Prima di un lungo silenzio c’è, spesso, un grande rumore. Sedie trascinate sul pavimento invece di essere sollevate e spostate. Clacson suonati al posto dei citofoni, sono qui, sono arrivato, senti. Bambini che non ci stanno a stare zitti e fermi, perché dovrebbero in fondo, non si capisce. Gente che chiama ad alta voce, per nome, nomi che suonano più rumorosi di altri o forse è la voce che li chiama che è più fastidiosa. Cani che abbaiano di notte solo un po’ e mica per qualcosa. Durante un lungo silenzio, spesso, ci si dimentica dei rumori e solo si sta, zitti e fermi. Poi finisce. Il silenzio e ricomincia il rumore e quel che è successo resta una cosa del silenzio, resta una cosa che sicuramente è successa ma non la si dice perché diventa rumore, anche quello, anche il silenzio.
Io in silenzio sto bene. Il mio silenzio e il silenzio altrui. Io, di silenzio, ne ho avuto poco e lo cerco proprio per questo. E quando arriva così sto, zitta e ferma che non si capisce come si può.
Si può.
Prima di lasciarsi il dolore è concentrato in un punto. Ci si convive per un po’, dipende. Poi ci si lascia e il dolore si espande, il dolore si diffonde, mi piace dire che si irradia perché nobilita il male, il senso del male. Io ho lasciato e sono stata lasciata lo stesso numero di volte, penso. Più o meno, in questa strana contabilità mi pare di ricordare così. Lui occupa così tanto spazio del tempo che ho vissuto che mi sembra anche strano avere ancora traccia di qualche ricordo di qualche amore di qualche vita senza di lui, ma ciò non toglie che così è stato. Sono stata lasciata e ho lasciato. Ho avuto male. Ai piedi. Prima di lasciare, di essere lasciata, mi facevano male i piedi. Come quando compri le scarpe strette, noi donne lo facciamo. Ci piacciono ma non c’è il nostro numero, ci piacciono ma sappiamo che la pianta è troppo stretta, la pelle è troppo dura, il cinghietto alla caviglia troppo lasco. Ci piacciono e diciamo “le prendo lo stesso, si devono fare”. Ma le scarpe sono già fatte, sono lì, nelle nostre mani, ai nostri piedi. Lo sappiamo e le prendiamo lo stesso perché quello che pensiamo non è che le scarpe si faranno, questo è quello che diciamo, ma che i nostri piedi si adatteranno. I piedi faranno male, si taglieranno, verranno le vesciche d’acqua, le dita si rattrappiranno. E non si adatteranno. Bisogna dare via le scarpe, peccato. Il dolore si diffonde, diventa un dolore di sollievo, dopo un po’, dipende. Poi si sta bene scalzi. Io non amavo i miei piedi, mi sembravano brutti, molto brutti. L’alluce grosso su un piede magro, le vene in rilievo. Dopo la prima gravidanza mi si è allargata la pianta in modo irreversibile. Orrendi. Ma come cammino adesso mai prima nella vita. Appoggio tutto il piede, il peso è ben distribuito, non inciampo, non barcollo. Non ho più male ai piedi.
Prima di scrivere bisogna raccogliere le idee. Poi si butta giù qualcosa. Prima si legge, poi si corregge. Io le idee le ho raccolte come un puccio nei capelli, come gli scontrini in borsa, come i pupazzi dei barbapapà in spiaggia quando le mie figlie erano piccole, si perdeva sempre barbamamma, quella nera e appena prima di andare via tutti a cercare perché c’erano tutti tranne lei. Io pensavo che si fosse solo messa un attimo in disparte, un momenti in silenzio, zitta e ferma e la capivo, comunque. Infatti poi ricompariva, mica la trovavamo noi, riappariva lei in un punto dove avevamo già visto e non c’era. prima. Poi c’era. Allora si poteva tornare a casa. Prima di scrivere va sempre tutto bene. Nella testa, intendo. Tra le dita, dico. Poi è scritto. Poi è lì che si può leggere. Prima nessuno legge. Poi chiunque legge. Io ho sempre paura quando leggono quello che scrivo, io sono una di quelle che dice “mi leggono”, sono una di quelle a cui dicono “ti ho letta”. È una cosa che fanno a me, direttamente a me. Prima di scrivere il puccio va benissimo, poi penso che però insomma il puccio è una cosa per stare in casa, se devi farti vedere che sia almeno uno chignon. Io non li so fare gli chignon. Prima di scrivere io non ho paura, poi ne ho. Sempre meno però perché prima di leggere si può anche decidere di non farlo. Se mi leggi così è, puccio, alluce grande, piede nudo. Se non mi trovi sono solo un attimo in disparte.
Prima di avere un figlio non lo si ha. Non lo si ha proprio, non è che puoi immaginarlo o pensarlo o provarci. Non ce l’hai. Non è che se sei molto intelligente lo capisci perché un figlio non è un concetto teorico da fare tuo con la speculazione intellettuale. Prima di avere un figlio non lo si ha. Poi lo si ha. E si decide quali teorie, quali speculazioni, quali risvolti pratici, quali tagli decisionali dare alla propria vita, dopo, solo dopo. Prima di avere un figlio tu sei tu, io sono io, lui non è. Poi tu sei tu ma, io sono io ma, lui è lui e basta. Quello che sei stato prima conta come conta quanto sia vero che i pipistrelli si attaccano ai capelli e che a calciobalilla la regola dice che non si può rullare. Quello che sei stato prima importa solo a te, poi. Prima di avere un figlio tutto è come sembra, poi anche. Solo che ti sembra diverso.
Prima di morire, di solito, si è vivi. Prima di morire si respira, si piscia, si mangia, si fanno progetti, si parla, si scrive, si legge, si comprano scarpe. Prima di morire ci si arrabbia, si fa rumore si cerca il silenzio. Si sollevano sedie, si suonano clacson. Dico spesso “non è morto nessuno”. Lo dico molte volte, si vede che ci credo. Lo dico a mia figlia per un’interrogazione mal riuscita, a mio marito per una bega di lavoro, alla fine di una gara se non c’è il podio, alla fine di un allenamento se i muscoli fanno male. Lo dico dopo una grande fatica, prima della notte, alla fine di un male e prima di una speranza. Lo dico a mia sorella che adesso ha male dappertutto, un male diffuso che la investe. Poi succede che muore qualcuno. Allora non posso dirlo e penso che non posso dire niente, sto in silenzio, zitta e ferma e forse si capisce. In silenzio sto e penso che prima di morire, di solito, si è vivi, si sentono i rumori, si sente il male in un punto, si sente il male che si allarga e poi non si sente più e si sente altro e che tutto l’altro è vita, è essere vivi. Prima di morire di solito si è vivi, poi non lo so perché non sono morta e non posso immaginarlo o pensarlo o provarci ma spero di essere abbastanza viva prima di morire, di non aver più paura di aver scritto dopo aver scritto. Poi non lo so, forse sarò solo in disparte a godermi il mio lungo silenzio.
Che mi piaccia come scrivi l’ho già detto, quindi non lo dico più (ci metto una spunta-bis).
A leggerti mi sembra come quando si apre la borsa di una donna (no, io non apro le borse delle donne, tassativamente no, ma le immagino così): tu credi ci sia disordine, e invece non hai capito, non vedi quel filo sottilissimo, quasi invisibile, che lega le cose insieme nell’ordine in cui devono stare.
E aggiungo che sarebbe ancora meglio sentirli leggere, i tuoi brani, perché si percepirebbe anche il tono.
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E’ quella cosa del “nel mio disordine trovo tutto”. Uno dei miei cavalli di battaglia. le mie borse erano templi inviolabili fino a qualche anno fa, adesso autorizzo qualche visita. tanto chi vede disordine vede solo quello, il filo non lo nota…
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Molto, molto bello, te lo scrivo anche qui perchè mi è proprio piaciuto
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