Mi sono innamorata di Willie Peyote solo che lo chiamo Williecoyote ma anche Alexa la chiamo Siri e le chiedo scusa, dispiaciuta, perché nemmeno ce l’ho Siri. Anche Cristina la chiamo Pepe e Pepe la chiamo Cristina e alla fine, poi, le chiamo 1 e 2 secondo l’ordine di nascita, loro lo sanno e non se la prendono, come Alexa, anzi rispondono e sono talmente consapevoli della madre che si ritrovano o talmente autoironiche a causa della madre che si ritrovano che quando mi capita di non sapere con quale delle due sto parlando-si, mi capita- e chiedo “tu, tu chi sei?”  loro dicono 1 o 2.  Cioè, se lo dicono da sole. Questa cosa dei nomi mi sta trasformando in mio padre che mi chiama sempre Chiara come mia sorella e io mi offendo, mica come Alexa e gli dico acida “Sonia”. Lo so- risponde lui- è che mi confondo.

Non avevo idea di cosa fosse il peyote, poi lui me l’ha spiegato. Non lui Willie, lui intendo lui, quello di cui mi sono innamorata prima, che non avevo previsto succedesse e figuriamoci lui, proprio convinto che quella cosa, qualsiasi cosa fosse, finiva così come non stava iniziando nell’abitacolo di quell’auto bianca e me lo aveva proprio detto e io lo avevo proprio rassicurato, che stesse tranquillo. Quindi, no, non sapevo cosa fosse il peyote e nemmeno chi fosse Willie fino a una sera di qualche settimana fa, a cena, dopo cena in realtà perché noi abbiamo questa abitudine quando finiamo di mangiare, le ragazze si alzano, tolgono i loro piatti soprattutto 2 che è più diligente di 1, va detto, e io e lui restiamo seduti per finire ancora un bicchiere di vino, rosso, lui rompe le noci, me le passa e io le sgranocchio un po’ scomposta, con le ginocchia al petto o magari con i piedi allungati sulla sedia di 1 che è alla mia sinistra e chiacchieriamo così, senza un ordine del giorno per fare ordine nel giorno e capita che diciamo cose intelligenti, o che ci sembrano intelligenti, tanto siamo io e lui e ci può sembrare qualunque cosa ma se invece sono cazzate ce lo diciamo che sono cazzate, perché siamo io e lui e ci possiamo dire qualunque cosa.
Quella sera, la sera che intendo, io stavo dicendo qualcosa sul fatto che è inutile cercare scuse, ciascuno di noi è davvero solo quello che è quando è da solo. Comincio io, ho detto: quando sono sola, quando nessuno mi vede, io sono una che si distrae. Una che allunga la mano per spegnere la sveglia e girarsi dall’altra parte e non c’è per nessuno. Una che se ne fotte abbastanza degli altri e delle loro necessità. Una che spera sempre che la vita si riveli all’improvviso, come se stesse in disparte a organizzare qualcosa di strepitoso, un evento sorprendente e poi si palesa così, all’improvviso, perché la vita dovrà pur tener conto che ho sempre giocato secondo le regole e allora si, sono una che spera sempre in una ricompensa imprevista. Una che non si accorge se un bimbo è maschio o femmina ma che guarda tra le zampe di ogni cane che incontra e si corregge perché le verrebbe da dire e da scrivere gambe ma no, sono zampe. Quando nessuno mi vede e resto bloccata in tangenziale, nel traffico, almeno quattro sere a settimane dopo aver lasciato 1 in palestra, ascolto vecchie canzoni e penso a come si cambia per non morire e sento in fondo al cuore un suono di cemento e se resto bloccata a causa di un incidente spero sempre che non si sia fatto male nessuno e questo fa di me una brava persona e subito dopo penso che però, cazzo, poteva capitare nell’altra carreggiata che invece fila liscia e beata e questo fa di me una cattiva persona e quindi io, quando sono da sola, sono una persona media che ascolta vecchie canzoni e non ha paura di toccarti il cuore con le dita.

A quel punto lui mi ha chiesto “conosci Willie Peyote?”
No.
Ascoltalo.
Ma chi è? Uno di quei cantanti che piacciono alle ragazze? Ti ho appena detto che medito ascoltando la Mannoia e solo quella della Mannoia perché oltre non vado.
Ascoltalo.
Willicoyote?
Willie Peyote.
Non c’entra con il coyote?
No. Ma sai cos’è il peyote?
No.
Non sai cos’è il peyote?!
No. Dovrei saperlo?

E mi ha spiegato.
A me piace quando lui mi spiega le cose. Perché noi non siamo una coppia di quelle nelle quali c’è uno che sa, sempre, e l’altro che impara e basta. Non c’è uno che decodifica il mondo per l’altro e glielo rivende e allora questo pensa che il mondo abbia solo quella forma lì, quella rivenduta. Ne conosco diverse di coppie così che sono proprio coppie e non due persone che vivono insieme. Uno dei due è l’esperto della vita, dei meccanismi sottesi al funzionamento delle cose, di come gira il mondo, su quali rotaie, secondo quali leggi universali e l’altro è il discepolo o il fedele, dipende da quanto impara e da quanto invece gli basta credere. No, noi non siamo così, ecco perché mi piace quando, a volte, lui mi spiega delle cose, perché un po’ mi affido e mi faccio piccola ed è una sensazione nuova che assaporo per il tempo che dura, poco, il tempo di verificare, andare a controllare, approfondire e alla peggio girargli la spiegazione sull’etimologia delle parole che ha usato così da andare in pari con le informazioni trasmesse. No, noi non ci interpretiamo il mondo a vicenda, mai. Però sappiamo come la pensa l’altro, su tutto, anche senza chiedercelo e sappiamo cosa direbbe l’altro e spesso no, non è quello che diremmo o che diciamo. Sappiamo dell’altro come poggia lo sguardo e cosa restituisce di quel che raccoglie e non ci verrebbe più in mente di considerare la sua versione migliore. Lo abbiamo imparato, ci siamo arrivati. Anche noi siamo finiti nella trappola del “parla con le tue parole”. Credo che sia una delle recriminazioni più diffuse nelle storie matrimoniali, mi mancano le statistiche ufficiali ma sono quasi certa che tutti, tutti, ci siano cascati almeno una volta. A un certo punto succede che uno dei due dice “parla con le tue parole”-“queste non sono parole tue”. O peggio, che uno dei due se lo senta dire da altri, da terzi, genitori, fratelli, idioti di passaggio che si sentono nella posizione di entrare nella partita, una partita che non li riguarda, una partita per la quale all’inizio non hanno scelto una pedina, non hanno mai tirato i dadi, eppure entrano. A quel punto si resta fermi. Tutti. Se sei fortunato resti fermo un giro, come quando sei in prigione a Monopoli e aspetti, alla peggio paghi ed esci. Altrimenti, smonti tutto e ritiri, e pace per i terreni comprati e le costruzioni. A noi è successo ed è stato un casino. Come quando ti capitano più imprevisti che probabilità e poi io sono una che ha sempre grandi probabilità di imprevisti nella mia carreggiata, più che nelle altre. È che la vita sta facendo le cose in modo silenzioso, per non farmi accorgere della sorpresa che arriverà, lo so. Quando è successo noi ci siamo fermati un po’. Io ho ripreso la scatola con le istruzioni e le regole e ho costruito l’impossibile così da impedire a chiunque il soggiorno gratuito sulle mie caselle, tra i miei pensieri e sui miei coglioni.

Comunque da parte ho il cartoncino che mi consente di uscire di prigione gratis.

Mi sono innamorata di Willie Peyote anche se lo chiamo Willicoyote e se lo conoscessi me ne scuserei. Quando ti innamori di un cantante alla mia età è bellissimo. Io non sono mai stata una ragazzina svenevole da concerto, sono andata a quattro concerti in croce, due dei quali di Vasco, del quale ero certa che fosse lui innamorato di me perché scriveva tutte le canzoni per me, era evidente. E poi io ho sempre avuto gusti poco moderni, ascoltavo Battisti e Vecchioni. L’ultima volta che sono andata a un concerto del Professore era all’aperto, a Sportinia, il giorno di Ferragosto, ho persino preso la seggiovia della quale ho paura e mi sono seduta su un pratone lasciandomi pungere le gambe dai fili d’erba duri come aghi e accanto a me c’era un odore di salsiccia grigliata e lui aveva appena iniziato a cantare forse non lo sai ma pure questo è amore che lo so che si chiama Stranamore ma con i titoli mi confondo, come con i nomi e anche quando chiedo ad Alexa di mettermi una canzone faccio casino che persino lei si spazientisce, allora le dico, lo so, lo so Alexa, scusami, è che mi confondo. Alla fine del concerto di Vecchioni mi giro verso di lui, non Vecchioni, ma il lui di cui mi sono innamorata dopo Vecchioni ma prima di Willie e gli ho chiesto se potevo raggiungerlo sotto il palco, così, tipo una groupie e lui mi ha risposto che data l’età di entrambi, mia e del Prof, sembrava più un Groupon.
Quando ho compiuto 35 anni, qualche anno fa, gli ho chiesto di farmii innamorare. Di lui, di nuovo. Era estate, fine agosto, eravamo al mare, c’erano i nostri amici che avevano i figli a scuola con 1 e 2 e c’erano altri loro amici. I bambini giocavano scalzi e felici, noi eravamo rilassati di vermentino e abiti bianchi in riva al mare e durante una di queste cene l’amica della mia amica mi aveva raccontato che lei e suo marito, il secondo, si erano conosciuti da adulti, a 35 anni.
“Innamorarsi a 35 anni è bellissimo. Si è liberi qui “ e con l’indice batteva leggermente sulla fronte, appena sopra il naso. Non accanto alla tempia, che poteva sembrare altro. E poi mi aveva raccontato che la menopausa funziona più o meno così :” ti alzi una mattina che ti hanno trapiantato quella di un’altra”. Le avevo suggerito di provare a rivendere la questione a suo marito come sesso extraconiugale, “se è quella di un’altra si può tentare questa via”,  le avevo detto.

Avevamo riso di vermentino e abiti bianchi, di 35 anni e desideri. Tornando a casa gli avevo chiesto di farmi innamorare, di lui, di nuovo, ancora. Non volevo un altro, non avevo nemmeno tempo con due figlie e la professione. Ridevo.

Da quel momento invece, noi, io e lui siamo stati in bilico. Abbiamo iniziato un gioco al massacro per smettere di amarci invece di innamorarci di nuovo. Sono stata ferma, più di un turno, a volte, a volte la prigione mi è sembrata una benedizione, non ho giocato la carta per uscire, non ho pagato, ho scontato la mia pena sapendo di non essere completamente innocente e nemmeno totalmente colpevole. Ho lasciato che lui avanzasse, comprasse, vendesse, quando passava davanti alla mia casella mi giravo indifferente e disimparavo le sue parole e non gli dicevo più le mie, non spiegavo più l’etimologia, che si arrangiasse senza sapere da dove arriva e cosa significa davvero una parola, che pensasse che sono solo parole e non mezzi, veicoli, strumenti, bauli, conseguenze. Poi ho tirato fuori il manuale di istruzioni, ho chiuso le porte per non essere interrotta, ho controllato le regole. E ho ricominciato a giocare con lui. Che non giocava più da solo perché non si può giocare da soli, andava avanti e indietro ma non giocava più nemmeno lui. Ogni tanto diceva qualcosa allora io rispondevo e poi stavamo zitti e poi parlavamo insieme, uno sopra l’altro, allora ridevamo e dicevamo “prima tu”. Io allungavo le gambe o mi mettevo scomposta, come se fosse normale, lui comprava le noci prima che finissero quelle nel cesto di vimini dietro il tavolo, sul carrello vicino alla finestra. Io dicevo una cosa intelligente, lui una cazzata e poi il contrario. 1 e 2 camminavano senza far rumore, sapevano, che era un inizio e non andava interrotto, stavano così, sullo sfondo, ogni tanto una delle due diceva “mamma” e subito dopo “no, scusa, volevo dire papà, è che mi confondo”, soprattutto 2, che è più attenta di 1 a quel che succede, va detto. E lui era partito convinto, che quella cosa, qualunque cosa fosse, non poteva finire così, come una partita, per noia. E io non lo avevo rassicurato, non più. Ma mi ero innamorata di nuovo. E non avevo più 23 anni e nemmeno 35, ne avevo qualcuno di più ed era bellissimo. Innamorarsi alla mia età è bellissimo, si è liberi qui. Nel centro del petto, nelle orecchie. Alla base del collo. Lungo la linea tratteggiata delle clavicole, sulla punta del naso, in un punto preciso tra le scapole. Tra le dita dei piedi, nello spazio tra le cosce quando le unisci e non sfregano. Innamorarsi alla mia età è come avere un forte raffreddore, sai che passa, sai che non è grave ma se vuoi puoi fermarti un attimo, ti senti le ossa rotte ma hai gli occhi lucidi e sembri sempre commosso o stupito o entrambi, puoi dormire un po’ sul divano oppure puoi decidere di fare tutto lo stesso come se niente fosse. Non ti ferma ma ti cambia il gusto. Ne prendi atto, sai che c’è e continui la tua vita. E non ti confondi più, lo chiami con il suo nome. Oppure non lo chiami, sai che non serve. Quando si gira gli sorridi e tiri i dadi un’altra volta.

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