Quando le mie figlie erano molto piccole, di tanto in tanto, guardavo il loro papà e chiedevo “quando vengono a prendersele? i loro veri genitori quando vengono? Non è che queste due staranno qui sempre!”. Lui rideva, io ridevo. Le mie figlie hanno due anni esatti di differenza, un po’ per gioco un po’ per scelta: abbiamo scelto questo gioco. Quando Cristina aveva circa un anno la madre di un mio amico mi suggerì di avere subito il secondo figlio, come aveva fatto lei, “ti togli il problema, fatichi tutto insieme, la salita è una sola, la discesa è comune. Fanno le stesse cose nello stesso momento, dalla scuola allo sport”. Così è arrivata Benedetta detta Pepe, senza averci pensato troppo, nata in un venerdì caldissimo di agosto. Così mi sono tolta il problema, è iniziata la salita, non si vede ancora la discesa ma i polpacci sono sempre più forti o forse tutto è meno ripido. Comunque lei mi aveva assicurato che la discesa c’era, quindi sono fiduciosa. Appena dopo la curva dell’adolescenza, penso. Spero.
Di quel periodo, di quello che è successo nei mesi dopo quell’agosto caldissimo ho sempre fatto fatica a a dire. Forse era questa la fatica che mi era stata pronosticata. Riuscire a dire e prima ancora a capire cosa stava succedendo tutto insieme. Cosa mi stava succedendo. Ho sempre fatto fatica a dire che l’arrivo di Pepe è stato come spezzarmi in due e che ho vacillato così tante volte e così tante volte ho pensato che no, non ero io, non potevo essere io. Quella ragazza poco più che trentenne che mi guardava dallo specchio del bagno mentre cambiava un pannolino a una neonata mentre chiacchierava con una bambina duenne -“ oh mamma guadda” – cercando quella ragazza poco più che ventenne che si guardava nello specchietto della panda rossa, di notte, per ritoccare il rossetto rosso dimenticandosi di quella ragazzina sedicenne senza trucco, con il dizionario di greco sotto braccio, scrollandosi di dosso, come un fastidio, come un cattivo pensiero, quella bimba con un cerotto che le benda il solo occhio che ci vede, il destro. La fatica di tutti questi strati, di tutte queste anime che quando ti spezzi dove vanno? Se ne perdi qualcuna? È importante, grave, pericoloso? Cosa succede, quando ti spezzi, a tutte le anime che hai? Puoi rinunciare a ritrovarle? Sarei stata sempre io? Sonia, io, potevo essere io anche così? Che madre sarei stata? Che madre sarei diventata?
Io sono diventata madre. Ho aggiunto uno strato. Non sono nata madre, non ho nemmeno quella vocazione o quell’istinto, ammesso che esista un istinto. Io non ho avuto il tempo di desiderare dei figli, loro sono arrivate prima che potessi volerle, sono arrivate per gioco, perché il loro papà le ha volute, penso, come ha voluto me tanti anni fa quando ha cambiato il corso della sua vita per camminarmi accanto.
Dopo quell’agosto caldissimo ho iniziato a dire, spesso, “il problema è”: il problema è il parcheggio lì, il problema è la pioggia, il problema è il disordine, il problema è il sole, il problema è il natale, la pasqua, ferragosto, la nave per la Sardegna, il problema è la connessione internet, il problema è ricordarsi il vaccino, il problema è il corso della vita che hai cambiato per stare con me ma sei scemo ma cosa hai fatto lo vedi con me, con me che stavo bene da sola, al massimo con due cani, con me che i bambini dai, no, non mi piacciono, con me che non so cosa succede alle anime quando ti spezzi e che mi sembra la sola cosa importante da sapere e tu, tu, cambi il corso della tua vita per camminare con me che magari non voglio camminare perché il problema è che non ho le scarpe giuste?
Il problema.
Il problema.
Il problema era che non mi ero accorta di aver iniziato a dire “il problema è”. Era la giusta contrapposizione a chi mi circondava e diceva sempre “non c’è problema “ che è diventata una delle espressioni che odio di più ma proprio che potrei prendere a botte tanto mi urta l’atteggiamento di chi ti dice non c’è problema quando il problema c’è. Il problema è chi ti dice non c’è problema.
Punto.
Appunto.
Quando le mie figlie erano piccole io mi sono spezzata, ho perso le mie anime ed è come un’emorragia, assicuro. Io non sapevo se mi sarei mai più ritrovata intera e se le mie anime sarebbero tornate. Mi avevano detto solo che mi sarei tolta un problema, che la fatica e la salita sarebbero state seguite da una meritata discesa. Punto.
Quando le mie figlie erano piccole e io ero spezzata non sapevo che rendo meglio in salita che in discesa. La discesa mi fa paura, mi torna su la bimba con la benda sul solo occhio che ci vede e ho paura di andare giù. La salita è fatica, è fiato, è resistenza. La salita è una ragazzina con un dizionario sotto braccio, la salita è una ragazza con il rossetto rosso.
Salendo le ho ritrovate tutte, mi aspettavano lungo il cammino, come le briciole di pane di Pollicino, erano tutte lì schierate le mie anime a segnare il cammino.
La salita è una giovane donna poco più che trentenne che non si è più vista guardandosi nello specchio del bagno mentre lavava il culo di un neonato e parlava con una duenne- “oh mamma guadda”- e mamma non sapeva guardare, figuriamoci guaddare. La salita è una donna appena quarantenne, una ragazzina praticamente. Una donna allenata, forte, che è diventata la sola madre che poteva diventare, che si è spezzata e no, non si è riattaccata, ricucita, rattoppata. Si è innestata ed è diventata altro, un’altra, migliore non lo so, ma penso di si. La salita è una donna che raccogliendo le briciole di pane lungo il suo cammino non è tornata a casa ma è diventata casa, per come poteva diventarla, disordinata e piena di parole. La salita è una donna che non ha problemi. Ma che mette il punto. Che diventa punto, il solo punto che poteva diventare, il punto più alto, quello più basso, il punto esclamativo- oh mamma guadda!-, il punto morto se non c’è più niente da dire, quando non c’è più niente da dire.
La salita è una donna che affronta la discesa prendendo in braccio una bimba che non ci vede. Sono la stessa persona, una è la ferita dell’altra, ma entrambe adesso guaddano.
La salita è una donna che ogni tanto guarda le sue figlie, due ragazze belle e rumorose, e ridendo chiede “ma quando vengono a prendervi i vostri genitori? Mica restate con noi per sempre?”. Ridiamo tutti.
Descrivi la saga genitoriale con questo tuo modo intenso e fantasmagorico, pannolini a parte. Io sono arrivato alla conclusione che il genitore non è altro che un modello variante del T-1000, il terminator cattivo del secondo film della serie, che non poteva essere distrutto da nulla e anche quando spiaccicato e sparpagliato si ricomponeva da sè. Ecco, il genitore è così. Ma fatto di coriandoli.
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si, deve essere così. da tutte le mie borse vengono fuori coriandoli, anche quelle che non ho usato a carnevale. adesso ho capito.
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