Metti che

 

Ho passato il pomeriggio sul divano, dalle 14.30 circa. Prima ho steso, poi fatto pipì tre volte, mangiato una fetta di melone e preso un caffè, uno solo. Ho bevuto quasi un litro d’acqua, ogni volta che bevo un sorso penso all’ecografista che risponde “per sempre” alla mia domanda. Sabbia. La sabbia chiama acqua ma questo già l’ho detto da qualche altra parte. Penso anche a Stefano, che mi allena e mi dice sempre che mi vede bene, io mi vedo da schifo certi giorni, tipo ieri. Ieri era tutto uno schifo allora gliel’ho detto e lui mi ha detto che invece no. Penso a lui perché anche lui mi dice di bere, per combattere la ritenzione liquida e io sono una guerriera. Acqua chiama acqua. Stefano mi piace, infatti parlando di lui lo chiamo Stefanino ma lui non lo sa. Io non uso mai diminutivi, quasi mai. E mi piace anche uno degli istruttori di Cri perché è davvero un bravo ragazzo solo che non ha un nome facile da vezzeggiare. Mi piacciono i ragazzi per bene, quelli educati, simpatici, mai eccessivi. Mi piacciono quelli che no, non mi sarebbero mai piaciuti alla loro età.

Le ragazze sono andate in montagna con il papà, fino a domani. In un posto dove io non vado perché per carità. Dico sempre che se devo pulire pulisco a casa mia, non a casa di altri, anche se tra questi altri c’è lui, sono gli altri altri che figuriamoci. Allora gli do le lenzuola pulite, nostre, loro vanno su, si montano i letti, il padre le porta a cena fuori poi fanno due passi mentre lui fuma un pezzo di sigaro e loro blaterano cose, magari si dicono quelle robacce che si dicono tra loro, Pepe dice “ti scasso di botte”, sembra affiliata ai Savastano, ha pure quel tono. Cri però la provoca. Insomma, ci sono i futili motivi ma c’è anche, sempre, l’istigazione.

Ho finito di leggere un libro, ne devo iniziare un altro, il protagonista è quel figo di Contrera, la storia è ambientata qui a Torino e mi piacciono molto i romanzi ambientati a Torino, mi sembra di sapermi muovere meglio al loro interno, mi sento un po’ di Torino io che non sono di nessun luogo, in fondo, come tutti i figli di matrimoni misti lontani da casa per chi ha un posto da chiamare casa. Io potrei andare via domani, ora no. Ora sono sul divano e intendo restarci.

Non sto male, non sono malata. Non ho l’influenza, solo sto sul divano e fisso il quadro davanti a me. Mi giro sul fianco e guardo i titoli di Sky Tg 24 che scorrono, la giornalista è senza audio, muove le labbra, parte il servizio. Durante la quarantena, nel fine settimana, ascoltavo la conferenza stampa degli assessori della Regione Lombardia perché la voce di quell’assessore, quello che non ne azzecca una, ecco la sua voce mi faceva addormentare bene, davvero. Aspettavo che dicesse, l’ha sempre detto: “il bollettino di Regione Lombardia” invece che il bollettino della Regione Lombardia. Secondo me è corretto l’uso della preposizione articolata e invece lui niente, sicuro di sé con questo “di Regione Lombardia”. Era il segnale, come un ipnotista, Dio, non so se poi è vero che gli ipnotisti usano la parola speciale per ipnotizzare però nei film mi sembra che vada così.

Ho ucciso una zanzara che mi ha martoriata. Le odio, maledette. Quando ero piccola non mi pungevano mai, mia madre mi diceva che avevo il sangue amaro, mio fratello invece era un bersaglio facile, ma lui aveva il sangue dolce. O buono. Non ricordo. Mi è cambiato il sangue o le zanzare sono meno schizzinose, penso sia più una cosa di adattamento loro comunque che una cosa mia. Prima il rumore e poi il prurito. Ho pensato di scrivere che ho passato il pomeriggio sul divano e poi mi sono immaginata un paio di facce che si deformavano dal disgusto e allora mi sono detta no, Sonia, lascia perdere. Poi le ho immaginate meglio e mi sono detta, si Sonia, scrivilo. Tanto non importa. Cioè, in fondo, per davvero, a quelle facce mica importa. Resteranno fermi alle lenzuola. Entrano sempre dallo stesso post, anche se gli scrivi suca nel titolo (si, l’ho fatto) mica la capiscono, solo per trovare appigli.

Sono sul divano, non potete attaccarvi a nulla Se volete c’è il bracciolo. O vi lancio il telecomando. C’è anche il lupo. Comunque. Quello dietro lo sterno, è sveglio, sveglissimo. Stiamo patteggiando.

Lui le ha portate via perché lo sa quando io ho bisogno di silenzio e solitudine che poi solitudine magari perché qui dentro, nella mia testa, siamo tanti. Dalla chiusura della scuola si contano sulle dita di una mano i momenti che ho trascorso senza la  presenza delle ragazze, sono abbastanza stanca. Per me è faticoso, più che per altri. Perché io posso stare sul divano in silenzio anche per giorni.

Loro no. Loro mi vogliono. Mi vogliono raccontare le cose, mi vogliono vedere, mi vogliono toccare. Mi stanno toccando moltissimo, più del solito, a volte penso che mi credano irreale, a volte mi sento irreale. Pepe mi ha mandato già un video e due messaggi, Cri un messaggio e una foto, mi hanno chiamata una volta sola. Mi sono semiseduta sul divano, con un cuscino dietro la schiena, mi hanno chiesto dei cani. Volevano sapere e allora ho raccontato che il piccolo stava sporcando in camera di Cri con fare prepotente e il grande si mangiava le unghie della zampa destra e solo una delle due era vera, l’altra era una cosa inventata. Mi sono alzata anche per dare da mangiare al grande, è vero. Solo che non mangia, se non c’è lui, il suo padrone. Lo capisco. Nemmeno io mangerei ma poi lui mi chiede se ho mangiato perchè sa che non mangerei allora mangio solo per non dirgli una bugia. Le mie figlie mi costringono a ritmi che non avrei, forse mi hanno salvata dal randagismo obbligandomi a occuparmi di preparare pranzi e cene ad orari fissi. Ho preso una terrina con dell’insalata, ci ho buttato sopra dei semi di girasole, niente sale perché sono una guerriera vera, e un po’ di feta, la mangio solo io in famiglia la feta, a volte ci penso, cioè prima sul divano ci pensavo, che le famiglie sono quei posti dove si sa cosa mangiano gli altri e cosa non mangiano. Mio fratello non mangiava l’Emmenthal da piccolo, guai. Solo io e mio padre. Io niente fontina, per carità, la morte. A mia madre si, piaceva.

Mio marito non mangia i cetrioli e nemmeno le olive. Io e le ragazze ne andiamo matte. Lui mangia il cavolfiore, i broccoli e l’insalata ma solo da quando sta con me. Io mangio gli gnocchi ma solo da quando sto con lui. Se mia nonna resuscitasse con le certezze con le quali è morta, per me non li preparerebbe, guai. Ma era quella famiglia lì. Adesso è questa.

Ho letto che in media viviamo circa 30.000 giorni. Io ho passato la metà. Ho sentito una fitta dolorosa, una fitta di fretta, di rimpianto. Ho letto che in uno studio condotto da due psicologi americani sul tema del rimpianto risulta che al primo posto ci sia il livello di istruzione. La gente rimpiange di non aver studiato o di non aver fatto gli studi che voleva per diversi motivi. Mi ci trovo.

Ho pensato, poi, sempre guardando il quadro che l’adolescenza è come studiare giurisprudenza: non hai la più pallida idea di cosa stai andando a fare, pensi sia una roba fighissima e invece ti trovi a imparare un sacco di regole senza capirne il senso e poi ci sono le deroghe e poi ci sono le fonti e la gerarchia rigida tra queste. Io sono stata una pessima adolescente e adesso un po’ la temo questa seconda ondata di adolescenza che si abbatte in casa mia, portata a spalle dalle ragazze, sbattuta come una porta, di durata incerta, come giurisprudenza, appunto.

I figli ti fregano così. Ti danno orari e regole, in cambio anche tu dovrai dargli orari e regole, gli racconti cose di te, sperando siano da esempio e ti accorgi che fai esempi del cazzo e che a loro dà fastidio che tu dica certe cose. Pepe ha notato che io dico sempre “metti che…” e le dà noia, a volte, non sempre, dipende.

Metti che viene a piovere? Portati il cappello.

Metti che sudi molto dopo il singolo, portati un’altra maglia per giocare il doppio.

Metti che finisci l’acqua, tieni sempre almeno cinque euro in tasca.

Ti fregano così, che ti impediscono di dimenticare, anzi, ti obbligano a ricordare e poi capita che si sveglino anche i lupi.

La settimana scorsa, venerdì, un ragazzo- si può ancora dire ragazzo a 37 anni?- mi ha chiesto com’è essere una mamma. Così. Come avrebbe potuto chiedermi se con il cambio automatico mi trovo bene. Gli ho detto che non lo so, che essere mamma è una cosa strana che sei, che fai, che boh, che ecco se qualcuno mi chiama Cristina perchè si confonde  io mi giro lo stesso anche se mi chiamo Sonia, capito? Per me essere mamma è quello, che mi giro se chiamano il nome delle mie ragazze.

Avevo letto, tanto tempo fa, forse dieci anni fa, che Churchill aveva chiamato la sua depressione il Cane Nero.

In Monster & co a un certo punto, Mike Wazowsky rimprovera Sullivan perché dà un nome alla bambina, la chiama Boo e quando dai un nome a qualcosa vuol dire che ti stai affezionando. Dice una cosa del genere.

Il lupo dietro lo sterno vive lì da sempre, il nome me l’ha dato lui. Io l’ho solo riconosciuto e ho imparato a starci insieme senza farci, ancora, male. E no, lui non c’entra con il divano.

Mi sono alzata anche per chiudere i finestrini della macchina perché stamattina l’ha presa lui e li ha lasciati giù, ho pensato che se stanotte piove poi è un casino. Una volta aveva dimenticato aperta la finestra della mansarda nella casa dove abitava prima e si era allagato tutto, il parquet si era gonfiato, il tappeto ci aveva messo settimane per asciugare. Avevamo pensato, per un momento, di vivere lì, in quell’appartamento ma io non mi sentivo a mio agio, ci aveva vissuto con un’altra e non riuscivo a farmelo piacere. Una sera lui mi aveva detto di prendere quella casa come se fosse un suo difetto, non poteva fare diversamente. Ma poi ha preferito vivere a casa mia, penso gli piacesse l’idea del giardino per crescere il bambino che aspettavamo e che non è mai nato.

L’anno scorso mispiego poteva diventare un libro e ho rifiutato la proposta editoriale. Perché non era accettabile, anche se la casa editrice era tra quelle considerate serie, importanti, proprio per questo in realtà. Guardo un altro quadro, è meglio. Sto scrivendo qualcosa e pensavo di inserire per intero il testo di Milady, come se fosse un capitolo. In fondo lo è stato.

Sono andata dall’otorino in settimana, in sala d’attesa c’era una signora che si chiama Mariolina e non la conosco ma so che doveva comprare un armadio ed era in dubbio tra due annunci di Subito.it e perciò ha fatto diverse telefonate presentandosi ogni volta.  Ho pensato che voglio invecchiare al mare, con abiti larghi, tuniche, i capelli corti e bianchi, le mie collane e i miei bracciali a indicare il mio arrivo e quello del lupo, i cagnetti che mi camminano accanto, la mia risata che fa rumore così copre il latrato di certi giorni o il rumore delle onde o il rumore del vento.

Ho letto in un romanzo bellissimo ambientato a Torino che le donne piemontesi hanno le bocche di chi ha, fin da giovane, mal di denti. Anche certi nomi, certi nomi sono solo di certi posti, dove voglio andare io di Marioline non ce ne sono.

Ho guardato tante mamme, in giro, questa settimana. Le guardo sempre, da dietro gli occhiali scuri. Le guardo per capire se si sono pentite o se sono felici, se è solo un momento oppure no. Un mio amico aveva teorizzato il “coefficiente di disperazione familiare” siglato come CDF e aveva indicatori precisi, io mi sono specializzata nel CDM, il coefficiente di disperazione materna. Osservo come trattano i figli, se li guardano quando loro sono distratti oppure no, se approfittano della distrazione per guardare il cellulare. Io ho capito che potevo farcela quando mi sono accorta che restavo in un angolo ad osservarle mentre loro non lo sapevano. Sulla porta della classe della scuola materna, per esempio, c’era sempre quel momento in cui loro erano ancora assorte nel gioco o nel disegno  e non mi aspettavano, poi alzavano lo sguardo oppure un compagno le toccava- c’è tua mamma– e allora sorridevano da un orecchio all’altro e facevano gli occhi da asilo, così li aveva chiamati il padre che a volte si liberava da appuntamenti di lavoro per essere su quell’uscio alle sedici a prendersi lui gli occhi da asilo. Metti che poi smettono di farteli. Chissà, forse se le porta via ventiquattr’ore per quello, per qualcosa che gli somiglia, per avere il loro odore vicino, mischiato al suo sigaro, alla brace di qualcuno nei prati o per lasciare me e il lupo alle nostre occupazioni, a programmare la manciata di giorni che restano o solo le fatture da emettere la prossima settimana e gli incassi da verificare. Se le porta via per avermi lì, con lui, mentre ordinano al ristornante qualcosa che io no, non mangio ma loro si, per ridere della cameriera che dice zucchini e non zucchine e io odio quando dicono zucchini ma odio anche altre parole, come saporito o il nome Cecilia, si, mi dà fastidio. Se le porta via per poi dirmi che non smettono mai di parlare come se io non lo sapessi o non lo vivessi tutti i giorni, se le porta via perché è il solo modo di tornare, di farmi alzare dal divano per spalancare le finestre in camera loro e aspettarle, metti che poi mi mancano.

20160528_171018-1