Ascolta, mi ci sono voluti quarant’anni per essere qui adesso. Gli ultimi venti solo per averne finalmente venti.
Il tempo di tornare indietro dall’aeroporto dove ti ho lasciato con il tuo zaino in spalle, la camicia bianca e le scarpe da barca. Bello. Il tempo di selezionare la musica su Spotify, la rotazione frequente, prima ancora del navigatore che non ho nemmeno avviato. Non mi perdo, non mi perdo più. Anzi, non ho più paura di perdermi. E se mi perdo accosto e torno indietro. Ascolta, ero triste. Me ne sono accorta perché sentivo la musica ma non cantavo, niente, nemmeno una parola. Ho cambiato, ho messo un album di Ligabue.
“chissà chi sarai
lì sotto le tue creme
forse adesso lo sai”
A vent’anni mi innamoravo con Ligabue. Mi incazzavo e soffrivo con Vasco, mi curavo con Vecchioni. È sempre così.
Non ho cantato nemmeno quelle.
Sono tornata a casa, le ragazze dormivano ancora, il mare si deve essere accorto che sei partito perché era diverso o così mi è parso. I bambini dei vicini piangevano. Piangono sempre. Ricordi, ci siamo guardati negli occhi appena li abbiamo visti, tre maschi con stuolo di servitori al seguito, i primi due avranno quattro anni e sculettano beati in terrazzo con il pannolino. Non abbiamo capito da dove arrivano, mezzi italiani e mezzi spagnoli. Li sento parlare, dicono todos, siesta, adelante. Ho pensato che è troppo facile, lo spagnolo, che forse ci stanno prendendo in giro. Poi hanno detto vamos a la playa e ho capito che, si, ci stanno prendendo in giro.
Ho fatto colazione, latte di riso e frutta, non sto più mangiando i biscotti, so che te ne sei accorto perché mi prepari il piatto con la banana e le albicocche anche se non hai chiesto niente. È sempre la storia della pancia gonfia, della diastasi, dell’età, che ne so. È la storia di adesso, adesso non mangio più i biscotti, mai più. Poi vediamo.
Ho portato Justin fuori, per la pipì, per fare due passi. Ho guardato se vedevo il tuo aereo passare sopra la mia testa, come un pensiero che non afferri. Mi sono seduta al tavolino sotto le piante, al bar in spiaggia, quello dove ci sedevamo insieme uno accanto all’altra per vedere entrambi il mare. In genere ci sediamo uno di fronte all’altra, non qui, non davanti al mare. Ho ordinato un caffè, la cameriera mi ha chiesto “uno solo?”. Lei non si è accorta che sei partito. O la mia faccia indicava che avevo bisogno di almeno due caffè. O mi stava prendendo in giro complice di un complotto con i vicini. C’era una coppia seduta al tavolino accanto, avevano l’aria di due appena arrivati. Lei ha ordinato un latte freddo macchiato e una bottiglietta d’acqua frizzante fredda, lui un caffè, uno solo. Lui guardava il cellulare, lei anche. Lui ha alzato poi lo sguardo, quando è arrivato il caffè e ha detto “guardavo un breve ripasso delle regole da rispettare con il gommone, ma mi sembra tutta roba di buon senso”. Lei ha detto “ah, si, io invece leggevo una cosa sul linguaggio del corpo”. Erano seduti uno di fronte all’altra, nessuno dei due guardava il mare. Nessuno dei due guardavo l’altro. Ho preso il mio caffè e sono rimasta così, per un po’, a sentire i fatti loro, a pensare ai fatti miei.
È passato un aereo ma non so se era il tuo. L’ho salutato lo stesso, per scaramanzia. Comunque avrà portato qualcuno da qualche parte, comunque avrà tolto qualcuno da qualcosa, magari da un impiccio.Ho pensato che non basta mettere due persone vicine per farne qualcosa. Come non basta andare a capo per fare poesia.
io
e
te
Non è che viene fuori una poesia solo perché lo scrivo così.
Non è che basta. Non è che basta mettere due persone lontane per non farne più qualcosa.
io
e
Te
Ascolta, se lo leggo io, io sono io. Resto io.
Se lo leggi tu, io divento te.
Ascolta, non è che se tu parti resto io e basta. Non è che basta che parti.
Ho pagato il caffè, uno solo, e sono tornata a casa, il pensiero forse lo avevo afferrato.
Ascolta, mi ci sono voluti quarant’anni per avere questa faccia che forse necessita di due caffè. E non ti dirò quella cosa che ho una faccia sola, non è vero. So dissimulare, sorridere se serve, assumere un’aria severa. È la mia faccia, so cosa farle fare. Ho la faccia che si adegua. Mi ci sono voluti quarant’anni per avere questa faccia, la faccia che fa quello che voglio che faccia. È l’anima dietro la faccia, quella è una sola. È la persona raccontata da questa faccia e non da un’altra, quella è una sola. Quel racconto è uno solo. La mia faccia non si è accorta che sei partito, non le è stata data l’informazione. Non abbassa la curva del sorriso, non posa lo sguardo su cose diverse, ride se c’è da ridere, anche se non c’è. Perché adesso, lì sotto le mie creme, so chi sono. Mi ci sono voluti quarant’anni per essere qui adesso. Per farmi leggere la faccia come un fondo di caffè. Per farmi leggere.
Mi ci sono voluti vent’anni, molti dei quali trascorsi sedendomi di fronte a te, per avere finalmente vent’anni. Per innamorarmi, sempre di te ma anche di me. Finalmente.
Il tempo di indossare l’abito colorato, quello che ti piace perché sembra un tuo quadro. Lui si è accorto che sei partito perché l’ho accarezzato prima di toglierlo dall’armadio. E dopo averlo messo su, come a consolarlo dell’assenza del tuo sguardo. Era meno colorato o così mi è parso. Lo indosso comunque, non è che basta che parti. Lo indosso e lo porto fuori, per queste strade, con questo vento che lo solleva, con questa faccia, con te che non è che basta che parti, magari basta per farmi smettere di cantare ma non per farmi smettere di ascoltare. Te. E me, finalmente.
Ascolta, sento persone che si sgretolano intorno a me. Sento persone che non reggono, non reggono più. Non riescono.E non so se ci abbiano mai provato a resistere. Se abbiano mai provato. C’è differenza tra sopportare e provare. È la stessa differenza che c’è tra stare seduti e camminare. Ascolta, a me sembra che non si cammini più. Si resta seduti senza guardarsi, senza guardare niente. Poi a un certo punto si alza lo sguardo dal nulla e si dice “non reggo più”. Si alza lo sguardo e non si sa più dove poggiarlo e non si sa più cosa guardare perché si cercavano regole di buon senso e segni di interpretazione del linguaggio del corpo invece di avere buon senso o cattivo senso purché fosse un senso, un senso vero, invece di usarlo il corpo che ad interpretarlo ci penseranno durate l’autopsia quando sarà troppo tardi per provare a non bastare mai, a non bastarsi mai. Ascolta, vedo persone che non so se mi stanno perdendo in giro. Forse si, spero di si.
io
e
Te
Non è che se vado a capo ho scritto una poesia. O il testo di una canzone. Non basta. È la stessa differenza che c’è tra sopportare e provare. Tra provare e riuscire. Non è che riuscire è una cosa che fai una volta e basta. Ri-uscire. Devi alzare il culo dalla sedia e uscire qualche volta per riuscire. Non è che basta restare per riuscire.
C’era il piano-bar ieri sera in quel ristorante, quello tutto bianco dove abbiamo detto che manco morti. Sono passata da lì mentre portavo Justin a fare pipì, cantavano Je so’ pazzo, quanto mi piace, soprattutto quando dice
Si se ‘ntosta ‘a nervatura
Metto a tutti ‘nfaccia o muro
Solo che il cantante aveva la cadenza sarda e ho pensato che no, manco morta, inascoltabile. Non è che basta cantare per riuscire a farlo.
Io
E
te.
Ascolta, mi ci sono voluti quarant’anni tutti per capire che riuscire significa entrare e uscire, andare e tornare, ogni volta. Mi ci sono voluti vent’anni, molti dei quali trascorsi a camminare accanto a te ma sulle mie gambe, per riuscire ad avere finalmente vent’anni.
Il tempo di aspettare giovedì per andare all’aeroporto, salutare le ragazze, lasciare qualche raccomandazione ai nonni, prendere l’aereo e non guardare giù, per scaramanzia, fare la faccia di chi ha tutto sotto controllo ma non è vero, lo sai e una volta atterrata arrivare da te canticchiando, vederti lì con la tua camicia bianca che accarezzerò sulla schiena mentre camminiamo uno accanto all’altra, per consolarla della mia assenza e poi salire in macchina, il tempo di selezionare la musica su Spotify che poi tu spegnerai, lo so, per ascoltarci, senza paura di perderci, l’abbiamo già fatto e siamo riusciti. Ad accostare. A tornare indietro, ad andare avanti. Belli. O così mi pare.