Pare che la vergine sia il segno favorito del 2020. Me l’ha detto lui, mio marito, la sera del 30 dicembre, in montagna, mi stavo asciugando i capelli e lui dal salotto, davanti alla tv, mi ha urlato che l’anno nuovo sarebbe stato il mio anno. Io faccio sempre la doccia dopo cena, da sempre, da quando vivevo con i miei e andavo a scuola. La doccia di sera, lo shampoo, significano che la giornata è finita. Alcuni preferiscono farla di mattino, invece, dicono che così hanno la carica per uscire. Solo quando vado in palestra derogo, ma mi asciugo in fretta perché devo tornare in ufficio, ho fretta e non è rilassante. Ho conosciuto una ragazza, Giuli, che scriveva oroscopi, anni fa, subito dopo la laurea e non ne sapeva niente di astrologia però, diceva, dava maggiori possibilità ai segni di sua madre, della sua amica del cuore, del fidanzato. Forse anch’io li scriverei così e alla bilancia non darei speranze perché ho difficoltà con quelli della bilancia, sarà la vicinanza, come tra siciliani e calabresi, mio nonno non parlava bene dei calabresi ma nemmeno dei catanesi, perché era palermitano e forse i palermitani parlano bene solo dei palermitani ma almeno era del capricorno. Invece la buona sorte la distribuirei tutta tra il toro e lo scorpione, il toro perché le persone che amo di più, da sempre, da quando vivevo con i miei e andavo a scuola, sono del toro e lo scorpione solo perché mi sembra onesto già nel nome- sono uno scorpione è nella mia natura pungere. Quindi, alla luce di cosa mi ha detto lei, Giuli, la notizia che aspettavo da almeno un decennio, che la vergine finalmente se la vedrà girare bene, non ha sortito l’effetto bomba che avrebbe meritato, però il 3 gennaio mi sono arrivati due sms per avvisarmi che le pratiche per un rimborso richiesto a novembre sono state accettate.
C’è qualcuno di insistente che viene qui con la regolarità intestinale di un compagno della scuola materna di mia figlia che tutte le mattine alle 8.30 andava in bagno e poi chiamava la maestra Sabry per farsi pulire e con rigore calvinista solo per trovarsi tra le mie parole, poi fa spallucce perché non trova il nome. Vuole il suo nome o quello di qualcuno della sua banda, per sbraitare. Non lo scriverò mai quel nome per un semplice e unico motivo: non sono scema. Non lo ero nel 2019, nemmeno nel 2018. Nemmeno nel 2017. Nemmeno quando ancora vivevo con i mei e andavo a scuola, quindi: no. Non conto di essere scema nemmeno nel 2020. E, sorpresa, non diventerò nemmeno empatica. O compassionevole. O paziente. O pietosa, nel senso di dotata di pietas. Io potrei mettere, anzi, io vorrei mettere una targhetta al collo, al mio, a quello di tutti gli altri, ma fondamentalmente al mio, una targhetta che fornisca subito le indicazioni basilari, quelle ritenute essenziali. Non sarebbe tutto più semplice se avessimo, ciascuno, una targhetta così? Come la lista degli allergeni, come la composizione e le avvertenze di lavaggio, come le frasi di rischio sulle etichette dei prodotti chimici? Mica dei pipponi eterni, bastano informazioni schematiche, che arrivino subito a chi ci è di fronte e cerca di avvicinarsi. Ognuno dovrebbe scriversi la sua, con onestà, e invece a me sembra che abbiamo tutti un’etichetta addosso, scritta da altri con indicazioni non fornite da noi e che non siamo in grado di leggere perché ce l’abbiamo sulla fronte in un mondo privo di specchi. Come quel gioco in cui tu sei al centro della stanza, seduto, ti mettono una fascetta in testa con il nome di un animale, di una città, di un film, gli altri te lo mimano e tu devi indovinare e che finisce sempre con te che non indovini e gli altri che si sono agitati inutilmente.e dopo ti dicono che era facile. Io vorrei scrivermelo da sola e metterlo in vista, tipo una collana, ti avvicini e leggi : non cercare di muovermi a compassione perché mi irriteresti, non toccarmi mentre mi parli, non dirmi “non è vero” perchè sarebbe come darmi della bugiarda e poi perché è vero, se te lo dico è vero. Al massimo non ti piace, ma è vero.
E poi, in piccolo ma leggibile, scriverei cat. Moglie, dove cat.significa categoria.
Osservo la gente, sempre. Se sono in un locale, per strada, a scuola dalle ragazze, in palestra, ovunque, tranne che in ufficio da me perché lì sono da sola e allora osservo me e basta, io osservo e penso che le persone si possano suddividere in tre grandi categorie: madre (padre per uomini)- figlio/a- moglie (marito per uomini). E non c’entra con il fatto di essere sposati o di avere figli o di avere genitori viventi e funzionanti. C’entra con quello che si è. Con chi si è. Chi si è per davvero, chi si è quando nessuno guarda, quando nessuno ci guarda. Chi si è per il solo fatto di esistere, di respirare, di camminare per la strada, di dormire su un fianco o a pancia sotto, di fare la doccia il mattino o la sera. Chi sei. Chi sei? Io sono una moglie. Lo sono da sempre, da quando vivevo con i miei e andavo a scuola. Mio padre è un padre, per esempio. È proprio un padre, lo era prima che nascessimo io e i miei fratelli, lo era nella relazione con sua madre, che era una figlia, con tutti, una figlia piagnucolosa e a volte capricciosa che amava sentirsi dire che era brava e che stava facendo bene e poi era pure della bilancia.
Avevo un fidanzato, più di vent’anni fa ormai, aveva quasi sedici anni in più di me. È stato colpito dalla damnatio memoriae, so di averlo amato, anche, ma non so perchè. Non ricordo niente di buono, di davvero buono, o di brutto, di davvero brutto, accanto a lui eppure la nostra storia è andata avanti, in modo altalenante, per quasi tre anni. Lui era figlio. Io ero moglie. Due categorie che non dialogano, impossibile. Una moglie e un figlio non hanno niente da dirsi e forse niente da darsi. Lui aveva bisogno di essere accudito, io avevo progetti da condividere. Ho amato un uomo, prima e dopo questo fidanzato figlio, forse l’ho amato più dopo che prima, comunque, era un uomo della categoria padre. Voleva proteggermi, indirizzarmi, guidarmi, aiutarmi. Io volevo sentirmi libera e non mi ci sentivo, quando ho capito che lo stavo deludendo e che iniziava a scuotere la testa come faceva mio padre quando vivevo ancora con i miei e andavo a scuola allora mi è stato chiaro che no, nemmeno le categorie moglie -padre possono funzionare insieme.
Le categorie che hanno buone possibilità di convivenza sono: madre-figlio (padre-figlia, padre-figlio, madre-figlia nella variante arcobaleno), marito-moglie (marito-marito, moglie-moglie nella variante arcobaleno). Due figli insieme no, litigano, si fanno i dispetti, escono dalla relazione per cercare qualcuno che gli dia ragione e mentre escono lasciano aperta la porta e tante volte dalla porta aperta entra qualcuno e la relazione finisce. Comunque non è destinata a durare, due figli insieme non hanno futuro. Come padre e madre, troppa forza, troppa potenza, troppe regole e nessuno a cui farle rispettare, si passa all’imposizione, finiscono con implodere.
Ho un’amica, una brava ragazza. È una figlia di quarant’anni con un matrimonio riuscito, che conta più di un matrimonio felice, perché ha sposato un padre. Lei ogni tanto fa le cose di nascosto, lui fa finta di non accorgersene, lei dice una cosa o fa una cosa e lui la guarda ammirato come se fosse un progresso, un vanto per lui. Un’altra mia amica, lei è una madre. Non ha figli. Ma ha sposato un uomo figlio. A cena lei sceglie per lui, cioè, lui vorrebbe prendere i tagliolini 40 tuorli con i funghi porcini ma lei gli dice, no, è meglio che tu prenda un secondo, magari il carrè di vitello arrosto. E il dolce no. E poco vino. Niente amaro. Il caffè a quest’ora? Lui è felice. Io non potevo capirlo, non riuscivo a crederci. Poi ho iniziato a inserire ciascuno nella propria categoria e allora mi è stato chiaro. Soprattutto che non so farmi i fatti miei e poi che siamo ciò che siamo e che è molto più onesto dichiararlo subito, anche agli amici, anche a lavoro. Io vado volentieri a pranzo con la mia amica madre ma la posso sopportare a mala pena il tempo del pranzo proprio come con mia madre quando vivevo con i miei e andavo a scuola anche se mia madre è figlia. E infatti, io, le mie figlie le amo e le adoro ma non è che proprio sono una madre di quelle che useresti per descrivere una madre in un catalogo, ipotetico, di madri. Perché io faccio la madre ma la verità è che non lo sono. Mio marito è un marito. Non è figlio, non è padre. Non cerca di educarmi, di crescermi, non mi chiede se ho bisogno di qualcosa. Non cerca in me alibi, comprensione a tutti i costi, non teme il mio giudizio, anzi, me lo chiede perché sa che non è un giudizio ma solo un’opinione però è la mia ed è quella che trova più interessante, non si aspetta che io gli chieda se ha bisogno, preferisce fare la doccia il mattino così me la lascia libera la sera ma non per quello, lo preferisce per sé non per me. E poi è del toro e anche se non è palermitano non è calabrese, quindi per me siamo a posto così. Anche per il 2020.
Questa cosa dei padri-madri-figli-figlie-mariti-mogli mi sembra complicatissima. E inquietante, anche… Adesso mi sto lambiccando: ma allora cosa sono io?
Meglio la targhetta da appendersi al collo. Mi piace molto quella dei cani, a forma di osso. Sopra però non saprei ancora cosa metterci. Pensavo all’IBAN.
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l’iban è sempre una buona idea. dice molto e rivela poco.
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Hai ragione sulle categorie, però penso che si evolva nel tempo, non ci si fissi tutta la vita su una sola categoria. Qualcuno potrebbe pensare ad un’evoluzione positiva, altri magari la interpreteranno invece come una degenerazione, però si cambia, è un dato di fatto. Quanto ai segni zodiacali e agli oroscopi faccio una scelta selettiva: credo solo a quelli positivi e che parlano bene del sagittario! 😉
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Io penso che si cambi, si, anche che ci si evolva o che ci si involva, dipende. è come arrotolarsi e srotolarsi, dipende. Ma penso che ci sia un nocciolino duro di noi che non cambia mai e che ci ricorda chi siamo davvero, al netto dell’incarto e dello scarto.
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