Tra le cose che non so fare c’è piantare un ombrellone. Ne ho mentalmente preso nota, questo non significa che non ci proverò di nuovo anzi, ma ho segnato che no, non è roba mia. Soprattutto se manca la sabbia ma ci sono i sassi.
Il proprietario del chiosco mi ha chiesto se aspettavo mio marito, per il caffè, lunedi mattina. Anzi, non l’ha chiesto, mi ha detto “per il caffè, signora, aspettiamo suo marito”.
Eh, magari. Gli ho risposto. L’avrei anche aspettato con lui, io e lui, quel plurale presente, noi due ad aspettare per il caffè, guardando il mare e la spiaggia di sassi. Si può dire spiaggia di sassi? Non è come dire bistecca di seitan? Non succede quella cosa per cui il cervello crea un’immagine sulla base delle parole e poi però la realtà è diversa e tu non sai più cosa stai dicendo?
Eh, magari. Ma è tornato a Torino e il caffè lo prendo da sola, con il cagnetto. Sarà per quello il signora infilato ormai a metà di ogni frase. Quanti pezzi, signora, di focaccia? I sacchetti, signora, erano due o tre? Deve essere per il cagnetto, si. Per la beatitudine con cui lo porto in giro, arrogante lui innamorata io, deve essere per come parlo al cagnetto, dai su andiamo, dai su non farla lì, deve essere il tono con cui chiedo al proprietario di ogni cane se il suo è maschio o femmina, perché il mio è aggressivo con i maschi e pirla con le femmine. Deve essere la faccia a culo di gallina che metto su ogni volta che sento la frase “più sono piccoli più rompono”. Vale anche per le persone, sappiatelo.
Il caffè lo prendo da sola. Con il cagnetto. Lui è andato via, è tornato a Torino, io sono da sola con le ragazze. E il cagnetto. Tanto ho la fortuna di poter lavorare da qualunque posto, mi bastano la connessione internet e i miei files pieni di numeri, quindi posso stare qui, senza di lui, senza sabbia ma con i sassi, insieme alle ragazze e allo Scarabeo di Harry Potter e il taccuino su cui Pepe segna i punti. Stravinco e si offendono. Lui è andato via e io sono qui. Succede sempre e non mi piace mai. Dormo male, dormo meno. Parlo molto, di più, spesso male. Manca lui e mancano i silenzi che mi regala, con il pezzo di sigaro in bocca, spento, con lo sguardo posato su di me e poi però è su di noi e non sembra ma è così che siamo noi, che non sembra mai e poi invece. Non so piantare un ombrellone, soprattutto se manca la sabbia e ci sono i sassi.
Dopo dieci minuti di tentativi mi si è avvicinato un uomo. “Signora, l’ho vista in difficoltà. Posso aiutarla? ” Non l’ha messa in mezzo, la parola, il signora, è stato l’esordio. Ha cominciato la frase così, come una preghiera e poi era un aiuto e poi forse è così che si prega ma io non lo so, non lo so più, io non prego perché anche quella è tra le cose che non so fare. Un uomo che poteva essere mio padre ma non lo era, più pancia che capelli, un uomo come un prozio, uno di quelli che vedi ogni tanto, le domeniche quando sei piccola a casa dei nonni, al cimitero il giorno dei morti e poi non li vedi più, qualche matrimonio, qualche funerale. Ho uno zio così, che aveva un laboratorio di sartoria nel quale giravo tra macchine da cucire e assi da stiro senza capire come si potesse da un pezzo di tessuto ricavare qualcosa di completamente nuovo. Mi cantava sempre “ lo sai che i papaveri sono alti alti alti e tu sei piccolina sei nata paperina che cosa ci vuoi far” e intanto con le mani teneva le mie e mi faceva ruotare nella stanza. Mi ha rubato il naso strappandomelo con l’indice e il medio così tante volte che penso se lo sia tenuto, alla fine. Mi aveva cucito una mantella, il soprabito più bello che abbia mai avuto, se giravo da sola su me stessa faceva una ruota ampia e io lo facevo, in corridoio, prima di uscire con la mia mantella su misura per me, nata paperina.
Si. Grazie. Gentilissimo, davvero.
Il movimento è tutto in obliquo, non bisogna piantarlo come un gonfalone sulla luna, come la bandierina sul tee dopo aver mandato in buca, non è una vittoria, non è un contrassegno è qualcosa che deve essere più stabile, mica altro. Piantata l’asta in obliquo, tra i sassi, si deve compiere un movimento pelvico per qualche minuto facendo girare anche le mani e la base dell’ombrellone. È una rivoluzione e una rotazione, senza fretta ma non lenta. Man mano si tira su e poi si infila la parte superiore, senza andare troppo a fondo, non sono questioni di fondo, deve essere stabile ma non rigido, se vai troppo a fondo si blocca. E poi si apre e hai l’ombra, perché a quello serve un ombrellone piantato sulla sabbia e tra i sassi, comunque serve solo ad avere ombra. E poi ci metti dei pesi, alla base. I pesi vanno sempre alla base, ovvio. Così non vola via perché un ombrellone che vola via non serve più e poi può essere pericoloso, tu volevi solo un po’ di ombra e magari fai male a qualcuno, alla prima folata di vento se non sei stabile succede, che pensavi di no e poi invece.
Certo, avere quelle mani lì fa la differenza. Mani come arnesi, mani di chi ha il garage in ordine e sa travasare le piante e imbottigliare il vino. Un uomo che ha fatto i sacrifici, quella generazione ha fatto i sacrifici, quella generazione è convita di essere l’ultima ad averne fatti perché non vede che sono cambiati i sacrifici, non li riconosce. Un uomo che ha fatto studiare i figli, due, un maschio e una femmina. Una coppia, dice quella generazione, sono stati fortunati, hanno fatto la coppia. Anch’io ho la coppia, dico quando sento questa frase. Ho una coppia di femmine, coppia vuol dire due. Girano la testa e cambiano argomento, così fa quella generazione quando non capisce. Non dice mai che non ha capito. Anche i nipoti studiano, licei che non sanno cosa sono, non sono diplomi chiusi, quelli che li finisci e poi trovi il posto fisso per tutta la vita, come l’ombrellone dello stabilimento, quello non vola via, al massimo lo chiudi se tira troppo vento. Ha una nuora, ho immaginato, che non vuole venire in vacanza qui, in questa casa comprata con i sacrifici, con i soprammobili che non le piacciono. E ha un genero che è un coglione ma quello è. La moglie prepara da mangiare già il mattino e poi vanno al mare insieme fino a mezzogiorno e mezza. Lui fa una nuotata, ma sempre più vicino, non fino alla boa. Non nuota più verso l’orizzonte, adesso nuota in verticale come un pesce nell’acquario perché lei ha paura che lui si senta male e poi la vita diventa questo, che delle tue paure te ne fai niente e poi l’amore però diventa questo, che delle sue paure ti preoccupi.
Forse signora è dovuto al mio abbigliamento, ai miei caftani morbidi, ai pantaloni ampi come gonne, alla comodità del vestire, non uso nulla di attillato, niente che fasci che le fasce vanno bene per le ferite ma sulle cicatrici non servono più. O forse è dovuto alle macchie sul viso, quelle che vengono per il sole nonostante la protezione alta. Quest’anno ne ho una nuova, sulla fronte. Un’ombra tra i pensieri, sembra il test di Rorschach. Ci vedo mio padre. È grave?
Forse signora è dovuto al fatto che sono una signora con il cagnetto, il caftano ampio, delle macchie sulla pelle quarantennale senza grandi manutenzioni, due ragazze alte e slanciate che mi camminano accanto discutendo intorno alla validità della parola “Cho” a scarabeo perché pare che sia il nome o nomignolo di un personaggio secondario di Harry Potter ma Pepe contesta e accusa la sorella di non essere in grado nemmeno di formare una cazzo di parola- si proprio cazzo di parola- mentre lei si impegna e tira fuori omega o ideale e poi noi abbiamo questa cosa che giochiamo sempre con il regolamento aperto per controllare come si fa e poi però le regole ce le riadattiamo un po’ che alla fine possiamo giocare solo tra noi perché le regole generali si sono quelle ma non proprio e non è che agli altri puoi spiegare che se una regola non sai cosa significa o ti sembra sciocca allora non la usi e continui a giocare senza, una signora con dei files pieni di numeri in un portatile poggiato sul tavolo, un ombrellone che non sta su e allora si va allo stabilimento che facciamo prima e non chiediamo aiuto a nessuno e lui che è tornato a lavoro, lo fa sempre ma non è che uno si abitua solo per questo. E poi non mi fermo più sulla panchina, al tramonto. Non mi va senza di lui. La sua mano calda sul collo che sembra una carezza ma non esistono carezze che sembrano mani sul collo, è altro, è tornare a casa da un viaggio, aprire la porta e respirare l’odore di dentro, da dentro, il cagnetto seduto accanto a noi e la gente passa e lo guarda come se fosse strano vedere un cane seduto su una panchina e poi noi ridiamo e diciamo cosa guardate non lo vedete che non è un cane ma è un professore e non so perché lo diciamo ma è così e da sola non lo dico più perché non mi fa ridere, cioè un po’ mi fa sempre ridere ma solo perché immagino la sua voce mentre lo diciamo. E poi mi fa vedere che di là c’è la Francia e me la indica e io anche se lo so dico ah, si, è già la Francia e lui dice si, si e poi stiamo in silenzio finchè non arriva una canzone da un chioschetto e no, non la conosco, ma la suonavano quando lui aveva l’età di Cri e no, non era bello come Cri, aveva la pancia e la frangia e nessuna lo guardava, soprattutto la tedesca con il caschetto, quella che faceva fermare il luna park, proprio che fermavano le giostre quando arrivava lei e tutti lo sapevano che lei era destinata al più figo del gruppo che no, non era lui, era uno più grande e davvero figo, un maledetto che però non sapeva giocare a tennis e invece lui, lui si, con la frangia e la pancia scivolava via come un maledetto sul campo veloce, che ognuno ha la sua maledizione e il suo demone personale e lei una volta era andata a vederlo ma solo perché giocava contro il figo e aveva vinto, ovviamente, il figo l’aveva presa male e lui aveva passato la mano a sistemare la frangia e lei lo aveva guardato e poi niente, finisce così questa storia pazzesca, con lui che vince a tennis e l’altro che limona la tedesca.
E poi stiamo in silenzio di nuovo, sotto di noi la spiaggia di sassi. la Francia sempre lì, immobile. Due bambini si rincorrono in riva al mare, fratelli, maschio e femmina, una coppia. Lui un po’ più grande, lei ha i pantaloncini da maschio. La madre è seduta su un asciugamano, davanti a lei il mare e lui. Due canne da pesca piantate tra i sassi, chissà come si fa, se è più facile dell’ombrellone. La lenza che si muove, i bambini che gridano e si avvicinano, il figlio maschio tira su, piano piano che si spezza dice il padre che non sento ma so che lo dice perché è come la Francia, lo so. E tira fuori un pesce, per davvero. La madre saltella, sui sassi e scatta una foto con il cellulare, chissà a chi la manderà, robe di nonni. E tutti fanno una gran festa per il pesce tranne il pesce. E poi un attimo di silenzio che si ricomincia: si prende l’esca dal contenitore, puzza, si puzza bimba che tappi il naso e ridi contemporaneamente, il padre accosciato compie l’operazione, i tre in piedi che lo guardano, il maschio con le mani sulle cosce e la schiena appena curva, sembrano petali pronti a schiudersi e poi è il tramonto, non si schiudono al tramonto, eppure si schiudono. Perché non sono petali. Sono la Francia, sono un professore su una panchina, tedesche bellissime e brutti anatroccoli che invece erano cigni e allora il punto non è essere come gli altri ma sapere chi sei e poi se finisce che ami una paperina che cosa ci vuoi far, canne da pesca piantate come chiodi al centro di un muro, macchie che sono pensieri, persone.
Il movimento è preciso, pulito. Il braccio indietro e il lancio netto, un arco verso il mare. Centinaia di volte, forse migliaia, almeno millanta come diceva Cri da piccola. E ricomincia l’attesa e ricomincia la festa, adesso toccherà a lei, alla bambina, tirar su la lenza. È evidente. Da come saltella su una gamba e poi sull’altra, dal fatto che ha smesso di giocare con suo fratello perché lei aspetta così, non può distrarsi come lui che fa altro e poi lo chiamano quando il pesce ha già abboccato, no, lei il pesce lo sta incoraggiando, lo sta pregando perché sa farlo, sa come si fa e il padre le parla e lei annuisce e la madre è seduta sull’asciugamano e non guarda l’ora, e poi la lenza tira, è il momento e tutti in piedi e lei tira su, piano, piano che si spezza dice il padre ma lei lo sa perché lo ha sentito centinaia di volte, forse migliaia, almeno millanta e poi lo sa perché lo sa ed eccolo il suo pesce, la sua festa, le grida, il fratello che controlla se è più grosso, si lo è, si vede da qui, da questa panchina, da questi trentacinque anni che ci separano che potrebbero fare di voi i miei figli e invece no, che nella mia storia ero io la figlia e mi faceva schifo pescare perché dovevamo fare silenzio perché i pesci scappano con il rumore, perchè non toccare che fai casino, perché i vermi sono disgustosi e la macchina puzza per settimane, perché usi il mio secchiello per mettere i pesci e non ci sta il mare nel secchiello e se ci metti i pesci ci metti il mare perché nel mare ci sono i pesci e come la parte per il tutto ma giri la testa e non ascolti e non è come cambiare una regola è come non rispettarla e questo non si fa, e poi mi faceva schifo pescare perché tanto litigate e basta, è troppo tardi, non stanno fermi, si annoiano, vacci da solo, come fanno a stare zitti, non puoi schiacciare la testa ai vermi, molla il retino, siediti in macchina e aspetta, giocate a far finta di guidare, i pesci scappano.
E poi non mi fermo più, sulla panchina al tramonto. Perché lui non c’è, perché mi chiamano signora e pare che sia proprio così ormai, perché ho una macchia nuova sulla fronte, come un’ ombra, come un pensiero e vorrei dirle- dirgli- potevamo fare di meglio, potevamo fare casino, sai, potevamo ridere e sembrare un fiore che si schiude al tramonto che nessuno se lo aspetta, potevamo giocare cambiando le regole. E poi, sai, i pesci non scappano, i pesci dal mare non scappano mai.