“Non devi fare altro che scrivere una frase sincera. Scrivi la frase più sincera che sai.”
Non usiamo una sveglia, una sveglia a forma di sveglia intendo, perché io ho un problema con il ticchettio delle lancette, mi manda fuori di testa. Non abbiamo mai pensato a una sveglia senza lancette, però, una di quelle che sono proprio sveglie, che le compri perché hai bisogno di una sveglia. Noi usiamo un vecchio cellulare solo per la funzione sveglia. Cioè, io. Perché lui usa me come sveglia, che non sono comunque a forma di sveglia. Questo telefonino, è un Blackberry nero d’annata, lo usiamo perché ha la suoneria della sveglia che va bene, non mi irrita. Quello in uso prima di questo, sempre un Blackberry ma bianco, aveva anche il suono delle onde e infatti avevo impostato quello, invece questo nero non ce l’ha ma abbiamo trovato un compromesso. Cioè, io, io l’ho trovato. Con me stessa e la mia soglia dell’irritazione bassa, bassissima, inesistente.
Una volta ho usato l’esempio del telefonino vecchio e del telefonino nuovo per spiegare come vedo io la differenza tra chi ha figli e chi non ne ha. Il telefonino vecchio è il genitore. Il telefonino nuovo non è genitore. Il telefonino nuovo fa un sacco di cose che con il telefonare c’entrano poco, è bello, tutto da scoprire, ha funzioni notevoli e prestazioni veloci. Quello vecchio fa foto di merda, se le fa. La memoria si riempie subito, devi sempre scegliere cosa cancellare e cosa tenere e ti accorgi di quanto poco importanti sono le cose che cancelli che, anzi, come hai fatto a conservarle così a lungo. Non prende ovunque ma prende dove non te l’aspetti. Ma soprattutto, il cellulare vecchio ha una batteria che non ti molla mai.
La persona a cui avevo tirato, in breve, questo pippone non aveva figli e subiva molto il fascino dei telefoni, mi avevano detto, che a me sembra folle innamorarsi di un apparecchio con la mela smangiucchiata impressa sopra, folle proprio. Ma io mi innamoro di borse monogrammate. E non ho sveglie perché il ticchettio mi manda ai matti, quindi non posso parlare della follia altrui.
Si, sono una di quelle stronze che ti dice che certe cose, se non hai figli, non puoi capirle. Perché lo penso, altrimenti non lo direi.
“Non preoccuparti. Hai sempre scritto e scriverai ancora. “
Che poi le persone più belle che conosco di figli non ne hanno. Le mie amiche storiche, quelle proprio mie, quelle che mi porto dietro ad ogni trasloco come il vocabolario di greco, quelle che si sa che sono le mie e che, nel caso, me le porto via, me le tengo io se ci dovessimo dividere le cose. Anche le amiche più recenti, quelle del pezzo di vita dedicato alla pratica dello shiatsu, quelle che sono così diverse da me che se ci fossimo incontrate in un bar una avrebbe tenuto la porta all’altra senza nemmeno guardarsi, appena un cenno di ringraziamento per educazione e che invece la sorte mi ha concesso di incontrare a un certo punto della mia vita, in un certo momento, che il semaforo era rosso in qualunque direzione io cercassi di andare e c’erano quei pensieri, quelli che non si dicono, che li avevo da poco infilati in un borsone e nascosti sotto il letto, come per fuggire ma senza mai andare, però ci andavo a dormire la sera e con la mano scivolavo appena sotto la rete del materasso e toccavo ed era lì, il borsone, i pensieri, quelli che non si possono dire e allora non li dici. Ma sai che li hai pensati, tu lo sai che li hai pensati e che se anche sei riuscita- come?– a infilarli in un borsone e a cacciarli lì sotto li hai pensati. Guardando la finestra spalancata al terzo piano di quel palazzo durante una riunione. Il pedale dell’acceleratore in auto. Le rotaie del tram in centro.
A me piacciono tanto le persone senza figli, tranne quello del telefonino con la mela smangiucchiata, perché penso che potrei dirglieli i pensieri, quelli, e che forse non giudicherebbero perché loro non possono immedesimarsi e questo è meglio, è meglio se certe cose non puoi capirle.
Certe cose che poi sono solo pensieri, mica hai fatto niente, però esistono lo stesso, solo che nessuno lo sa, anche se non le chiami, se non gli dai un nome, anche se non le dici.
“Non preoccuparti. Hai sempre scritto e scriverai ancora. Non devi fare altro che scrivere una frase sincera. Scrivi la frase più sincera che sai.”
A dividerci le cose, adesso, ci sarebbe da ridere. I libri li terrei quasi tutti io, è ovvio. Ed è ovvio perché io se immagino di dividerci le cose parto dai libri. Gli lascerei i suoi, quelli di Terzani sicuramente. Sarebbe un problema per quelli di medicina cinese e di taoismo e di filosofie orientali che ci fa incazzare ogni volta vedere che in libreria li mettono nel reparto “esoterismo”. Però lui è un uomo generoso, credo che molti me li lascerebbe e se li ricomprerebbe. I cani, i cani farei la matta per averli io, sul piccolo, il chihuahua blasonato e perfido nemmeno il minimo dubbio, è il figlio maschio che non ho avuto, prepotente e sbruffone ma anche il grande che è la sua ombra, che il mangiare lo vuole da lui, però è mio, sono andata a prenderlo una mattina di marzo dieci anni fa, mentre lui era a sciare, ho portato con me Cri e Pepe, lei aveva 7 mesi, e siamo arrivate in questa casa, una mezza cascina, dove avevano la cucciolata e lui era l’unico a pelo lungo tra dieci, i genitori a pelo corto e con le orecchie ben dritte e questo gli era uscito con un orecchio moscio e a pelo lungo, l’ho guardato e gli ho detto che lo sapevo come si sentiva a non assomigliare a nessuno e allora l’ho portato a casa nel trasportino del gatto e quella notte mentre lui piagnucolava fuori dalla porta della camera da letto e cagava in corridoio e mangiava il tappetino della cucina, quella notte non l’ho mica sfiorato il borsone dei pensieri che non si dicono ed era la prima volta, anche se il borsone l’avevo appena messo lì e non avevo ancora finito di riempirlo, ero ancora nel pieno anzi, però io quella notte non l’ho toccato e ho dormito come un bambino quando la storia finisce e si spegne la luce e tutto va bene.
Le mie foto da giovane gliele lascerei tutte, così mi ricorderebbe sempre bellissima e starebbe male perché la bellezza fa male. Cioè, a me fa male. La mia, quella passata.
Il vocabolario di greco via con me, per carità, subito. Perché ci pratico la divinazione dal 1995 e forse non avrei dovuto dirlo, però lui è il mio oracolo non potrei separarmene, io chiedo e il vocabolario risponde e tante volte non devo nemmeno interpretare troppo, tante volte è preciso e sintetico. Per esempio quando gli ho chiesto della storia con lui mi ha garantito che non avremo mai diviso nulla se non la sorte, buona o cattiva che fosse.
“Non devi fare altro che scrivere una frase sincera. Scrivi la frase più sincera che sai.”
Mi sono accorta che si stava svegliando, ormai lo so, lo sento. Dal rimestare nelle viscere, le mie, anche se quello arriva per ultimo. Prima c’è il rumore sordo, che bello dire di un rumore che è sordo, si dice anche del dolore ma io non riesco, non per il mio, a me capita più il dolore muto. E lo stiracchiarsi lento, quasi indolente. Il lupo. Quello che mi vive dietro lo sterno, quello che sta nella gabbia toracica senza impazzire per il rumore del cuore, senza protestare ogni volta che prendo aria e butto fuori aria e prendo aria e butto fuori aria, resta lì e aspetta, dorme, aspetta. Mi sono accorta che si stava svegliando e non ho fatto niente per lasciarlo dormire, anzi. E così sono giorni e giorni, notti e notti in realtà, perché il lupo che mi vive dietro lo sterno preferisce la notte, che gira indisturbato e scava, annusa, ulula, fa quello che fanno i lupi, ma non quello che raccontano le pecore o i pastori, quello che davvero fanno i lupi. Lascia impronte. Cerca cibo. Aspetta ieratico e non si lascia avvicinare.
Il lupo che mi vive dietro lo sterno non mi farebbe mai del male, io non lo sapevo una volta, adesso lo so. E quando non dormo di notte gli parlo, gli racconto storie che conosce e che lo fanno addormentare, invece quando dormo di notte è lui che veglia, aspetta che io mi addormenti. Quando sono esausta io lascio che si svegli e che vada in giro.
Son cose che a dirle in giro ti prendono per matta ma secondo me è pieno di gente che ha un lupo dietro lo sterno o chissà cosa e non lo dice. Ma non è che se non lo dici il lupo o chissà cosa non esiste. Esiste, anche se non lo dici.
“Non preoccuparti. Hai sempre scritto e scriverai ancora. “
Sposo le cause altrui sul lavoro e poi mi incazzo. Mi fa incazzare la mancanza di reciprocità, nella vita non solo sul lavoro.
Mi fanno incazzare un sacco di cose e poche persone comunque sempre per gli stessi motivi.
Blocco. Sui social come nella vita reale, ho bloccato anche dei ragazzini perché colpevoli di essere figli di quei genitori. Si, sono una di quelle stronze che pensano che no, le querce non fanno limoni. E comunque ai ragazzini i profili sui social andrebbero aperti chiusi. Che bello dire che devi aprire chiuso qualcosa. Faccio il dito medio se ti vedo in mezzo alla strada e non ho cazzi di vederti, purtroppo con una mano sola se l’altra è impegnata a tenere una delle mie borse monogrammate.
Sono morta, qualche volta. L’ultima è stato di notte, che nessuno se n’è accorto, solo il lupo. Il giorno dopo ero viva ma nessuno se n’è accorto, solo il lupo.
Non sono empatica. Mio marito ultimamente dice spesso “mi fa tenerezza” riferito a qualcuno o qualcosa verso il quale io contestualmente dico “mi fa incazzare”. La sua strada verso l’illuminazione sarà molto più veloce della mia, ma non sono invidiosa, che vada, se ci dovessimo dividere la buddità la prenderebbe tutta lui, Io non ci riesco proprio a non incazzarmi. Ogni tot tempo devo buttare giù, demolire, bruciare e poi vedere cosa rinasce spontaneamente. Rivolto il terreno, tutto. Poi aspetto. Quello che spunta lo curo, il resto non ci provo nemmeno a ripiantarlo. Non credo nella famiglia come istituzione sana e positiva, penso sia la culla di ogni male, quello per cui dobbiamo preoccuparci e occuparci di avere un borsone sotto il letto e cose da non dire come se a non dirle non esistessero. Quello per cui devi sperare di avere un lupo che vive dietro lo sterno e che resti svegli al posto tuo.
Quello per cui dici, altrimenti non potresti più pensare.
“Non preoccuparti. Hai sempre scritto e scriverai ancora. Non devi fare altro che scrivere una frase sincera. Scrivi la frase più sincera che sai.”
Bella la metafora dei telefonini, ma secondo me potrebbe funzionare anche con genitori all’antica e genitori moderni. I vecchi telefonini telefonavano e lo facevano benissimo. Questi nuovi sanno fare un sacco di altre cose, ma rischiano di far male quella principale…..
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