Cosa prendere e cosa lasciare

 

È lì,  nel centro della stanza

Ecco la valigia della vacanza

Bisogna decidere che fare

Cosa prendere, cosa lasciare:

la fretta resta sul comodino

con la sveglia di buon mattino

resta qui la gonna che stringe

e il sorriso di chi finge

ci portiamo la comodità

il più bel dono di questa età

piego bene il mio caftano

ampio come il palmo della mano

quando vuoi fare una carezza

dai portiamo la leggerezza

lascio qui le mail da smistare

porto via le crema solare

per accarezzarvi la pelle

e proteggervi bimbe belle

lascio i discorsi della sera

cosa è stato e chi c’era

i tuoi parenti e altri guai

facciamo come i marinai

il mare come argomento

prendi un golf, se tira vento

lascio le chiavi dell’ufficio

porto libri come un auspicio

lascio il tempo, quello sprecato

e quanti hanno mistificato

prendo la borsa più elegante

se vorrai essere galante

magari invitarmi a cena

poi a passeggiare sulla rena

e le orme come le parole

vanno via al sorgere del sole

lascio anche ogni fragranza

ma porto via una speranza

che la valigia sia leggera

e la tristezza passeggera

che si torni un po’cambiati

con i sogni abbronzati

e la voglia di far poesia

di sentirsi ancora magia

che si torni per restare

dopo aver lasciato andare.

Come si dice in italiano? (parole per mio fratello)

 

Sono tornata a casa da due giorni esatti. Quarantotto ore durante le quali mi sono ributtata nel lavoro disperato e folle per recuperare la settimana trascorsa a Londra con te, da te, con le ragazze, per la prima volta nella vita e da quando tu sei lì, dodici anni.

Non sono arrivata nemmeno alla porta girevole dell’aeroporto, sai, senza piangere. Avevo su gli occhiali da sole, da brava italiana, come mi hai detto tu tanti anni fa, quando hai iniziato a fare questo lavoro girovago che ti ha portato in tutto il mondo e che ti ha insegnato a riconoscere i connazionali da questi segni particolari, eccomi, mettici pure me nel conto, si, ho sempre gli occhiali da sole. Per fortuna, ormai. Perché capita che inizio a piangere, difetto della nuova adolescenza che vivo, che mi umidifica gli occhi per niente e con niente e lucida il nero delle pupille che poi vedono offuscato e bruciano. Pepe se n’è accorta, mi teneva per mano, come sempre, ha alzato lo sguardo verso di me, come sempre, e mi ha chiesto cosa avessi. Le ho detto che ero triste perché ti avevo salutato. Ha capito, ha stretto la mano più forte, ho capito anch’io. Perché, vedi, quando io ho bisogno di essere stretta, lei mi chiede un abbraccio, quando io ho bisogno di un sorriso lei mi chiede di raccontare una scenetta buffa. Lei rannicchia la sua mano nella mia così io la stringo. Ma è lei che mi accoglie rannicchiata e ristretta e mi stringe.

Così è stato anche questa volta.

Ho pianto. Mentre imbarcavamo la valigia, mentre controllavano i documenti, non ti ho detto che ci sono stati problemi prima del gate ma me la sono cavata con il mio non inglese. È che non so mai come si dice in inglese quello che voglio dire. Classica italiana, è vero.

Ho pianto mentre aspettavamo che aprissero l’imbarco, sai, davanti al negozio di Chanel. Avrei pianto comunque lì. Ma ho pianto di più. Poi ho riso, perché avevo in spalla la borsa che si è distrutta nel corso della settimana, quella che abbiamo ribattezzato “la borsaccia”, maledetta, che si è sgretolata, come me. Ti ho mandato la foto della vetrina e ho riso perché mi hai scritto che tanto non mi facevano entrare da Chanel con la borsaccia addosso.

Poi ho pianto di nuovo, in silenzio, sempre in silenzio, sempre con gli occhiali da sole. Perché? Per tutto, per niente, chi lo sa. Perché mi sto facendo vecchia e mi commuovo, perché sono finalmente una ragazza e mi emoziono.

Perché tu sei tornato a casa tua e io a casa mia. Perché per una settimana siamo stati noi. Perché non ho mai pensato a noi come a due  adulti, perché non ho mai pensato a noi in realtà. Fuori da casa nostra, quella di papà e mamma, fuori dai posti a tavola, tu sempre di fronte a me seduto dal lato dei fornelli io sempre di fronte a te dal lato del muro. Tu con papà a destra, io con mamma a destra. Non ho mai pensato che siamo diventati adulti. Che tu hai una casa, bella, bellissima, in un altro Paese, parli un’altra lingua tutto il giorno, guidi al contrario e non ti incasini. Io adesso occupo il posto a capotavola, nella mia cucina. Sono alla destra di Cristina, che è di fronte a Pepe che ha suo padre sulla destra.

Ma per una settimana siamo stati noi. Da adulti oppure no, seduti al tavolo, in giro, fermi, vicini, uguali, diversi. Abbiamo riso per niente, abbiamo parlato di mattina presto, a bassa voce per non svegliare nessuno, davanti al caffè, con la tua allergia e i fazzoletti di carta sul tavolo, chè certe cose non cambiano mai, con le mie smorfie a definire la portata di quello che ti devo raccontare, tutto uguale e tutto diverso, noi come per anni, noi come mai da anni.

Ho pianto perché sono stata bene, sono stata me, con te, con le mie figlie che tra loro iniziano ad essere complici, a prendermi in giro, te ne sei accorto, vero?!  Come noi, dopo che ci siamo detestati e picchiati, combattuti e offesi. Come noi che siamo cresciuti, sì, ma lo abbiamo fatto insieme e che è stato meglio che farlo da soli. Perché saperti nel letto accanto al mio non mi ha mai fatto sentire sola, perché sentirti rientrare di notte nella stanza accanto alla mia non mi ha mai fatto sentire sola, perché anche adesso, che dormi lontano ma sotto il mio stesso cielo mi fa sentire comunque meno sola, se penso a noi, che non ci penso ma che se poi ci penso sono felice di noi, delle cose che non ricordi e ricordo io anche per te, del linguaggio in codice che tanto è inutile nessuno ci capisce, del tempo passato e dei giorni che lo hanno abitato, del cestino di vimini con i puffi e dei pomeriggi bambini di giochi inventati, delle serie tv da guardare insieme, del non dirlo a mammaepapà tutto attaccato, delle estati a Porto Corallo e tutto ciò che non possiamo raccontare, del piede sbattuto per terra quando perdo la pazienza, del tempo passato senza che facessimo altro che non fosse vivere, senza pensare a noi come a qualcosa che è destinato a cambiare, diventare altro, diventare grande fuori dal guscio, fuori da casa, senza papà che si affaccia  in terrazzo, quella domenica mattina che siamo rientrati da chissà quale letto (tu, io lo so dov’ero) e  lui che ci guarda dall’alto mentre parcheggiamo ciascuno la propria auto , e lui serio che ci dice “la prossima volta fatevi anche la doccia calda dove dormite, non che l’acqua la pago io” e se non te lo ricordi mi incazzo, perché abbiamo riso come due scemi e lo abbiamo preso in giro per settimane…

Comunque, quando sono salita sull’aereo ho smesso di piangere. Ero più preoccupata di sopravvivere. Dopo il decollo, quando Pepe mi ha lasciato la mano perché eravamo più tranquille, ho pensato che non so come si dice in italiano. Siamo fratelli, ok, quindi, si dice fratellanza questa cosa che piango e rido e ricordo e ne inventiamo ancora una nuova che poi ci farà ridere così, solo a ripeterla, un giorno, la prossima volta? Come si dice in italiano che siamo cresciuti insieme diventando grandi e  poi a tavola da mamma ancora ci sediamo ai nostri posti? Come si dice in italiano ? Non lo so. Fratellanza è brutto, è poco, è roba diversa. L’aereo era più o meno su Parigi quando ho pensato che in inglese c’è la parola: brotherhood. Ecco, forse loro, con la loro lingua così poco articolata, così meno raffinata della nostra (sai che ho da sempre grandi riserve nei confronti di un popolo che ignora il bidet), forse loro, gli inglesi, popolo di individui liberi, patria dei principi giuridici sulla liberta personale inviolabile, forse loro hanno saputo cogliere cosa significa sapere di non essere soli per il solo fatto che uno che sorride come te e con il queale giocavi con i puffi è al mondo.

Allora, facciamo così, che adesso quando ti dirò “broderudd” tu penserai alla cassetta di Battiato nella strada verso il mare, a “valentinafalacaccaognimattina”, a Narciso quella sera che non è venuto a prenderci, al tuo amico quello che imitava Anna Oxa che doveva farmi un favore, ai macchiaioli che dipingono a macchie e senza contorni, alla vecchia con la mano tranciata in pronto soccorso, a quella con la voce assurda al funerale di nonna che ci ha fatto scoppiare a ridere come due matti e tutti ci guardano e noi diciamo che “vogliamo ricordarla ridendo”, cioè io lo dico e tu ridi ancora di più, a mamma che dice “Sonia smettila”ogni volta che tu ridi , a me seduta di fronte a te a tavola che poggio i piedi sulla tua sedia e ti arrabbi. A me. Che non ti lascio solo.

 

Siccome (see you)

 

Siccome io domani devo prendere un aereo penso. Se ho preso i documenti miei e delle ragazze, che in realtà sono sempre nel portafogli, ogni giorno tutti i giorni, quindi è un pensiero inutile.

Se ho preso un numero sufficiente di mutande e calze per tutte e tre. Che siccome vado a Londra magari lì lo trovo pure un posto dove comprarle. Altro pensiero inutile.

Se la valigia supera il peso consentito e mi fanno storie. Che poi basta pagare il sovraprezzo e quindi si risolve pure quello.

Se mio fratello non viene a prenderci perché ha un imprevisto, un contrattempo, un impiccio qualsiasi e io resto lì, con la valigia con il peso giusto, con le ragazze con i documenti e le mutande, ferma al ritiro bagagli a guardare ogni persona che passa sperando di riconoscere lui che mi basta vederlo di spalle per sapere che è lui pure tra mille persone, ma penso che non lo vedrò, non lo riconoscerò, non verrà e noi tre dovremmo cavarcela con le nostre sole forze che si risolvono nella capacità linguistica di Pepe che deve andare in quarta elementare e Cri che deve andare in prima media. Io sono ferma a qualcosa tipo “chen iu ripit bicos ai dont anderstend”. Che poi Londra è piena di italiani, che poi basta chiamare un taxi, che poi anche questo è un pensiero inutile.

Sto generando una serie di pensieri inutili, insomma. Lo sto facendo volutamente.

Siccome io domani devo prendere un aereo.

Nella mia vita di prima quando dovevo prendere un aereo funzionava così: salivo, cercavo il mio posto, flirtavo con lo steward, leggevo,scendevo, aspettavo il bagaglio.

Un attimo prima di salire chiamavo Mara per dirle che le volevo bene, solo questo. Un piccolo gesto scaramantico.

Nei primi anni di vita delle ragazze io e mio marito facevamo un viaggio all’anno da soli. Salivo su quell’aereo con un misto di senso di colpa e voglia di fuggire. Loro erano due. Piccole. Io ero una. Sfinita. Loro erano un richiamo incessante, erano un fare continuo , un fare faticoso. E quel viaggio all’anno lo aspettavo, lo sognavo, mi sentivo una merda ma lo volevo, salivo cercavo il mio posto, leggevo, non distinguevo uno steward da una hostess, dormivo, scendevo, aspettavo il bagaglio.

Poi è arrivata la vita di dopo. Non so come. Loro erano sempre due ma meno piccole, io ero sempre una ma più allenata. Il fare è diventato non solo un fare per loro ma un far fare a loro, è un altro tipo di fatica. Nella vita di dopo che è la vita di ora non voglio scappare dalle ragazze. Ci sto bene, è una vita che adesso è della mia taglia, non stringe, non è larga.

È molto bello. Ci ho guadagnato una grande consapevolezza e qualche conferma. Ci ho guadagnato la capacità di fare un passo indietro per mettere meglio a fuoco, per vedere le cose diversamente. Ci ho guadagnato la fondamentale a sicurezza che il mio tempo è limitato e perciò prezioso e che il pensiero di molti tendenzialmente non mi interessa, soprattutto quando riguarda me. Al contrario, ci ho guadagnato la capacità di riconoscere quelli il cui pensiero mi interessa, soprattutto se non riguarda me. A naso, a intuito, di pancia. Tu si, tu no. Va bene così.

Ma ci ho perso la spensieratezza. Ci ho perso il piccolo gesto scaramantico. Ci ho perso la fatalità, l’aria di chi non ha niente da perdere, la testa di chi tanto capita agli altri. Ed ecco che mentre perdevo tutto questo e guadagnavo tutto quello si è aperta una crepa come una cesura tra il prima e il dopo, una piccola, sottile, lunga, bastardissima crepa attraverso la quale si è infiltrata la paura.

Siccome io domani devo prendere un aereo, ho paura.

Una dottoressa gentile e bella mi ha detto, infilandomi dei magneti nelle orecchie per una seduta di auricoloterapia finalizzata a resettare i miei foglietti embrionali di modo che il cervello non si ricordasse di avere paura o qualcosa del genere, comunque, mi ha detto che si tratta solo, solo, di paura di perdere il controllo. Ah, ecco, ho pensato. Ma anche quello era un pensiero inutile, perché non ho mai avuto il controllo di un aereo quindi no, non penso, non mi sembra. È paura. Paura di morire, paura di soffrire, paura di perdere tutto, paura di non essere. Comunque i miei foglietti embrionali sono tosti, sono più cartoni, di quelli da pacchi che il corriere li sbatte sul furgone senza cura, non c’è scritto fragile. Proverò con altro.

Intanto provo a distrarmi con pensieri inutili, poi domani andrà così, che arriveremo con largo anticipo, imbarcheremo i bagagli che saranno del peso corretto, le ragazze avranno i documenti, avranno fame, avranno sete, passeranno sotto il metal detector senza problemi, con me suonerà, dovrò togliere le scarpe, loro rideranno, poi andremo verso il gate, loro avranno fame, avranno sete, apriranno l’imbarco, non capirò una parola, loro rideranno, controllerò di aver spento il cellulare almeno dodici volte, e metterò la borsa sotto il sedile davanti. Farò la rilassata con loro, che rideranno perché lo sanno che non è vero. Dirò a Pepe di  tenermi per mano durante il decollo.

Poi penserò. Pensieri seri, robe importanti, robe definitive sulla vita. Capirò qualche verità. Mi verrà da piangere, non piangerò. Atterreremo. Senza applauso, non è un optional cazzo.

Diego sarà al ritiro bagagli, con i suoi occhi grandi spalancati e le ragazze correranno urlando zio, zio, zio. Accenderò il cellulare. Arrivata tutto ok.

Però, siccome io domani devo prendere un aereo, Marè, ti voglio bene.

Il ritratto di Dorian Gray

 

Ora il tempo è arrivato

Di raccontare del butterato

Tranquilli, non è pericoloso

È solo un uomo invidioso

Io mi muovo con cautela

Perché è uno da querela

Ma non ho alcuna paura

Di perculare la sua bruttura

Finge suoi nobili lignaggi

Ma controlla che nei paraggi

Non ci sia chi dal passato

Sa che ciò che dice è inventato

Ha la sorte di essere brutto

E il fare di chi sa tutto

Presuntuoso e saccente

Non penso sia intelligente

Infarcito poi di paroloni

Misura delle sue ambizioni

Vestito come un damerino

Ma la farcia è roba da tacchino

Nato nel paese del manicomio

Ora prossimo al matrimonio

Questo gioco è il mio augurio

State tranquilli, non ingiurio

Ma permettetemi di dire

Che il soggetto si fa schernire

Per il livore che lo tormenta

La sera, con la luce spenta

E pensa che ha tutto calcolato

E che mai si è innamorato

Quando sente tutto il vuoto

Eredità dell’avo ignoto

E io strega birichina

Lo aspetto di mattina

Dietro il suo specchio

Il viso sempre più vecchio

Come il ritratto di Dorian Gray

Attento, io vedo ciò che sei

E di te non avrò mai pietà

È una questione di dignità

Alzo a te il mio calice

E il mio sguardo in tralice.

Le mamme tagliano

 

Le mamme che danno un taglio

lo danno subito ai capelli

più pratici anche se meno belli

limano poi le unghie corte

così non graffia la stretta forte

le mamme che danno un taglio

sanno affettare le verdure

tolgono tutte  le parti scure

sanno cosa portare via

ma questa è solo un’allegoria

le mamme che danno un taglio

chiudono loro un discorso

poi fanno i conti con il rimorso

anche per giorni interi

per quei gesti così severi

le mamme che danno un taglio

non accorciano più le gonne

ma si sentono sempre donne

forse anche più di prima

o forse no, ma così fa rima

le mamme che danno un taglio

hanno sempre una cicatrice

grazie alla quale sentirsi felice

per essere sopravvissute

a tutte quante le cadute

le mamme che danno un taglio

sanno di essere affilate

perché si sono scheggiate

ma sanno anche come smussare

se non hanno più conti da pagare

le mamme che danno un taglio

ti dicono tutto a muso duro

ti amano come si ama il futuro

perché il taglio vero che hanno dato

in fondo è solo quello con il passato.

 

 

 

 

 

Il più grande spettacolo

 

Se è vero che la gente è il più grande spettacolo del mondo, e non si paga il biglietto, allora io non voglio più assistere allo spettacolo.

Oppure voglio assisterci come faceva lui, Bukowski, che di questa frase è l’autore  e che era libero di urlare contro la gente e lo spettacolo che rappresentava, era libero di essere un maledetto, era libero di sbattersene  fino in fondo.

Se così non può essere, no, io non voglio più vedere certa gente. Basta, sono stanca. Esausta. È uno spettacolo brutto, indegno, triste ma non di una tristezza che scuote l’animo quanto di una tristezza che rivolta lo stomaco e costringe a vomitare o a impugnare una tastiera come se fosse un fucile e colpire colpire colpire sperando di farne cadere quanti più possibile o almeno solo loro, quelli che  adesso basta, quelli che ne hanno dette e fatte talmente tante che non se ne può sopportare nemmeno una in più, nemmeno mezza, che ti viene una roba sul corpo come un eczema o come la psoriasi e ti devi grattare per il fastidio non perché sei sensibile ma perché sei sensibilizzato come si è  a un agente chimico nocivo.

E dopo i colpi, e dopo il prurito, dopo le parolacce trattenute resta sul fondo della gola secca solo il disagio, l’amaro, il rinculo dello sparo, il disgusto. La gente continua a essere lo spettacolo che è, quella gente continua a essere brutta da vedere e orrenda da sentire eppure continua a essere e ti tieni stretto il tuo disgusto e ti chiedi perché. Ti chiedi come si fa a essere un maledetto. Ti chiedi se davvero puoi , se davvero sei libero di non guardare più. O di guardare e urlare contro. Sempre. Di fronte alla prepotenza, alla bruttura, alla stupidità, alla cacofonia, alla presunzione. Urlare.

Perché è solo questo, oggi, che vorrei. Essere una maledetta che può inveire e avere il passaporto di artista folle a farmi da lasciapassare e a mettere distanza tra me e la miseria umana di quella gente assurda e brutta che non so se è  uno spettacolo ma so per certo, caro Charles che  si paga il biglietto.

Io lo pago, porca miseria se lo pago. Quanto l’ho pagato questo dannato biglietto e quanto ancora lo pago, quando come oggi mi devo fermare, mi devo trattenere e scuoto sul fondo l’amaro, il disgusto, il rinculo di tutte le parole che scaglio su un foglio e poi basta. Poi basta. Finisce così, finisce che non finisce nemmeno questa volta, finisce che quella brutta gente continua a essere e io continuo a sentire. A me rimbombano le orecchie. A loro la scarsa memoria ha pulito la coscienza e io, invece, Mnemosine in chiave contemporanea e più rompicoglioni, so e ricordo e sento il peso di tutto questo. E allora ecco che tornano su come sassi mai digeriti le frasi e le recriminazioni, le scuse e le bugie, la strumentalizzazione delle mie figlie, le accuse, i giudizi, torna su tutto  con la sua etichetta con la data e gli ingredienti. E quando lo sguardo mi cade lì, su quella gente, mi assale solo una furia cieca e un desiderio di afferrare per i capelli e dire dire dire tutto, tutto quello che davvero penso, tutto quello che davvero sei, perché ti vedo, lo so chi sei, vedo la tua meschinità e la tua pochezza, e si, devo proprio dirtelo che no, non sei uno spettacolo, sei solo una miseria, sei solo un niente travestito da qualcosa perché ti hanno ripulito, ci hanno provato, sei solo qualcosa di venuto male, al mondo, in foto, nella vita, a letto. Sei questo, questo pezzo dello spettacolo, quello che non piace, quello che fa schifo. Quello che viene fischiato.

Oggi è così. Oggi lo spettacolo è stato pessimo, oggi ho dovuto pagare il biglietto e stare ferma, non essere libera, non essere maledetta. Oggi mi sono stata stretta. E non mi piaccio mai quando mi sto stretta.

Fanculo.

Elementare

 

È finita la quinta elementare. È finita anche la terza elementare. Anzi, la classe quinta e la classe terza della scuola primaria di primo grado. O quel che è. Le elementari, dai. Che poi elementari non  sono per niente. Perché Cristina è entrata in quella classe a sei anni con la frangetta e la maglia dei supereroi  sulla pancia tonda e aveva le mani grassocce e sempre sporche di pennarello, la bocca sdentata e  ne è uscita oggi, che manca un mese a compierne undici, con la coda di cavallo,gli shorts su gambe lunghe da fenicottero, i brufoli, il top al posto della canottiera e l’apparecchio ai denti a inibirle il sorriso, tranne quando passa “lui” che comunque non ha capito di lei e sono buffi, belli, sgraziati e tutt’altro che elementari.

Pepe, lei, invece è a metà, ha appena fatto il giro di boa, ha abbracciato la maestra Monica poi mi ha preso per mano ed è uscita dal cancello, raccontandomi la giornata come sempre, con un fiume di parole. Perché quest’anno Pepe ha imparato a usare le parole per farne ciò che vuole, per farne ciò che la fa stare bene. Ha imparato a scrivere di sé, a parlare di sé senza paura, a mettere in evidenza i suoi talenti, quel bagaglio prezioso che si porta dietro dalla stella da cui arriva. Nemmeno questo è elementare.

No. Non c’è niente di elementare, nel diventare se stessi.

Quando io ho finito la quinta c’era ancora l’esame, con la prova di italiano e la prova di matematica, nessuna lingua straniera, una ricerca di storia, una di geografia e forse una di scienze ma non ricordo. Un’interrogazione orale con le maestre delle altre classi. Un esame vero, insomma. Poi avveniva il passaggio. Era netto, era chiaro.

Io non avevo il top al posto della canottiera, non avevo le gambe lunghe come un fenicottero. Ero più come Pepe adesso, una bambina con gli occhiali che scriveva di sé senza se, perchè era la sola cosa da fare, la sola strada possibile. E quel passaggio così netto, sancito da un momento formale come solo un esame può essere in realtà non lo ricordo così significativo. Ricordo la mano di mio padre appena fuori dalla porta dell’aula, per scendere giù dalle scale e andare a casa, con quel piccolo traguardo, tutt’altro che elementare, raggiunto. Ricordo che non parlavo come un fiume in piena perché, in fondo, non pensavo che potesse interessare quello che avevo nella testa.

Oggi non mi sono commossa, non ho provato un’emozione particolare, vedevo altre madri in lacrime, visibilmente scosse e, cinicamente, ho pensato che fosse dovuto al fatto che ora sono cazzi, questi sono a casa, che gli fai fare per tre mesi?! No, io oggi non mi sono commossa ma mi sono sentita fiera. E ci ho messo tutta la vita per imparare a riconoscere la sensazione e soprattutto a riconoscere che posso permettermelo. Io oggi mi sono sentita fiera delle mie due ragazze, il fenicottero con il sorriso metallico e selettivo, riservato a pochi, pochissimi, che entra a scuola veloce, senza salutarmi, con lo zaino su una spalla sola e che in questi cinque anni ha imparato tanto, ha studiato controvoglia, ha visto il male arrivarle addosso da degli insospettabili e ha imparato a tenere la guardia alta, a parare e a calciare forte senza mai dimenticare la correttezza. E la piccola, che poi piccola non è più, ma che lo resterà per sempre, la piccola che quest’anno ha imparato le operazioni con i decimali, a suonare la campana tibetana, l’analisi grammaticale e a usare la parola indistricabile.

Io oggi mi sono sentita fiera di me. Delle mattine con la sveglia alle sei da settembre a giugno. Dei pomeriggi di studio, di torte nel forno, di feste di compleanno, di allenamenti dall’altra parte della città, di musi lunghi e risate irrefrenabili. Di lavatrici da stendere e zaini del nuoto da preparare. Di cazziatoni per un voto mediocre. Di uscite anticipate per il dentista. O per l’oculista. O per il dermatologo. O per l’ortopedico. Del silenzio di sera, ciascuno a letto, le luci sul comodino per leggere.  Della porta della mia camera che poi si apre, sempre, a un certo punto e fanno capolino, una alla volta, per un bacio ancora, prima di dormire alla fine di tutto, scalze con i pigiami spaiati ma i denti lavati, come adesso mentre scrivo che sono già arrivate, andate, tornate. E alla fine mi innervosisco, rispondo male, perché io sono qui che scrivo e loro mi interrompono e sembra che non sia importante e poi forse non lo è davvero ma tanto ormai è fatta e riprendere dopo non è facile, ma poi forse non ne vale nemmeno la pena, per dire cosa, in fondo? Che sono fiera di fare quello che ogni madre fa? Che sono fiera delle mie figlie che, in quanto tali, sono meglio di altri ragazzini occhialuti e con l’apparecchio? E’ questo che mi rende fiera? No, non è questo. Sono fiera di quella bambina che ha iniziato a parlare come un fiume in piena perché ha trovato una quarantenne occhialuta che l’ascolta. Ci sono voluti  trent’anni. Ci sono volute loro due. E non è stato per niente elementare.

Roberta

 

La mia amica Roberta

Con la bicicletta è esperta

Pedala senza alcuna sosta

È uno sforzo che non le costa

Se non sa da che parte andare

Alza i piedi al vento lascia fare

Eppure in un giorno dispettoso

O per un pensiero scivoloso

Non ha visto quel gradino

E giù a terra:frattura del bacino

Così in un letto d’ospedale

Ha iniziato a sentire il male

Non tanto dell’osso scheggiato

Ma di tutto quello che è passato

Attraverso le strade percorse

E di chi risponde con i “forse”

Ma poi ha sentito il bene

Non solo quello da ibuprofene

Ma di tutto quel via vai

Di chi ti chiede come stai

Del telefono che squilla

Del sono qui, stai tranquilla

Ha visto tutti gli amici

Arrivare a piedi o in bici

In auto o solo col pensiero

E ha capito che è amore vero

Non quello che ti lascia sconfitta

Ma quello che ti toglie la fitta

Del dolore tutto annodato

In qualche angolo dimenticato

Quell’amore a cui andare

Appena potrà pedalare

Senza rifare le strade vecchie

Senza i forse nelle orecchie

Con i capelli slegati

E i nodi districati

Perché io ne sono certa

Torna a pedalare, Roberta.