Battaglie perse

A casa mia il bagno è in fondo al corridoio, né a destra né a sinistra solo in fondo sempre dritto. E ci sono le scale, per ogni volta che si scende poi dopo si sale. Pepe non vuole che io dica poi dopo, dice che è una ripetizione, ma sono la mamma, le mamme ripetono da contratto le rispondo io. Quale contratto?

-Quello che ci fanno firmare quando nascono i figli.

-Non c’è nessun contratto.

-Oh sì che c’è, non ci sono istruzioni ma c’è il contratto, è un contratto per adesione.

-Che significa?

-Che firmi e basta, non conti un cazzo, il genitore è il contraente debole.

-Fammelo vedere.

-Impossibile, si autodistrugge nel primo anno di vita, è una cosa segreta, la sanno solo i genitori, quindi mi raccomando fai finta di niente, tu.

-Mi stai prendendo in giro.

-No. Non più del solito.

Le ragazze non hanno ancora capito che ogni volta che salgono o scendono non devono farlo a mani vuote, c’è sempre qualcosa che da sopra va sotto o che da giù deve salire. La cesta della roba da lavare, per esempio. Le ciabatte sotto il divano, i vestiti puliti da riporre, il mio phon, il mio phon è da riportare giù porcaputtana. Poi dice che ripeto.

E ci sono peli di cane, ovunque, ma c’è anche il Dyson e la sua stazione di carica, tabernacolo della casa, il cuore della casa è la cucina diceva mia madre, no, è lo sgabuzzino dove prende energia lui, il più potente di tutti. Stacco il corpo centrale e uso l’accessorio lungo e stretto, lo monto come un’arma di precisione, fa anche lo scatto- clack– per gli insetti, ragni soprattutto, negli angoli delle stanze delle ragazze, chiamano da su:

-Mamma, sali

-Cosa c’è?

-Sali.

-Perché?

-Sali.

Salgo. C’è un insetto in un angolo, le ragazze, soprattutto Pepe, in un altro angolo. Come sul ring, manca il gong.

-Potevi dirmelo, così salivo già con il Dyson.

-Volevo fartelo vedere.

-Scendo e risalgo.

A Lui, marito, padre e sostenitore giainista di ogni forma di vita, non diciamo nulla di questa nostra pratica, lo scopre ora, scusami se puoi. Lui la cimice la incoraggia a volare fuori dalla finestra, il ragno lo raccoglie e lo accompagna in giardino, le api le adagia sui fiori per aiutarle nell’impollinazione. Io succhio tutti con il Dyson ciclonico, movimento max, velocità turbo. Sono una brutta persona, si, ma si tratta della mia sopravvivenza alle istanze piagnucolanti di mia figlia, la piccola.

C’è anche odore di cane, a casa mia. Lavo il pavimento, certo, cambio l’aria nelle stanze e poi io non lo sento nemmeno più ma penso che se qualcuno viene a trovarci magari lo sente. Poi penso che palle però, è casa mia, ho due cani, c’è odore di cane. Non venite se vi dà fastidio, tanto mi date fastidio anche voi, come diceva mia madre “se vieni a trovarmi mi fai contenta ma se non vieni mi fai felice”. Ho provato con i deodoranti per ambiente, quelli fighi, il boccettino di design con i bastoncini immersi nel liquido giallognolo, posizionati discretamente in punti seminascosti. Per ora regge solo quello in taverna, infognato dietro i libri di arte. Perché Lui ha una sensibilità ai profumi forti, gli viene mal di testa. Io non ci credo. Penso faccia scena, molta, ma devo sopravvivere anche in questo caso, non posso averlo che sale e scende, a mani vuote, lamentando questo odore troppo forte tutto insieme, invadente e fastidioso (l’odore, non Lui).

La grande, Cri, ha un senso dell’ordine che nessuno di noi in casa coglie, come le battute di alcuni comici che a me non fanno ridere, come la disponibilità quando ti viene rinfacciata.

-Ma per me è ordine.

-Ma per me no.

-Ma è camera mia.

-Lo so, te l’ho assegnata io.

-Io trovo tutto.

-E questo è bene ma ti rendi conto, solo questo chiedo, ti rendi conto che fa schifo qui, si? Che non è possibile avere tutti i libri di scuola per terra, tutti, aperti a ventaglio sul pavimento.

-Così li trovo subito quando inizia la lezione.

-E i libri sul letto?

-Quelli li sto leggendo.

-E i vestiti sulla sedia?

-Sono per stare in casa.

-E quelli sul letto?

-Sono puliti.

-Lo so, te li ho lavati io.

-E il borsone del karate aperto con le protezioni che spuntano fuori che fanno pure un po’ senso, questi para tibie con la forma del piede, sembrano arti che hai mozzato e messo nel borsone per occultarli?

-Lo lascio aperto così prende aria.

-E la mensola dietro il letto piena di cartacce?

-Non sono cartacce, sono i biglietti con i miei pensieri, poi li appendo al muro.

-E il libro di medicina legale che è mio, dell’Università?

-Mi serviva per capire le ferite da taglio.

-Non voglio sapere altro.

-Hai visto che lì ho messo la nostra foto insieme al mare il giorno che sei venuta a prendermi a windsurf e al tramonto ce la siamo scattata?

-Si, che bella. Che luce.

-Ma perché sei salita in camera mia?

-Boh, non ricordo. Quando scendi per cena porta giù le bottiglie vuote. Quella maglia è mia. Dio, Cri, quando andrai a vivere da sola non mi mancherai per niente.

-Sicura?

-Si.

-Non ci credo.

La gatta del vicino, la femmina, temevo per la sua vita quando ci siamo trasferiti, non mi sembrava un grande esordio suonargli e dirgli “ciao, scusa il disturbo, uno dei miei cani ha azzannato la tua gatta bianca, mi dispiace, se finisci il sale suona pure”. Il maschio, nero, è passato dal nostro giardino un paio di volte poi ha preferito cambiare strada, lei no. Bastardissima e furbissima, indifferente e superiore. Quando i cani sono in casa lei spadroneggia alle loro spalle, sculetta perculandoli, io la vedo dalla finestra mentre loro sono girati verso di me, guardano me, seguono me, si accucciano ai miei piedi, salgono se salgo e scendono se scendo. Intanto lei alle loro spalle continua a fare quel che vuole. Ho provato a farle sciò, sciò, battendo il piede o agitando la scopa, per sopravvivenza, la sua in questo caso. E comunque va lenta, se ne va ma con calma e se loro per caso abbaiano lei salta sul muretto e li fissa sbigottita da tanta acredine, resta immobile tra i due giardini, la coda che dondola e l’aria annoiata. Loro rientrano sbavanti, bevono e sgocciolano dalla cucina alla sala e dalla sala alla cucina, io impreco e ingiurio, prendo lo straccio e pulisco. La stronza ancora lì, che ci giudica tutti quanti.

A casa mia abbiamo un solo televisore, poi abbiamo i tablet e quel che serve per vedere Netflix altrove, però il televisore è uno solo. Abbiamo l’abbonamento a Sky, ogni mese ci diciamo che è un furto, ma poi Lui ha il tennis con Pepe che con Cri ha XFactor e registrano il resto e allora lo lasciamo. Io ho il notiziario, come sottofondo, mentre salgo e poi dopo-non si dice– scendo, mentre lavo il pavimento e rigiro il bastoncino profumato di nascosto-scusami– prima che Lui arrivi. Ogni tanto guardo qualcosa, un film o una serie, tutte cose che in linea di massima le ragazze non possono guardare perché dovrei spiegare troppe cose e si perde il senso di fermarmi un attimo e guardare, io, una cosa, oppure perché palesemente di non loro interesse. La mia autonomia di visione è 2 minuti. Poi c’è sempre un motivo, una questione, un insetto in un angolo, il passaggio di un momento per prendere una cosa dimenticata lì dove sono io- ora proprio ora-per cui devo mettere in pausa. Un programma di cinquanta minuti io lo guardo in una settimana, a spizzichi e bocconi diceva mia madre. E poi mi dicono che guardo sempre le stesse cose. No, guardo la stessa cosa in molto tempo.

Allora Pepe la risolve facile.

-Tanto ci vuoi bene lo stesso.

-Mica è in discussione il bene. Non è che se dico che siete rompicoglioni non vi voglio bene. Poi devo volervene da contratto

-Smettila con questo contratto, non c’è. Ci vuoi bene perché ci vuoi bene. Io te ne voglio di più.

-No, impossibile, da contratto le mamme ne vogliono di più.

-No io.

-No, io.

-Io di più.

-Basta, ho detto io, è il primo punto del contratto, in ogni caso il genitore si impegna a voler più bene al figlio di quanto il figlio possa mai voler bene al genitore. Al secondo punto c’è che il figlio rinuncia a indagare la vastità del bene che il genitore prova, tanto non riuscirebbe ad arrivarci, con la comprensione dico.  

-Perché?

-Perché è così, battaglie perse.

-Lo diceva tua madre.

-No, lo dice la tua.

Foto di Cri che, a breve, mi ruberà la maglietta.

Il giorno dopo

E il giorno dopo i marciapiedi saranno ancora quelli, lo sai? Ci hai mai pensato ai marciapiedi su cui cammini, sempre gli stessi nei tragitti quotidiani, il peso del corpo tutto in quei passi, alcuni giorni rapidi, altri giorni più lenti, i miei a volte gommati come la suola degli anfibi o squillanti sotto la punta dei tacchi. Anche il parcheggio, il posto che cerchi sempre, cerchiamo quasi tutti sempre lo stesso posto, dallo stesso lato della strada senza rendercene conto, anche il parcheggio sarà ancora quello e farà strano vederlo occupato da un’altra auto, ci hai mai pensato che quasi tutti occupiamo posti che non sono nostri?

Le fotografie nelle cornici e nella galleria del telefono diventeranno definitive, perché fino al giorno dopo, e quindi fino al giorno prima, le foto sono solo statiche, è dal giorno dopo che diventano definitive e non saranno più unità di misura del tempo, della felicità, conta delle presenze.

I messaggi e le mail assumeranno toni nuovi, profetici, in uno scambio di faccine si troverà quel che non c’era ma adesso c’è, non si cancellerà più niente, nessuna conversazione sarà considerata inutile dal giorno dopo. Nei cassetti gli appunti, i biglietti scritti a mano, non subito con intenzione, il giorno dopo è più un incidente, si inciampa nei pensieri buttati giù su post it mentre si cerca altro, qualcosa di utile a quel giorno, che è il giorno dopo. Quando inciampi, il giorno dopo, ti fai sempre male, più male di quanto avrebbe fatto fino a quel giorno.

La biancheria nei cassetti, appallottolata, il pigiama sotto il cuscino, gli abiti nel cesto della lavanderia, le calze appese sullo stendino senza molletta, vuote e sciatte. I libri sul comodino, i gioielli nel portagioie mischiati tra loro, la collana di bigiotteria con gli orecchini di rubino, la crema per le mani, mai usata, i campioncini di profumeria, mai aperti, utili da portare in viaggio, quello che poi non è stato prenotato.

Il cappotto e le borse, gli scontrini nelle tasche, il bancomat, il pin del bancomat, le credenziali di accesso, la password della casella di posta, la chiave della cassetta di sicurezza, il codice di sblocco del telefono. Il giorno dopo si cerca, si cerca altro, qualcosa di utile, un appiglio, una formula, un antidoto.

Il posto a tavola. Il portatovagliolo di quel colore. Il bagnoschiuma in doccia. I capelli incastrati nella spazzola, matassa che non si sbroglia più. Tra le setole dello spazzolino la saliva, l’ultimo bacio non sai mai che è l’ultimo. Le parole del mondo che cerca parole per dire qualcosa che non si può dire, il giorno dopo il mondo diventa un acquario di esseri che muovono la bocca senza che questo abbia senso.

La fede che non c’è. Il giorno dopo la cercherai, sai che ne vorresti un po’ per accettare e potendo la compreresti, anche solo una dose, per il conforto di un momento, per stordirti dopo tanto tempo.

Il cane sulla porta. Il giorno dopo ci sarà sempre qualcuno che dice del cane che lo sa, lo sente, ha capito, aspetterà inutilmente. La fede al dito, i genitori mutilati sotto il bombardamento, i figli sfollati in cerca di riparo, la fede al dito che ricorda chi sei, cosa è successo, che c’era un posto che chiamavi per nome. Il giorno dopo sarai il cane che aspetterà inutilmente ma tu non sai, non senti, non capisci.

E il giorno dopo il cielo non cambierà. La Terra girerà sempre allo stesso modo. La Luna sarà ancora un satellite.  La gravità ti terrà qui. Il giorno dopo non vorrai essere qui né altrove, non vorrai essere, ti baratteresti con un batterio, un essere infinitamente piccolo, non vorrai avere un corpo tutto intero con piedi caviglie polpacci ginocchia cosce anche bacino creste iliache addome visceri mani polsi braccia gomiti spalle costole clavicole collo cranio quanto pesa tutto questo? Perché bisogna portarselo appresso? I polmoni ancora si gonfiano, il cuore batte maleducato, le vescica si riempie e bisogna svuotarla, lo stomaco si lamenta perché te ne sei dimenticato.

Il lavoro fermo sulla scrivania, l’incredulità della gente, le lancette dell’orologio, gli effetti personali della sola persona al mondo capace di stupirti con effetti speciali, i giorni quelli normali, la vita tutta qui, le casse dell’acqua da portare su, la pattumiera da portare giù, la luce in corridoio, il volume del televisore, il pane a centrotavola, la porzione più piccola, quella che resta dopo aver servito tutti, va bene così davvero.

E il giorno dopo le finestre si apriranno ancora verso l’esterno, il maniglione antipanico sarà a spinta e gli ascensori avranno la targhetta della portata massima. Ci hai mai pensato che servirebbe anche a noi? Al centro del petto, con il numero per la manutenzione, per l’allarme in caso di blocco:

“Si pronto buongiorno, mi sono bloccato, si ho trasportato più di quel che potevo, è vero. Lo so, chiedo scusa, pensavo che non succedesse nulla invece è successo, potete mandare un operatore a sbloccarmi? La capienza quella no, è rispettata, sono solo, sono rimasto solo io a occupare tutti i posti, anche quello che non è mio.”

Le nostre figlie

Le nostre figlie sono vive, mi sembra che allora stiamo a posto così, questa settimana, questo mese, quest’anno. Va bene così, noi ci sediamo un attimo qui, in un angolo a smettere di far finta che sia scontato che non siano morte. Come il loro compagno dell’altra sezione. Ci fermiamo solo un momento, qui, se vi casca lo sguardo per terra ci trovate, ci guardiamo la punta dei piedi e cerchiamo il respiro.

Le ragazze non hanno avuto bisogno di spiegazioni particolari, sanno della morte da sempre, qualche anno fa sono venute al funerale di uno zio molto amato, hanno visto il padre piangere mentre le stringeva a sé nel tempio crematorio, le ha avvolte entrambe costringendole a una vicinanza tra loro due che in genere evitano e le teneva attaccate, come se fossero solo sue e loro sono rimaste per tutto il tempo che è servito a lui per andare e tornare e chiudere un giro, fare un saluto, sentirsi le gambe, sapere chi era. Qualche ora dopo mi ha detto “siamo gli unici che possono permettersi di portare i propri figli a un funerale. Brava, stai lavorando bene”. Erano di nuovo nostre, me le aveva restituite.

La botta è stata fare i conti con il fatto che sai della morte da sempre ma non sapevi che arriva sempre, a qualsiasi età, anche alla tua.

Pepe ha chiesto se hanno dato la notizia al telegiornale, perché un ragazzino che se ne va così, in pochi mesi, per una serie di cellule impazzite nel sangue è una notizia che al telegiornale va detta.

Cri ha partecipato all’incontro di preghiera su zoom, anche questo su zoom, tutto su zoom. Lo yoga e la veglia funebre.

Non se n’è andato in pochi mesi, è andato in un attimo, i pochi mesi sono quelli in cui le cellule hanno combinato il disastro di cui nessun organo di stampa ha riferito, ma la morte, quella, arriva sempre in un attimo.

Come la vita, penso. Non lo so. Lo penso. Io penso, penso sempre, penso e basta e non so mai niente. Tutto questo pensare e poi mai niente da sapere. Quando ero piccola a volte sembrava che avessi il broncio, il musone. Mio padre mi chiedeva sempre “So’ che hai?”-  Niente, dicevo io, penso -” E come pensi brutto, So’”.

Penso brutto, con il labbro superiore che sporge, me lo vedo sotto la punta del naso. Penso e non so niente.

Non so com’è che sono arrivate queste due, per esempio, proprio loro intendo, loro due e solo loro due. Ero una pessima studentessa di scienze,anatomia, biologia, zero. Mi sembra di ricordare che siamo, tutti, una combinazione sola tra miliardi di possibilità. L’ovulo e lo spermatozoo si incontrano, ciascuno porta quel che ha, la metà di quel che serve, e da quell’incontro nasce qualcuno, uno e uno solo, con determinate caratteristiche e senza altre caratteristiche che non erano nelle metà portate in dotazione dalle cellule, da quelle cellule.

Io mi ci amminchio con questi pensieri.

Non so nemmeno com’è che sono arrivata io, poteva essere chiunque altro. Uno spermatozoo più veloce, l’ovulo del mese prima. Gli occhi bovini di mia nonna, il neo sullo zigomo dell’altra. Gli occhi verdi di mio nonno, i capelli lisci dell’altro. Io sono io perché il mio spermatozoo è arrivato in anticipo, di sicuro, al solito mio. È arrivato, non c’era nessuno, è entrato per non aspettare. Eccomi qui. Il corredo a quel giro prevedeva occhi neri e malfunzionanti. Capelli sottili e denti forti. Malinconia diffusa per il tramite dell’apparato circolatorio. Sarcasmo inappropriato. Cistifellea debole.

Le nostre figlie, invece. Cri è arrivata insieme a tutti gli altri che si ostinavano a entrare e facevano ressa, lei si è defilata infastidita dalla confusione e ha trovato una fessura come una crepa e ci si è infilata, un po’ per curiosità e un po’ per necessità. A quel giro la comunione dei patrimoni ha stabilito la dominanza di quello paterno, il mio mezzo apporto è stato messo da parte per i tempi duri, sarà quello il momento in cui userà il mio corredo. Pepe invece ha convinto gli altri a seguirla, ecco perché è arrivata prima. È andata avanti e li ha fregati, ce l’hanno mandata gli altri davanti, brava, brava -le hanno detto- seguiamo lei che sa cosa fa. Lei, al contrario di sua sorella, il mio corredo lo usa da subito, non lo tiene da parte, non ha paura di sciuparlo, quello di suo padre lo tiene per dopo, come scorta, come patrimonio solido da non intaccare finché proprio non si può fare diversamente.

Ogni tanto vedo che ci si misurano, con il resto, ciascuna con il suo, ogni tanto viene fuori, a una tutto ancora largo, all’altra tutto ancora estraneo e poi tornano loro, per come sono, per come le so che ancora nessuno le sa come le so io, perché non so, non so nemmeno di loro, non so nemmeno loro, perché io le penso e loro sono.

Sono vive.

In alcuni giorni le nostre figlie sono le mie figlie e basta, che mi viene da dire anche a lui ma che cosa vuoi, ma chi saresti tu, scusa qualificati, cosa rappresenti. Che ne sai tu di come si pensa l’amore, tu che ami e basta. Che ne sai tu di come si pensa un risveglio, tu che ti alzi perché è giorno e dormi perché è notte e la vita inizia, gira e non finisce, tu che ne sai di come si pensa la cena da preparare, tu che cucini perché è divertente, che ne sai di come si pensa il dolore di quel che non hai tu che se non ce l’hai significa che non devi averlo. Sono mie, mie, passate da me, e tirate fuori a forza come le parole durante un’interrogazione quando non hai studiato.

Mie. E io non avevo studiato. E tu nemmeno, ma eri stato attento e suggerivi e un po’ improvvisavi, tu, tu che improvvisi sempre, che ne sai tu di come si pensa quando non sai improvvisare e devi faticare più di altri, più di tutti, che bastava un’altra cellula che avesse in sé l’informazione della faccia da culo di mio padre e invece no.

I giorni in cui le nostre figlie sono mie sono sola. E loro non sono più piccolissime o piccole o medie ma sono già grandi e allora mi mancano e le guardo e racconto cose che non c’entrano niente solo perché le tengano lì e le sappiano o le pensino. E le mie figlie mi dicono dai mamma ancora oppure dai mamma basta se quel che racconto fa ridere oppure è imbarazzante, per loro che ora che sono grandi si imbarazzano anche per poco, pure per niente e quando erano piccole invece no.

I giorni in cui le  nostre figlie sono mie Lui le usa come argomento a piacere, perché sa che sono sola e che non avrei la forza di rivolgere domande e nemmeno l’interesse a farlo allora si offre volontario e inizia a parlarmi di loro e mi risveglia in un posto assopito, allora rispondo controvoglia ma lo faccio perché sono mie e non voglio che sia lui solo a parlarne. E Lui allora mi chiede qualcosa che forse so solo io perché loro sono mie e nessuno le sa, solo io, anche se non le so e le penso, sono mie e le penso solo io. E allora gli rivelo quel che so o che penso, come un segreto, che non lo dica a nessuno e Lui non lo dice a nessuno perché altrimenti io non gli rivelerò altro, mai più. E alla fine di quei giorni io non sono sola e le mie figlie sono di nuovo le nostre figlie e alla fine di quei giorni arriva la notte anche se non pensi la notte lei arriva solo perché finisce il giorno e ci sono notti in cui io e Lui parliamo di Loro, le nostre figlie, mentre dormono su, ciascuna nella propria stanza, e noi invece siamo svegli ciascuno per i fatti propri e Loro sono il terreno di gioco, di incontro, di scontro e penso che tutti i genitori a un certo punto si trovino svegli nella notte a parlare di Loro e allora immagino alcuni che conosco messi così, seduti a metà nel letto, con il cuscino dietro la schiena e chissà cosa si dicono ma lo faccio per poco perché in fondo mi annoiano tutti e poi ho già le cose mie alle quali pensare, le cose nostre, Loro, queste due che non so da dove sono arrivate e non so niente e penso che a sceglierle tra miliardi di possibilità non avrei saputo lavorare così bene.

Le nostre figlie hanno occhi nocciola e verdi, dita lunghe e piedi paffuti, denti forti e capelli sottili, amano senza pensare, amano perché sono amate, si svegliano perché le chiamo con i baci sul collo che non dovrei dirlo perché è imbarazzante, le nostre figlie vanno ai funerali e in auto fanno battute sarcastiche sull’abbigliamento poco opportuno di alcuni presenti, hanno silenzi nei quali non si deve entrare e passioni che non sanno nascondere. Le nostre figlie io le racconto di notte e le penso di giorno, non le saprò mai e mai loro sapranno di me ma mi penseranno e lì sarà il mio respiro.

quadro di Matteo Cancedda