfinimento gli concedo di farlo. Il lupo che mi vive dietro lo sterno a volte, come adesso, mi vive nella pancia e da lì smuove quel che vuole, in genere tutto quello che avevo accantonato per  eliminarlo, tutto quello che avevo digerito , tutte le paure e le insofferenze, anche le sofferenze. Scava buche e ritira fuori. C’è di buono che lupo che mi vive dietro lo sterno a volte ha ragione.

Adesso resto sveglia di notte, aspetto che torni in gabbia. Tutto tace e io sento il frastuono. Tutto tace e io sono il frastuono.

Abbiamo avuto una divergenza, capita in tutti i matrimoni, abbiamo avuto di peggio.  Ma è una divergenza sua, è una divergenza diversa la sua. È una divergenza sempre un po’ mascherata, sempre un po’ alla “fai come vuoi. MA”. La mia divergenza è più qualcosa tipo ”pensala come vuoi, cazzo me ne frega, non devo mica farti cambiare idea”. Abbiamo avuto una divergenza, il lupo era già sveglio, abbiamo avuto una divergenza e se il lupo fosse stato addormentato sarebbe morta così. Invece c’è il frastuono delle tre del mattino, c’è quel lasciarlo perdere così, si, sai cosa c’è? Te lo dico, te lo dico chiaro e tondo: non ti piace cosa ho detto, cosa ho fatto perché non è nel tuo stile? Allora, sappi che è nel mio stile. Lo so che lo sai, lo sai tu, lo so io, lo sa il lupo. Mi hai detto che amare significa anche questo, accettare quel che non ci piace o che non condividiamo. Era ora che toccasse un po’ anche a te, accettare. E adesso continua a pensarla come vuoi, me ne sto qui sul divano con il lupo nella pancia e c’è di buono solo che domattina tu non ti sarai accorto di niente, del frastuono, del lupo libero che scava, della divergenza, di una tua frase scema che per me è diventata frastuono perché io lo so cosa vuol dire fare pace ogni volta con un aspetto, un lato, uno stile, un modo, un tempo discorde. E non so se questo è amore. Se anche questo è amore. So che ti amo, con il mio stile. Libero.

Ed è ancora notte, una notte in cui tutto tace e io sento il frastuono. Tutto tace e io sono il frastuono.

Il rumore di pentole e stoviglie, la grattugia del parmigiano di metallo,la scatola di latta dei biscotti. Lacrime fastidiose. Indifferenza. Resistenza. Mia nonna paterna non mi manca mai. È morta l’anno prima che nascesse Cristina, è caduta, è morta per un’emorragia interna. Mia nonna paterna mi ha lasciato un pezzo di nome, il secondo, una rottura nei documenti. E lo smarcarmi continuo durante l’infanzia dal suo esempio. Mia nonna piangeva sempre. Non mi stava simpatica, era pesante, aveva questa cosa di pretendere l’amore, l’attenzione, diceva a mio nonno “mi vuoi bene? mi devi volere bene” e lui rispondeva scocciato. Rispendevamo tutti scocciati. Anche mio padre si scocciava. Mia nonna paterna pensava che se fai il bravo vai in Paradiso, se fai il cattivo vai all’Inferno. Divideva il mondo per due: quelli che mangiano (i bravi) e quelli che non mangiano (i cattivi), io non mangiavo, Diego mangiava. Quelli che le dicono che le vogliono bene (i buoni) e quelli che non glielo dicono (i cattivi). Io non lo dicevo. Quelli che si interessano delle sue malattie vere presunte millantate (i buoni) e quelli che non si interessano perché oh guarda c’è il mondo da vivere lì fuori (i cattivi). Io non chiedo mai a nessuno come sta, ancora poi mi risponde. Quelli che tifano per lei (i buoni) quelli che tifano per nonno(i cattivi). Mio nonno era simpatico, egoista, ma simpatico. Mia nonna e le sue dicotomie. Io che vivo di antinomie.  Mia nonna e il suo stile. Io e il mio stile. Mia nonna che non so quanto amasse mio nonno, non lo so. So che non aveva ancora ventire anni ma già due figli attaccati al collo quando ha preso un treno da Napoli Centrale diretta a Torino Porta Nuova. Non penso avesse soldi o scorte di cibo. Forse un po’ di pasta con il pomodoro in una pentola chiusa con un coperchio legato da uno strofinaccio, l’avrà data tutta a loro da mangiare, avrà pianto, questo lo so. Ma solo dopo. Solo dopo che il treno è partito, solo dopo aver detto a suo marito che lei si metteva in salvo e metteva in salvo i suoi figli, che lei andava a Torino, da suo padre “mica a fare la puttana”, così gli ha detto, lo so, me l’hanno raccontato entrambi.  Erano troppi in quella famiglia, loro quattro e il vizio del gioco d’azzardo di mio nonno. Si è messa in salvo, non era il suo stile, ma l’ha fatto. Lui si è rimesso in carreggiata. Ha saldato i debiti e con gli ultimi soldi ha comprato un biglietto del treno per Torino. E ha comprato un cavalluccio a dondolo per mio padre. Era il suo stile. Ha messo via il demone. Ha chiuso il lupo in gabbia, ogni tanto lo faceva girare anche lui, lo ricordo.  Non so perché più passano gli anni, più si sommano le notti vigili, più invecchio, più questa storia mi fa piangere.

C’è di buono che è notte e che nessuno l’ha sentita, forse solo il lupo qui nel frastuono, ma lui la conosce già.

 

In foto io che non mangio, non dico ti voglio bene e preferisco il nonno. Tranne quando mi fotografa.

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3 pensieri su “C’è di buono

  1. Non so se a te piacciano i complimenti. Forse no.
    Però non posso fare a meno di farteli.
    L’andamento febbrile delle parole costruisce dei periodi che stanno appiccicati tra loro in sequenze sfasate temporalmente, eppure alla fine opplà, eccola lì la storia, che sembra essere apparsa dal nulla. Non è facile scrivere così.
    Non so se a te piacciano i complimenti, dicevo. Però per questa volta devi tenerteli.
    N.B. Conosci sicuramente Annie Ernaux, vero?

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    1. I complimenti non li so gestire. E’ per questo che, no, non mi piacciono. Mi imbarazza rispondere grazie quando magari grazie non basta. In questo caso, dopo aver letto il tuo messaggio, grazie non basta. Però per questa volta mi terrò i complimenti e il sorriso beota che mi hanno lasciato e tu prenderai questo grazie e saprai che dentro c’è molto, molto di più. (non conosco Annie Ernaux e in questo momento me ne vergogno profondamente. recupererò). Grazie.

      Piace a 1 persona

      1. Grazie basta e avanza.
        Ho citato Annie Ernaux perché, sebbene la conosca poco anche io, il tuo modo di scrivere me la ricorda un po’. E allora credevo la conoscessi già.

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