Per primo l’ha saputo il vento, ha sparso la notizia come fa con le foglie, sai, che poi vanno raccolte o almeno ammonticchiate in un angolo. Dio è come il vento, diceva un poeta, chissà se è vero. Dio è padre, mi hanno insegnato, allora sì, è come il vento che si alza. Si dice così del vento, che si alza. Tu ti sei sempre alzato, di notte, quando le ragazze erano bambine. Io no, io meno. Però il vento soffia, si dice così, allora Dio potrebbe essere madre, sai quella cosa che facciamo noi madri quando abbiamo davanti delle ginocchia sbucciate, disinfettiamo e soffiamo. A me, il vento, provoca mal di testa e innervosisce. Allora Dio è sia madre che padre, mi ripeto. Appena saputo che eri partito ha iniziato ad agitare il pino, costringendo i rami a una danza inusuale. Dici che non era il posto dove piantare un pino, è vero, ma lì lo hanno piantato e lì lo abbiamo trovato. Dopo il nostro pino si è agitato il nostro vicino, io ho inventato una canzoncina delle mie con la facile rima del pino nel giardino che spaventa il vicino ma tu non c’eri e, d’improvviso, mi è parso che avesse meno senso, che facesse, persino, meno ridere.
Poi l’ha saputo il tuo bonsai, che ha deciso fosse giunto il momento di esplodere rigoglioso per evidenziare tutta la mia incapacità a occuparmi di lui al posto tuo o per fare in modo di non passare inosservato, un tentativo di urlare la sua presenza così che io non potessi ignorarlo. Hai trovato il posto giusto, sai, con la luce giusta. Tutto giusto ma se non torni tu morirà.
E gli insetti, molti, diversi. Hanno saputo e si sono presentati in camera di Pepe. Non tutti insieme, ma ad intervalli. Il tempo di lasciarmi scendere le scale dopo averne sconfitto uno per essere richiamata con la voce petula, a metà tra la supplica e la rabbia, quell’incapacità di cavarsela perché la paura è più forte, l’imbarazzo di aver paura di una mosca o di una cimice. Tutto quel chiamare “fastidio” la paura.
Lo sa il garage dove la mia auto riposa storta, non più parcheggiata fino in fondo per lasciare lo spazio alla tua. Occupa sempre lo stesso spazio, quella è, eppure mi sembra che sia vuoto. Lo sa il sacchetto dell’umido che non potrà aspettare il tuo ritorno anche se provo a convincerlo, resisti gli dico, ma so che non è possibile. Lo sa il cane grande che attende senza mangiare, lo sa il cane piccolo che deve giocare a “Chi vuole più bene a me” il gioco che facevo con mamma e papà da bambina, quello in cui uno chiede e chi vuole più bene a me? e il primo tra tutti che risponde vince. Quando la domanda la faceva mio fratello faceva vincere sempre mamma, anche se lei stava zitta, perché lo aveva pensato, sosteneva lui e questo era sufficiente a garantirle la vittoria. Io ero onesta ma vinceva sempre papà. Adesso questo gioco lo facciamo con le ragazze, ma io lo so che tu lo pensi per primo. E comunque non si vince nulla, va detto.
Lo sa l’ambulante che vuole vendermi gli accendini al semaforo e Pepe che mi racconta “qui è dove papà ne ha comprato uno e ha dato una banconota da cinque euro ed è scattato il verde allora non gli ha dato il resto, ha pagato un accendino cinque euro ma sai com’è fatto papà che non è capace di vedere le persone così senza fare qualcosa”. Lo sa Pepe che mi dice che non le manchi perché torni presto. A me manca lo stesso, sussurro. Lo sappiamo, mamma. Lo sa la professoressa di latino di Cri, durante il colloquio, non c’è molto da dire anzi niente, è brava, è educata, riservata, preparata. Mi viene in mente una canzoncina delle mie, ma se non ci sei tu non mi fa nemmeno ridere.
Lo sa Spotify che fa di testa sua e propone canzoni che aprono varchi temporali, che mi scaraventano nei possibili mondi paralleli che non ho vissuto perché ho incontrato te. Canzoni che mi costringono a pensare a uomini che non sei tu in vite che non sono più la mia. Ho tradito un uomo che accusavo di tradirmi e che non mi ha mai tradita ma solo annoiata e forse è lo stesso. Sai, quando sei giovane, capita di pensare che non puoi andare via, capita di scambiare i propri piedi con radici, capita di pensare che sei un albero e che senza il vento forte non succederà niente. A me è capitato, ecco, magari non capita a tutti i giovani ma a me sì. Ho imparato ad andare via, non ero capace. Ho aspettato sveglia un uomo che doveva finire di provare uno spettacolo di cabaret dopo aver lavorato tutto il giorno come istruttore in palestra e aver allenato a calcio una squadra di bambini che lo chiamavano Mister. Peggio degli uomini chiamati Mister ci sono quelli che li chiamano Mister. Che dolcezza smisurata in un uomo che in piena notte attraversa la sua città per entrare nell’Hotel dove tu alloggi per lavoro e trascorre quel che resta fino all’alba a raccontarti i suoi sogni di fama, su una poltroncina scomoda mentre un portiere di notte incasina un solitario al computer. Lo sa Spotify che sono esistita anche prima di te, come certe leggende.
Lo sa la mamma di un’amica di Pepe che mi guarda con sufficienza, lei che ha scelto di essere sola, lei che ha scelto di fare da sola e si barcamena tutto da sola. Scusa, scusami, le suggerisco con lo sguardo, lo so che valgo poco, lo so che è debolezza sentirmi sola senza di Lui, lo so che posso farcela, che dentro di me ho le risorse come te, quasi come te. Scusa. Ma sono due, tu ne hai una sola e io ne ho due. Io ho il doppio di quello che hai tu. Tu hai la metà di quello che ho io. E poi loro hanno me come madre, capisci? Non hanno te. Brava, ti faccio un applauso e hai tutta la mia stima ma io ne ho due. Quindi scusa un cazzo, alla fine. E lo sa quel padre che incontriamo in pizzeria, seduto con i figli al tavolo accanto al nostro, mi guarda come per dire siamo tutti sulla stessa barca mentre i suoi due smanettano al cellulare. No, non siamo sulla stessa barca, io viaggio a vela e tu a motore, a me serve il vento perché il vento è Dio e Dio è padre, guarda come sventolo la mano sinistra, vedi? Vedi la fede e l’anello con i brillanti? Li vedi? Guarda come agito inutilmente la mano sinistra con la quale sono incapace di fare qualunque cosa eppure la sventolo come un gonfalone, eccomi, non siamo uguali, oggi è il tuo giorno e devi dargli cena, li porterai dalla madre tra poco. Io non ho giorni, ho tutti i giorni. Vedi la mano sinistra? Non le ho part-time, non ci sono accordi consensuali, cioè sì, ci sono, ma non come i tuoi, i nostri sono davvero consensuali, io preparo cena a casa e Lui va a prendere la grande a Karate, solo che lui oggi non c’è e non ci sarà domani e allora tocca a me ecco perché ho portato anche la piccola con me e ci siamo dette, cioè io ho detto, che ne dite di una bella pizza? Perché mica ci frega che sia anche buona. Deve essere bella, pronta, veloce. Si dice così, no? Una bella pizza. Che poi perché ti sto dando tutte queste spiegazioni? Chi cazzo ti conosce? E togli il cellulare da tavola e i gomiti, che non è educato, per forza ti ha lasciato.
Lo sa il mio diritto al mugugno, le lamentele del mattino, le mail ottuse, le chat del tennis, lo sa il veterinario che mi dice si vede che sei stanca mentre sono seduta dalla parte opposta della sua scrivania con il cagnetto in braccio e le gambe un po’ divaricate, come certe donne incinte, con quel peso innaturale da portare. Resterei seduta qui, dottore, tutto il pomeriggio se possibile. Lo sa che Lui mi chiama scimmia? Questo basterebbe a giustificare il fatto che resti nel suo ambulatorio? Gli chiedo se i cani sentono la paura degli altri animali. Perché il cagnetto trema sempre quando veniamo qui, magari sente che altri sono stati qui, sente le medicazioni o certi odori che noi non percepiamo. Mi sembra una domanda stupida ma non faccio quella cosa di scusarmi in anticipo per la domanda stupida così da permettergli di dirmi che non esistono domande stupide. Lo sappiamo tutti che esistono domande stupide. Persone stupide. Cani stupidi. Parenti stupidi. Giorni stupidi. Impegni stupidi. È più una cosa dei gatti, risponde. Hanno come dei sensori sotto i polpastrelli, dice, se non pulisco subito il tavolo delle visite tra un gatto e l’altro è un casino. Forse ho anch’io qualcosa sotto i polpastrelli, dottore, qualcosa che sente gli altri. I cani possono ammalarsi di Alzheimer, gli chiedo ancora. Penso al nostro cane grande, il cane di Pepe. Ha dodici anni, mi sembra mia nonna quando aspettava il pullman per Palermo, per andare a trovare i suoi fratelli. Che erano tutti morti. E lei abitava a Torino. No, è demenza senile quella dei cani, mi dice. E le scimmie? Le scimmie possono avere l’Alzheimer?
Lo sa la ragazza di un tempo, te la ricordi? Quella che studiava le definizioni del codice e preparava gli schemi e tutto doveva stare nelle definizioni e negli schemi e il mondo lo divideva in regole ed eccezioni, come il Diritto e tu eri l’eccezione. Lo sa anche lei, è quella che patisce di più, povera stella, la tua lontananza, l’ha sempre patita. Quante volte ti ha aspettato accontentandosi di cinque minuti con te senza mai pensare che si stesse accontentando, così smaniosa di respirarti nell’incavo del collo, di baciarti tra le clavicole. Anche adesso che sei la regola, gioia bella, ti aspetta così. E lo sa la donna, quella che conosci bene. La donna che è stata discussa, nemmeno messa in discussione, magari, no, discussa con il chiacchiericcio smodato e sgrammaticato di alcuni, la madre vituperata, tirata in ballo, usata come bersaglio. A lei non manchi, sappilo. Con i tuoi modi garbati davanti alla prepotenza, con la pacatezza dell’indifferenza verso certi atteggiamenti che a lei mandano in subbuglio le arterie, con l’aria serena di chi non perde tempo in discussioni sterili. No, a lei non manchi, così poco sanguigno, poco irremovibile, poco belligerante. Segnatelo. Lei pensa che ognuno va dove vuole andare e fa quel che vuole fare e dice ciò che vuole dire. Lei pensa che non siete qui adesso perché siete stati fortunati o più fortunati di altri, lei non pensa che serva la gentilezza per superare l’usura del tempo ma solo il rispetto che, purtroppo, si misura nelle differenze perché a rispettare le similitudini siamo capaci tutti. Se mai tu dovessi decidere di non tornare è a lei che mi rivolgerei, non certo alla sdilinquevole ventitreenne, anzi andremmo a cercarla, la staneremmo per cacciarla, afferrandola dai capelli, dietro la nuca con quella presa come la tua, quella che vista da fuori sembrava che le facessi male e invece il male era non prenderla così. E, comunque, nessuno vi vedeva da fuori, ma Dio se eravate belli.
Lo sa il soffitto della nostra camera da letto, l’impronta della zanzara schiacciata con il libro dell’I Ching al culmine di una lotta serrata l’estate scorsa, la luce che filtra dalle persiane, il gatto del vicino che amoreggia in giardino, forse proprio sotto il nostro pino, le misure di me che prendo in queste notti senza di te durante le quali prendo sonno e lo lascio, lo riprendo e lo perdo di nuovo, è che senza di te soffro di in-Sonia, mi do contro, mi do addosso, mi combatto. Girata sul fianco sinistro guardo al buio il tuo lato del letto, stendo le gambe in quella direzione, sento il cuore che batte, se mi giro sul lato destro non lo sento. Mi rigiro a sinistra. Lo sento. È il mio. Non so se sia possibile. Non che batta, è ovvio che batta. Sono viva. Non so se sia possibile sentirlo così, solo perché girata su un fianco. Mi giro a destra e non lo sento, però batte perché sono viva, ancora. Mi giro un’ultima volta dal tuo lato ed eccolo che batte. Allora forse è il tuo cuore quello che sento forte, come diceva la poetessa. Penso di dirtelo, allungo la mano per cercare il telefono, devo dirtelo. In quel momento mi chiami. E chi vuole più bene a me, chiedi sorridendo. Ti sento sotto i polpastrelli che sorridi.
Io.

Si può piangere per ogni tuo post? A questo punto penso di sì.
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Certe assenze sfiniscono (come ad altri sfiniscono le presenze).
(Ah, ho appena scoperto che il mio circolo tennistico ha invaso il tuo, come la Russia con l’Ucraina. Mi dispiace, credo abbiano fatto una cosa non bella)
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Io riesco a sfinirmi con le assenza e con le presenze. (Ah, siete voi? Ecco. Non ho ancora capito se è una cosa bella o brutta, ho le idee più chiare sulla Russia insomma. Lasciatemi il Maestro Lollo, comunque, e nessuno si farà male)
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