“ma io non ho bisogno del tuo amore, ora “. Poi hai riso nervosa. “l’abbiamo appena fatto, a Psicologia, a questa età non ci serve l’amore dei genitori, è nel gruppo di pari che dobbiamo affermarci e prenderci quel di cui abbiamo bisogno”. Io e tuo padre ci siamo guardati, siamo seduti uno di fronte all’altra, sono i nostri posti a tavola, a volte anche nella vita, più spesso lì siamo uno accanto all’altra. Tua sorella ha continuato a mangiare frutta. Potrebbe venire giù il mondo ma se è il momento della frutta non se ne interesserebbe. Abbiamo sentito, io e tuo padre, un’intervista a Barak Obama, non ricordo quando comunque non recentemente, ci siamo commossi entrambi quando ha detto che uno dei momenti che preferisce è quando a tavola con le sue figlie le ascolta e si rende conto che ne sanno più di lui. Io e tuo padre, che ormai abitiamo l’età di mezzo dove tutto si incrina anche le emozioni, ci siamo detti che era esattamente a quello che puntavamo dritti, a quel momento, a quello stupore. Non ho nessuna base di psicologia, se non come utente. Paziente. Ti ho detto che è meraviglioso che tu sappia tutte queste cose.
Poi ho aggiunto: “grazie di avermelo detto, mo’ lo surgelo tutto questo amore così quando ti serve lo trovi giù, nel congelatore”. Ho iniziato a sparecchiare. È corretto, non si ha bisogno di quel che si ha in abbondanza, questo non te l’ho detto perché sarebbe stato pleonastico, perché avremmo continuato una discussione inesistente e ho imparato a non andare avanti lungo la strada dell’inesistenza. Del mio amore per te sei sicura come delle tue generalità, accanto al nome e cognome data e luogo di nascita nella tua carta d’identità c’è una voce apposta: intrisa d’amore materno. Io alla tua età ero sicura che mia madre non mi amasse.
Specchio, specchio dei ricordi, perché se mi avvicino mordi?
Non ti sento mai parlare d’amore. Anche tua sorella, anche lei non ne parla. Forse non ne parlate con me. Siete innamorate? Penso di no, ma vorrei di sì. L’amore è un modo di misurarsi. Misurarsi davvero. Prendere le proprie misure: quanto sono alta? Fino alla sua spalla, fino al suo mento. Quanto peso? Se mi siedo su una sua gamba non si lamenta, se salto mi prende al volo come in quella scena di Dirty Dancing, quando lui ritorna e la fa ballare perché nessuno mette Baby in un angolo. Io dovevo per forza innamorarmi per sapere di occupare uno spazio, voi fate le visite mediche. “Complimenti, signora, è davvero una gran bella ragazza”, mi ha detto il cardiologo dopo aver congedato tua sorella che dalla visita dell’anno scorso è cresciuta di quindici centimetri fieramente portati con spalle definite da ore di atletica post allenamento tennistico. Forse non avete la necessità di misurarvi diversamente. Alla tua età mio padre mi guardava in costume e mi diceva in dialetto: hai la pancia attaccata ai reni.
Siete andate in montagna con vostro padre, siete state fuori solo una notte. Prima di salire in auto mi avete chiesto, ridendo, come avrei fatto se avessi sentito la vostra mancanza. Guarderò le ecografie, vi ho risposto. Non vengo lì dove siete andati, in quella casa della famiglia di tuo padre, ormai non me lo chiedete più, lo sapete e poi fa bene a voi stare un po’ con lui e fa bene a me ritrovare la solitudine che in alcuni momenti arrivo a mendicare. Non so perdonare ma soprattutto non ho nessuna intenzione di perdonare, non mi rattrista la mia incapacità, mi sto benissimo così. A volte penso che se scrivessi un romanzo e a un personaggio secondario facessi pronunciare nei confronti di una madre, personaggio principale, la frase: affidate a te diventeranno schifose come te l’editor me la cancellerebbe perché inverosimile, poco credibile, impensabile. Prima o poi ci provo. Solo per togliermi il dubbio.
Specchio, specchio dei desideri, ma che giorno era ieri?
Ho conosciuto una persona, un uomo ma poco importa che sia un uomo. Importa solo per il suo aspetto: ha la barba lunga e i capelli ben sotto le orecchie appoggiati in un taglio disordinato, un taglio che non è un taglio a dirla tutta. Ha un tatuaggio sull’avambraccio, niente di colorato, non c’è scritto resilienza o qualche altra vaccata simile, non è un tribale e nemmeno il nome di una donna. È qualcosa che capisce solo lui, che non è lì per essere mostrato ad altri ma è lì perché lui lo veda ogni volta che tira su la manica del maglione e si ricordi. Cosa lo sa solo lui. Ha un orecchino al centro del lobo destro. Potrebbe sembrare un marinaio potrebbe esserlo, uno di quelli che sentono il tempo cambiare, che avvertono la tempesta e che, per primi, vedono la terraferma. Potrebbe vivere per mesi su una nave. Invece vive in San Salvario e per vivere legge e scrive. Io non conosco un altro modo di sentire il tempo cambiare, di avvertire la tempesta e di vedere la terraferma. Scriveresti anche se nessuno ti leggesse, mi dice. Già lo faccio, confermo.
Siete tornati dalla montagna perché devi andare a una festa stasera. Ci giriamo intorno da settimane, è il diciottesimo di un tuo amico. C’è un dress code: lo smoking. Che ovviamente tu non hai. Io ne ho due. Uno panna e uno nero, con i profili in raso su giacca e pantalone. Abbiamo discusso, non ricordo quando, per quello panna perché sostenevi che fosse rosa. È palesemente panna. Sei convinta che sia rosa. Mi sono incazzata, tanto. Cosa pensi che vada in giro come Peppa Pig? Quello nero non l’ho ancora indossato, aveva ancora le etichette, le hai tagliate tu stasera per indossarlo. Ti sta molto bene, sopra ci hai messo un cappotto e hai con te una mini borsa con il cellulare e il portafogli. La discussione sullo smoking panna non l’abbiamo chiusa e nemmeno ripresa, è in sospeso fino alla prossima volta che me lo vedrai addosso ma ti assicuro che non è rosa. Ti ho accompagnata e poi ti verrò a riprendere, tuo padre è stanco. Anch’io, ma stasera va bene così. Con voi lavoriamo su turni e, adesso, abbiamo anche la reperibilità. Avevo una cliente nella vita precedente che da giovane aveva lavorato in fabbrica, erano gli anni Sessanta e Settanta, mi raccontava che stava in catena e per tutto il turno non poteva fare pipì, forse poteva andare una volta sola ma doveva chiedere al capoturno ma senza alzare la mano perché altrimenti avrebbe interrotto la produzione. Allucinante, vero? Sembra inverosimile, poco credibile, impensabile. La cosa peggiore è che me lo raccontava una volta diventata titolare di un’aziendina dell’indotto automotive, un mezzo capannone in una desolata area industriale in mezzo al nulla, uno di quei posti dove arrivano le commesse e si lavora anche di sabato perché non si è capaci di organizzare il lavoro, con i figli a controllare la produzione e gli operai che chiedono il permesso di pisciare. Stasera la reperibilità tocca a me, tira un gran vento e non mi sarei addormentata con facilità, patisco l’energia del vento, la trovo spietata. È tremendo perdere la pietas. Sei scesa dalla macchina in fretta, eppure eri in anticipo, eri la prima, non c’era ancora nessuno. Poi è arrivata la vostra amica, è scesa dal pulmino di una onlus sulla sua sedia a rotelle e non volevi lasciarla sola nel dehors, con tutto questo vento. Chissà se hai abbottonato il cappotto.
Specchio, specchio della festa, nella vita vince chi resta?
C’è un libro che leggevo alla tua età, fino a consumarlo. No. Ero un po’ più grande, avevo un anno in più. Non penso ci siate ancora arrivati a scuola, non me l’hai ancora chiesto, non sei ancora venuta nel mio studio a frugare tra i miei libri di scuola. A matita sulla copertina ho scritto ESTATE 1995. Dentro è sottolineato, ci sono piccole note scritte a mano, qualche collegamento. E punti esclamativi accanto ad alcuni paragrafi. Ancora lo faccio, di segnare l’importanza con il punto esclamativo. Io vivevo solo d’estate, in quei due mesi trascorsi al mare in una casa minuscola e affollata eppure non me ne sono mai accorta perché stavo fuori e la spiaggia immensa in grado di contenere il gruppo dei miei amici e solo lì sapevo esattamente quale fossero le mie misure. Il Simposio, è questo il libro. Tu forse lo conosci per il mito degli androgini che ha sempre il suo fascino, l’idea di questi esseri perfetti e superbi divisi da Zeus in cerca della metà perduta. Bella idea. Io mi crogiolavo, invece, nel racconto di Amore che nasce da Povertà ed Espediente. Mentre aspetto di venire a prenderti, dopo aver dato la buonanotte a tua sorella e socchiuso la porta della stanza dove tuo padre dorme, l’ho ripreso dallo scaffale della mia libreria, ha le pagine ingiallite e scricchiolanti. Amavo un ragazzo, gli arrivavo alle spalle e mi sollevava senza problemi per farmi roteare, ci addormentavamo aspettando l’alba in spiaggia coperti da un asciugamano, ogni tanto mi chiedeva di non guardarlo negli occhi così forte. Così forte, diceva davvero così. Io ridevo ancora più forte e non lo guardavo per non fargli male.
A volte l’amore salva, a volte l’amore va salvato. Io non sono capace di salvarmi da sola, a me serve l’amore per salvarmi. L’amore di tuo padre non mi ha salvata, mi ha trovata abbastanza al sicuro, precaria ma sicura. Il nostro amore, invece, quello lo abbiamo salvato diverse volte. Non lo abbiamo mai fatto per voi, spesso grazie a voi in serate seduti uno davanti all’altra, il primo che abbassa lo sguardo perde. Perde tutto. L’amore per te mi ha salvata, mi ha attraversata lasciandomi intatta, ha ricucito gli strappi, ha cambiato l’unità di misura del mio corpo. Nel mondo, adesso, occupo lo spazio dietro il tuo. Tutto lo spazio che serve, di cui c’è bisogno, tutto lo spazio che mancava ora c’è. Sono io che ho bisogno di amarti . Mi è caduto un biglietto dal libro, scrivevo poesie alla tua età, questo non lo sai, non lo sa nessuno. Non so dirti se fossero belle, di quale poesia possiamo dirlo? Nella poesia conta quello che non dici, conta lo spazio bianco della pagina che è la maggior parte, nella poesia niente conta altrimenti non è poesia. Pensavo fosse una mia poesia. Invece è un biglietto della metropolitana. Ma nel 1995 la metropolitana non esisteva a Torino. Ho guardato quando è stato obliterato: due giorni prima della tua nascita. Tu sei nata in ritardo rispetto al termine, questo lo sai. Nove giorni dopo, durante i quali facevo controlli quotidiani del liquido amniotico. Quel giorno sono andata in metropolitana, tuo padre mi ha raggiunta in ospedale per poi portarmi a casa dopo la visita. Questo è il libro con il quale ti aspettavo nel mondo. Ti amerei anche se tu non ne fossi sicura.
Specchio, specchio di questi giorni, è della madre aspettare i ritorni?
