“È tutto loro” ho detto spazientita dopo dieci minuti, circa. Mi sono spostata sulla sedia, senza alzarmi, il peso da una chiappa all’altra, le gambe hanno cambiato incrocio, ho tolto un capello dalla maglia. Ne sto perdendo da non crederci. Di capelli. E di pazienza. Ma i capelli, quelli sono corti quando stanno al loro posto e poi sembrano lunghissimi quando li raccatto in giro che mi chiedo se davvero sono i miei. Che finimondo per un capello biondo cantava mia madre quando ripiegava gli abiti di mio padre. Lei aveva i capelli rossi mogano, quelli biondi che sfilava dalle spalle dei maglioni erano i miei, poggiavo lì la testa. Ho sempre perso i capelli, mi consolo. E la pazienza.
Cosa è loro? Mi ha chiesto senza scomporsi, le braccia lungo i braccioli, la schiena dritta, i piedi su due delle cinque razze della poltrona, è ergonomica, non ho ancora perso l’occhio della consulente aziendale, anche se quella era una delle vite precedenti e proprio come da una vita precedente ogni tanto arrivano suggestioni. Cerco sempre l’uscita di sicurezza, controllo sempre che sia sgombro il passaggio in quella direzione, per esempio.
Tutto. Il tempo. Il tempo delle lancette, io non ce l’avevo un orologio prima di loro, non mi serviva. Mi regolavo con il cellulare o con il cruscotto dell’auto, chiedevo a un passante. Non dico guardare il cielo per orientarmi, quello no, però mi orientavo senza lancette, arrivavo e andavo via e il tempo trascorso tra quei due momenti era solo tempo trascorso tra due momenti senza interruzioni.
Tutto. Le interruzioni. Io non avevo interruzioni prima di loro, iniziavo qualcosa e lo finivo, bene o male dopo si valutava. Tutto. Lo spazio dentro le interruzioni, lo spazio dentro il tempo, lo spazio che si crea come un doppiofondo nelle attese, piccoli vani nascosti dietro pannelli al fondo di un armadio. I miei nonni ne avevano uno così in camera da letto, ci tenevano i gioielli o i contanti. Ogni tanto vedevo mia nonna sparire dentro l’armadio e poi uscirne con dei sacchetti di velluto scuro, non si poteva dire a nessuno ma adesso non c’è più nessuno, sono tutti morti e quell’armadio non so nemmeno se esiste ancora. Io esisto ancora, quella bambina e quella ragazzina seduta sul letto che promette di non dirlo a nessuno anche. Se esistesse il doppiofondo mi ci infilerei ma loro sarebbero anche lì, lo so, perché è tutto loro. Anche quello che non esiste più.
Tutto. Tutto lo spazio. In casa, fuori casa, in ufficio, ovunque c’è qualcosa di loro, io stessa sono qualcosa di loro in fondo. Mi guardi. Questa maglia è della grande. Anzi è mia, ma l’aveva voluta lei e poi me l’ha restituita. Questa collana, me l’ha regalata la piccola per via del ciondolo, un enorme cuore nero sfaccettato e sfacciato che mi rimbalza sul cuore a ogni passo. Tutto. Le attese dentro lo spazio che occupano, tutta la vita incastrata lì, quella è tutta loro. Ogni mattina dalla tangenziale vedo un aereo in fase di atterraggio. Ogni mattina. Sempre questo aereo che arriva e mai, mai uno che parte. Ogni mattina chiedo alle ragazze ma secondo voi chi cazzo atterra alle 7.30 a Torino e perché? Perché ti viene di atterrare a Torino così presto? Cosa devi fare a Torino? Le ragazze non rispondono, non c’è risposta in effetti. Io però non atterrerei a Torino un martedì alle 7.30. Ma sarei all’aeroporto ad aspettare qualcuno che lo fa. Ecco, la vita io la vedo incastrata lì. Subito fuori dalle porte scorrevoli a controllare un monitor che indichi landed. Cioè, la mia vita. Mica voglio generalizzare. Sa come si dice: parlo di me così non offendo nessuno. Eppure io parlo di me e comunque qualcuno che si offende lo trovo sempre. Sarà il modo. Il mio, ovviamente.
Tutto. La paura. La stanchezza. Il sonno arretrato. Le cicatrici sulla pancia. La sveglia delle sei. La dieta bilanciata, le verdure fresche e la frutta nel cestino sul carrello accanto alla credenza. Il latte e gli yogurt che non scadano, le uova un paio di volte a settimana, il profumo dell’ammorbidente e il cambio delle lenzuola, i complimenti esagerati volutamente quando indosso un caschetto da cantiere e mi arrampico sul ponteggio della loro autostima, qualcosa mi rovina sempre addosso e devo restaurare e sistemare e non so come si fa, non so come si costruisce quella sicurezza di sé che ti fa stare dritto nel mondo anche se arriva il terremoto. Non lo so. Tutto, anche quello che non so. Soprattutto quello che non so. Quello che ho dimenticato. I vocaboli irregolari della terza declinazione, i verbi deponenti, la maieutica, la Metamorfosi di Kafka. Tutto quello che sono stata e non sono più, è tutto loro, la mia infanzia e la mia adolescenza che mi tormentano di prurito come arti fantasma. La vita, la morte. È loro anche la morte. La mia morte. La loro morte. Loro moriranno, un giorno. Le ho messe al mondo e moriranno e come possiamo vivere così? Come possiamo non soffrire noi che sappiamo già come andrà a finire? Tutto. Tutto loro. La cacciata dall’Eden è solo questo: sapere che moriremo, la conoscenza che non dovevamo assaporare è solo questa. Io vorrei morire come muoiono gli animali e vivere come vivono gli animali. Invece lo so. E lo sanno anche loro. Tutto, anche la conoscenza. Anche quella è loro. È tutto loro e io non ci sono più.
Come quale animale vorrebbe vivere? O morire? E perché? Mi ha chiesto sorridendo, le braccia sulla scrivania, le dita che sfiorano il cappuccio blu della penna, quella gialla e nera, una tra le migliori, ho ancora l’occhio della grafomane scribacchina perché è tutta la vita che faccio quello e non potrei fare altro mica per talento ma per necessità, mica per vanto ma per urgenza, mica per gli altri e nemmeno per me. Mica è una penna. È un guinzaglio.
Il cane. Forse dovrei dire il lupo ma così già ci vivo, così già mi vive dentro, sa, il mio lupo dietro lo sterno. Perché? Perché. Perché il lupo è cattivo solo quando non racconta lui la storia, ci ha mai fatto caso? Perché il lupo è monogamo, sociale, famelico. Il mio lupo forse non è nemmeno più un animale. Allora dico il cane. Perché è fedele. Perché crede in qualcuno e non in qualcosa, perché per farsi capire non ha bisogno di parlare. Io odio profondamente, dalle viscere davvero, chi parla di cani mordaci e bambini indifesi, chi colpevolizza il cane e non educa le persone. Abbiamo sempre avuto cani e sempre ne avremo. Le ragazze non hanno ricordi senza. Pensi, una volta Cristina, aveva 13 mesi, era estate e aveva iniziato a muovere i primi passi, era burrosa e morbida con le pieghe di ciccia sui polsi, aveva solo il pannolone perché faceva caldo, era scalza in terrazzo e con una mano si teneva alla ringhiera e con l’altra portava il biberon alla bocca, io stavo stendendo o non so, mi sembra però di sì comunque ero distratta e con la coda dell’occhio intercetto questo movimento strano e allora osservo e lei stava sì portando il biberon alla bocca, dava una golata e poi via, un sorso al cane e poi via di nuovo lei e così, un po’ a lei e un po’ al cane. Di quella volta mi sono accorta, di tutte le altre no. Ecco. Così. Ho insegnato alle bambine quando erano bambine che i cani si chiamano prima di toccarli, che ci si avvicina mai frontalmente ma sempre di lato, loro devono vederti arrivare così e non dritti sparati come un pericolo, che non li si tocca dietro senza che prima ti abbiano visto e sentito, che la fronte non è il posto preferito dove amano essere contattati, meglio la schiena. Che il cane non ha modo di dirti che gli dai noia o che non ha voglia di giocare o che vuole stare da solo tranquillo e allora ringhia o peggio morde, perché non ha un altro modo se gli si dà fastidio, siamo noi che abbiamo gli altri modi e allora siamo noi che ci dobbiamo adeguare. Cioè loro. Noi ma intendo loro. Ho insegnato alle bambine quando erano bambine come si sta con un cane. Anche questo, vede, adesso è loro. È tutto loro. Anche il cane, anche saper stare con il cane, anche la scelta del cane, anche la morte del cane. È tutto loro e io non mi trovo più.
Tiro su con il naso. Mi viene da piangere, dovrei sporgermi fino alla scrivania e prendere un kleenex ma non mi va di muovermi e di piangere. Guardo in su, un angolo del soffitto e poi l’altro, la porta è alle mie spalle, il passaggio è sgombro eppure non cerco di uscire. Di uscirne. Passo la lingua da una guancia all’altra, sento sapore di ferro, mordicchio il labbro inferiore, con l’unghia del pollice non do tregua all’unghia del mignolo, già nei nomi c’è il destino, se ti chiami mignolo devi soccombere al volere del pollice, mi perdo in queste cazzate per restare salda sulla sedia, spazientita, stanca, sfinita, accucciata. Non cerco i suoi occhi, non voglio guardarla perché è di fronte a me, mi sposto appena un po’ di lato, non voglio guardarla e non la guardo perché ormai se non voglio fare qualcosa non lo faccio e basta, perché ormai decido io e gli altri si regolano di conseguenza, perché adesso l’adulto sono io e non c’è da sentirsi amputati o sbagliati e come dicevamo una o due o tre sedute fa, che ne so, sono parte di questo progetto immenso che sono le mie ragazze e non spettatrice, sono agente anche se non so come si fa perchè nessuno sa come si fa e chi dice che lo sa è un bugiardo o un idiota e vince chi sbaglia meno ammesso che ci sia un premio e va bene anche se mi perdo in questi pensieri e una parte di me dice così all’altra parte di me, dice che va bene, cioè va bene anche se siamo in due a parlare e io sono solo una perché finché so che lo sto facendo non è schizofrenia mi ha detto ridendo quella volta che le ho chiesto e lo saprà bene lei, no, cos’è schizofrenia e cosa no e se uno che è solo uno parla e risponde che così sembrano due ma lo sa va bene. Non cerco i suoi occhi. Guardo la mia borsa, il cavo del computer attaccato alla presa, il filo nella canalina a norma, non ho perso l’occhio e nemmeno il fiuto, ho solo perso la pazienza e tanti capelli in quest’ora che sta terminando.
Sono io, vero? Il cane? Quando alle bambine ho insegnato a stare con il cane, a non farsi fare male dal cane ma a non averne paura, io stavo insegnando alle bambine quando erano bambine come stare con me? Con la loro mamma?
Sì, Sonia. Anche la mamma è tutta loro. Tutta.

In effetti chi atterra così presto a Torino? Ormai con 4 ore di treno da Roma si arriva. E poi si può sempre arrivare la sera prima…la prossima volta faccio così e ci prendiamo un caffè insieme
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