Sai, ero giovane e innamorata. Come capita di essere quando si è giovani e innamorati, poi, ero illusa e presuntuosa. Non vedevo il tuo amore. Lo sentivo sulla pelle, lo respiravo nell’intesa che abbiamo avuto dal primo sguardo, da quella prima frase quando hai detto “diamoci il tu, sono degli anni settanta anch’io” e avevo pensato alla canzone di Daniele Silvestri, avevo sorriso, quella che dice le cose che abbiamo in comune e le elenca ma poi quando lui piange lei ride e insomma, mi avevi ricordato quella canzone con quel tuo riferimento che ci collocava vicini nonostante gli otto anni di differenza.

Non pensavo al tuo amore. Ero concentrata sul mio. Per te. A fiumi, a cascata, fino al mare, il mare, l’oceano, il pianeta intero,enorme, volevo solo dirtelo, urlartelo, gettartelo addosso come un guanto di sfida, ecco il mio amore, allora sei capace di averlo, di gestirlo, di viverlo o sei uno che scappa? Allora cosa fai? Resti o scappi? Ti spaventi anche tu, come tutti gli altri?

Mi curavo poco del tuo vissuto, ormai era passato, come se questo bastasse a risolverlo. Ridendo  ti dicevo che arrivavi dall’Africa dei sentimenti. Ridevo ma non scherzavo, nel dirtelo.  Avevi nei movimenti del corpo tutti i segni di penuria di amore, eri malnutrito e perciò affamato. Ma viziato nei gusti. Ripetitivo, di quelli che non assaggiano un cibo nuovo perché da piccoli la nonna o la mamma gli hanno detto che tanto non sarebbe piaciuto. E non si danno una possibilità.  Di sorprendersi, di sfatare un luogo comune che per me resta, ancora e sempre, una delle sensazioni più belle da provare.

Insomma, ero giovane, innamorata, di difficile gestione, pure dispettosa.  E ho commesso tanti errori.  Adesso, quegli errori mi danzano intorno, come spettri. Lo sai che non ho paura dei fantasmi, anzi, sono i miei interlocutori preferiti. Lo sai che ho più paura di quello che si tocca e che ti tocca. Ma sai anche che non è in gioco la paura. Non sto parlando di paura.

Sto parlando d errori. Di orrori. Di come, per amore e gioventù si possa arrivare a tacere, a sminuire fatti e parole che andavano censurati subito, nell’attimo stesso in cui venivano posti in essere. Di come non sono stata capace di dire che a me nessuno dice cosa piace mangiare e cosa no, a me nessuno toglie la possibilità di essere quel che sono. Di avere un muso duro davanti all’ignoranza, perché tanto io l’ho sempre detestata l’ignoranza, lo sai. Quell’ignoranza colpevole, brutta, strisciante di chi non fa nulla , mai nulla per migliorarsi, e pretende di appiattire gli altri verso il basso. Di trattare ciascuno per come merita di essere trattato, senza concedere favoritismi in nome tuo, per te, come se fossi tu.

Perché non eri tu.

Ero io. Che indietreggiavo invece di avanzare e travolgere e mettere in chiaro. Subito. Io.

Io. Che sono intransigente ma leale, cocciuta ma non cerco mai una scorciatoia. Pignola, vergine rompipalle, che non chiedo a nessuno come sta per evitare di sentire la risposta, perché in fondo non mi interessa, che mi faccio i fatti miei ma non dico a nessuno cosa fare.

Hai presente quel fiume, quella cascata, quell’oceano di amore? Io.  Che resto in macchina ad aspettare il mio turno sotto il temporale mentre seppellisci il passato, che ho misurato ogni giorno il livello d’amore con la tacca, come fa mio padre con il gasolio per l’inverno, e sai, ci sono stati giorni in cui ho rabboccato. Non bastava. Non te l’ho detto, a volte forse, ma altre volte no, non ti ho detto niente. Ho rabboccato. Io.

Perché non si è sempre giovani e innamorati. Perché nel frattempo sono cresciuta. E allora ho iniziato a pensare al tuo amore. A curarmi del tuo vissuto come della tua biancheria, a non dirti cosa ti piace senza avertelo fatto assaggiare. E ho iniziato a pensare a me con più generosità. Con più tenerezza. Ho accolto la bambina con l’occhio bendato da un cerotto marrone e le ho chiesto scusa per quel mondo degli adulti che era inadeguato alle sue istanze, che ha lasciato che si arrangiasse sempre. Con i fantasmi. Con i vivi. Con se stessa.

Ho lavorato in questa direzione, un po’ a te, un po’ a me.  E allora, capisci, non può più esserci spazio e tempo per tacere ancora, di fronte all’ignoranza, alla stupidità, a tutto quanto mi offende come persona, come donna, come madre e offende il mio sentire, il mio pensare che è stato preso, giudicato da gente assurda e folle, non c’è più tempo e spazio per questo esercito scalzo che mi combatte  e che combatte proprio solo me, lo sai anche tu. Sulla base di nulla.

Non c’è lo spazio e il tempo per il nulla.

Perché non sono più giovane. Perché non ti guardo più pensando che forse non merito la vita insieme a te, che chi ci avrebbe scommesso, perché oggi so che siamo la possibilità l’uno dell’altra. E allora, a questa  combriccola sprovveduta che combatte sotto il vessillo dell’ignoranza più cupa, a questi campioni del passato che vantano successi di cui non è rimasta traccia, a questi esperti della vita, della mia vita, posso chiaramente dire che io non farò mai più alcuno sconto. Sarò il segno rosso della maestra. Sarò il contraddittorio estenuante che non sanno sostenere.

Perché non sono più innamorata ma più felicemente amo. Amo con pienezza, amo la tua fragilità, amo senza il guanto di sfida. Amo il tuo talento. Amo quando ti vedo smarrito.  Amo le tue soluzioni, amo come mi ami. Perché ora lo vedo il tuo amore. Adulto che non scappa, che non si fa confondere, che resta saldo. Il tuo amore un po’ ragazzo, impacciato e affamato.  Perché amo me. Vergine, pignola e rompipalle. Intransigente e cocciuta. Ironica. Tagliente. Curiosa. Amo ogni mio dubbio che mi fa continuare a pensare. Amo la paura della malattia, di quella malattia, che mi fa continuare a studiare per non far morire il cervello. Amo tutti i problemi che pongo e tutti quelli che risolvo, amo come ti amo. Ecco, guarda il mio amore. Adulto che non scappa, che non si fa confondere, che resta saldo. Il mio amore un po’ ragazzo, impacciato e affamato.

 

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