Il libro “Non ti muovere”della Mazzantini, nell’edizione I Miti della Mondadori comprato al supermercato nell’estate del 2003, era agosto, costava € 4,90 , c’era lo sconto del 15% e l’indicazione del prezzo anche, ancora, in Lire. L’ho letto in una notte, piangendo, sottolineando, sfregandolo, allontanandolo, stringendolo e morendo insieme a lei, Italia. Io sono stata Italia. In quel momento della mia vita ero Italia. Io sono Italia. Con la vita così, fatta di piccoli segni che mi vengono a cercare. Io sono Gramigna, l’erba cattiva che non muore mai. Io sono già morta e rinata o qualcosa di simile. Io ho gli anni che dimostro. Oggi che vivo come Elsa io sono anche, ancora, Italia.
Quell’uomo che mi ha lasciata. Perché ero una “Ferrari fucsia”. Tutti vogliono una Ferrari, ma chi ha il coraggio di guidare una Ferrari fucsia, diceva. Quell’uomo che io ho lasciato perché aveva paura. Di me, di non saper stare con me. Della velocità. Perché non aveva coraggio e senza coraggio non è amore, è solo una parola.
La prima volta che Pepe si è allacciata le scarpe da sola, ha fatto il nodo e mi ha chiamata a vedere. La prima volta che Pepe ha districato da sola un nodo spesso tra i suoi capelli e mi ha chiamata a vedere. L’ultima volta che Pepe mi ha stretto la mano facendo un nodo perfetto con le nostre dita e ha sciolto un nodo spesso che avevamo, entrambe, in gola e ci siamo guardate ed era la prima volta che non avevamo bisogno di vedere.
La notte del primo agosto 1995 e quell’amore che amo da quasi un quarto di secolo, sempre giovane e sempre uguale. Quell’amore che non sa più niente di me, nemmeno che ho fatto pace con quel bar vicino alla stazione a Milano, quello sull’angolo, dove ci siamo lasciati per davvero per non riprenderci ma più per davvero. E il binario per Torino adesso non fa più male.
La baguette di carta dipinta a mano nel febbraio del 2010 da Cristina. Il suo primo lavoretto all’asilo. L’abbiamo inserita a gennaio, a febbraio ci sembrava già che fosse la prima della classe nel fare quel capolavoro. A me, a me sembrava. A suo padre non fregava che fosse la prima della classe, anzi. Prova una naturale antipatia verso i primi. I miei lavoretti a scuola erano, sempre, delle merde irrimediabili. La baguette di Cristina è perfetta, da prima della classe nella sezione dei Girasoli, quelli con il grembiule giallo.
La pinzetta per le sopracciglia. Un salvavita. Sono una donna del Sud, abitano in me le anime del Vesuvio e dell’Etna, sono irrequieta e magmatica, discendente di popoli conquistati e conquistatori, di sibille ed eroi. Pelosi. Inutile negare. Senza la pinzetta per le sopracciglia non vado nemmeno a fare la spesa, in pratica.
La mattina del secondo scritto della maturità, la versione di Latino. Dormivo dai miei nonni materni, più vicini al mio liceo. Il giorno prima, quello del tema, mi ero alzata e avevo fatto colazione in silenzio, i miei zii vivevano già altrove, c’erano solo i nonni. Piano piano avevo preso il dizionario, la carta d’identità, l’astuccio con le penne, la sana paura e quel che sapevo di Pirandello e mi ero avviata al pullman, senza svegliare nessuno, come ero abituata a fare a casa mia. Il giorno dopo, la mattina della versione, mi ero alzata e stavo scendendo piano pianissimo la scala a chiocciola, dalla mansarda, per andare in cucina. Ero ancora sull’ultimo gradino quando alzando lo sguardo mi ero trovata il nonno davanti. Con la vestaglia da camera e le pantofole di pelle a coprire i suoi piedi piccoli, lui aveva i piedi piccoli per essere un uomo, non arrivava al 40 o al 41. Un attimo di spavento, la casa semibuia, la tensione che uscisse Seneca o Tacito, i suoi occhi verdi inaspettati. La mattina del secondo scritto della maturità e quello che ci siamo detti, io e lui che c’era rimasto male il giorno prima di non avermi salutata. Quello che ci siamo detti lui e io che c’ero rimasta male ad averlo svegliato. La mattina del secondo scritto della maturità è quel pizzicotto lieve fatto con le nocche dell’indice e del medio, un nodo dove si incastra il pollice, a sfiorare la guancia. La mia. E quel sussurro, quel dire “andrà bene,Ninni”. Ero io. La stessa frase me l’ha ripetuta tanti anni dopo, per un altro esame, dieci giorni prima di morire. L’esame non è andato bene e non sono più Ninni, ora, che nessuno mi chiama più così. Mi aveva salutata.
Mara. Che sa tutto. Che mi legge anche quando non scrivo.
Le foto ma non tutte. Alcune. Le foto di quando ero piccola ma solo un paio. Quella in braccio a mia madre nel giorno del mio primo compleanno, lei sa, quella dove siamo strette e lei sorride. L’ha scattata Marino, uno dei più cari amici dei miei genitori. Quelle, poche, nelle quali ho gli occhiali. Me li facevano togliere, per il riflesso, forse. Il risultato era che non vedevo, mi dicevano guarda qui e non vedevo e ho tutte le foto con un occhio chiuso, il sinistro, quello che non vedeva. O peggio, storto, girato verso l’interno, strabico ed esposto. Le foto scattate a Napoli, nel 2005. C’è lui dietro la macchina, c’è lui dietro ogni scatto. Le foto quelle delle quali so chi c’era dietro e cosa mi diceva e dove eravamo e se c’era vento o troppa gente o se avevamo mangiato bene. Le foto quando c’è qualcuno che amo dietro e vedo quello che vedeva. Le foto delle mie figlie, quelle che ho fatto io che sorrido mentre scatto perché non c’è niente di più bello da vedere.
Il ginecologo che mi dice che non si sente il battito. Perché non c’era più il battito. E mi prenota il raschiamento. Era agosto, nel suo studio di C.so Sebastopoli, anche fuori era agosto. “hai ventisette anni, sai quanti figli mi fai ancora a ventisette anni, dai su, uno su tre non nasce”.
L’altro ginecologo, quello che mi dice “le bebè est là”, era novembre nella sala ecografie dell’ospedale principessa Grace di Monaco, anche fuori era novembre. Le lacrime hanno lo stesso sapore, in agosto e a novembre. A Torino e a Montecarlo. Non avevo capito, guardavo lui, perché lui ha studiato francese, io no, io non capivo. Nemmeno lui capiva perché non sentiva perché guardava le mie lacrime e tratteneva le sue e se avesse potuto avrebbe fermato il sangue con le sue mani ma non poteva. L’altro ginecologo che ha schiacciato un bottone e ho sentito il cuore. Il bebè è qui. Avevo capito, che non sarebbe stato semplice. Ma nemmeno impossibile. Quel bebè ha compiuto dodici anni. In C.so Sebastopoli passo sempre malvolentieri.
Il carica batterie del cellulare, il quaderno verde e una scorta di penne, i miei cani, la carta d’imbarco per domani, lui che mi accompagna e mio padre che mi viene a prendere, in mezzo la paura di volare che è sempre e solo paura di cadere e c’entra sempre con entrambi, uno che mi lascia andare e l’altro che mi accoglie, uno che mi fa volare e l’altro che non mi fa cadere. Le mie due ragazze oltre le porte scorrevoli, i piedi per terra, gli abbracci che sembrano intrecci e invece sciolgono tutti i nodi.
Il semaforo di C.so Vittorio verso c.so Ferrucci, fuori dal Tribunale. Al termine di una giornata dolorosa per me quando ho rinunciato a un progetto, quando ho capito che era finito un percorso e sapevo che non ci avrei fatto pace, era ottobre. Lui lì mi ha detto ti amo per la prima volta, solo per questo ho fatto pace con quel luogo, mentre mi riportava a casa dalle nostre figlie, lui che non l’aveva mai detto prima, non con le parole ma in tutti gli altri modi possibili. Sul suo cellulare il mio numero è salvato come Ninni, da quando io ero come la gramigna nella sua vita. E lui ha avuto anche, ancora,coraggio. Il colore dell’auto che ha scelto, per farmi una sorpresa. Perché io ho anche, ancora,coraggio.