Ho segni di pennarello sul corpo, cerchi rossi, piccoli e distratti. Sui fianchi, sulla pancia. Sull’ esterno coscia e sulla schiena appena sopra il sedere, dove finisce la colonna e ci sono, o almeno io ho, quelle due fossette come pizzicotti decisi. E ho segni di pennarello verde verticali che corrono lungo gli addominali come spicchi di un’arancia, anzi di pompelmo. Sfumature di asprezza. Sono i segni che illustrano la nuova geografia del mio corpo e dei miei muscoli. C’è stata una separazione, diastasi, si dice diastasi, ed è stata come una deriva dei continenti che ha cambiato lo scenario per sempre. Si può correggere, la separazione, diastasi, si dice diastasi. Il chirurgo già che è lì che ripara, anzi già che io sono lì, può correggere anche i difetti che ha cerchiato in rosso. Le correzioni, tanto, sono per forza in rosso. Mia madre ha sempre usato la penna rossa per correggere i compiti dei bambini. Si metteva in cucina, con tutti i fogli sparsi sul tavolo, la cena sul fuoco, una sigaretta via l’altra, correggeva, commentava, scuoteva la testa, girava la cena, anni e anni così di penna rossa. Ma il chirurgo mi fa scegliere. Lei no. Nessuna maestra ti lascia decidere se ti sta bene l’errore o meno. Nessuna madre.
Se ci vivi bene te lo tieni. Se ti piaci lo stesso. Se ti piace lo stesso l’errore nel tema, nel problema, la moltiplicazione, l’analisi grammaticale, se ti piace lo stesso lasciamo tutto così. “se ti piaci lo stesso”. L’ha detto a me, l’ha chiesto a me, il dottore, mentre ero in mutande davanti a lui e al suo specchio. A me. Che non mi piaccio dal 1984, che non mi piaccio mai, che non vivo bene con nessuno soprattutto con me stessa, nemmeno con me stessa e che se avessi potuto quante volte mi sarei presa una pausa di riflessione da me anche solo come scusa per frequentare un’altra e lasciarmi. A me l’ha chiesto, nuda e scarabocchiata, senza grazia, senza cura, un segno qui, uno lì, due segni uno sull’altro che si accavallano, doppio difetto. No, dottore. Non mi piaccio. Non vivo bene. È una storia lontana, di cerchi rossi. Non i tuoi, non questi, non ora. Non c’entri tu. E nemmeno queste righe verdi che hai tirato dall’alto in basso sulla mia pancia partendo da sotto il seno fino al pube. Non c’entra nemmeno la pelle in esubero che mi hai pizzicato sotto l’ombelico per mostrarmela inutile. Cerchio rosso con linea verde. Si accavallano, doppio difetto. Mi si sono accavallati anche i pensieri per un momento, a far male come quando si accavallano i nervi, lo so, dottore che non si accavallano per davvero i nervi ma che si dice così quando fa quel male che sembra si siano accavallati. E mi sono accavallate anche due lacrime, due giuste. Ho pensato cose sciocche, per un momento, quello in cui ero accavallata, ho pensato che il mio parrucchiere, lui, mi fa sempre sentire figa e tu, tu, mi stai facendo sentire cessa e allora io non so più come mi sento, se figa o cessa. Dipende. Cerchio rosso, linea verde, pelle grinzosa, ciccia ma poca, magra ma migliorabile. E i due pizzicotti, quelli sopra il culo, quelli no, dottore. Quelli pensavo fossero speciali, pensavo fossero le fossette che non ho in viso quando sorrido e pensavo che a me le avessero montate dietro, ecco, e adesso tu me le cerchi come errori. Non c’entri tu, dottore, ti assicuro. Tu che mi prospetti la riparazione di questa separazione, diastasi, si dice diastasi e non sai quello che per questa pancia è passato, ci disegni sopra cerchi imperfetti mentre cerchi la perfezione su di me, illuso. Mi fai tenerezza, ora. Ma sono ancora accavallata, forse non vale. Mi fai tenerezza per quel tuo mostrarmi come potrei migliorare la ciccia, ma poca, e aggiungi la parola “mini” alla parola addominoplastica per renderla più facile e leggera.
Questa pancia non ha visto niente di leggero e facile. La separazione, diastasi, si dice diastasi, che vedi è lo spazio dove c’erano i piedi delle mie figlie. Puntavano proprio lì. Lo ricordo bene, dottore, mi calciavano in quel punto facendo un bozzetto e allora io spingevo con il dito, l’indice, e loro scappavano in quello spazio sempre più stretto e i miei muscoli cedevano e concedevano ed è ancora così, dottore, fuori dalla pancia, loro si impuntano, io alzo l’indice, si fanno spazio, cedo, concedo. Entrano nel mondo. Attraverso di me. Bisogna spiegarlo alle suocere quando offendono le madri.
È lo spazio dove ha battuto per la prima e per l’ultima volta il cuore di mio figlio nell’accavallarsi di dodici settimane, prima c’era e poi non c’era più. Che è come esserci per sempre. Il dieci agosto c’è per sempre ogni dieci agosto, il giorno in cui è andato via senza impuntarsi mai, scrivilo alla voce interventi chirurgici subiti: raschiamento. Senza mini. E non in rosso, perché questo non si può correggere.
E no, dottore, no. Non mi piaccio. Non mi piace la mia pancia e la separazione, diastasi, si dice diastasi. Mi copro sempre. E nemmeno il resto, quello che hai cerchiato, non mi piace. Non sempre, al secondo bicchiere di vino, rosso, un po’ di più o forse ci penso un po’ meno. Non mi piace nemmeno la forma dell’ombelico. Hai fatto bene a cerchiarlo di rosso, sarebbe da correggere. Ma sai, mi hanno già tolto un’ernia che era lì, sporgeva. Da allora ha questa forma triste, l’espressione vaga di chi non si è più ripreso. Sai cosa è stato? Lo sforzo, si. Lo sforzo di essere migliore. Lo sforzo di essere madre con la paura di non essere una buona madre. Lo sforzo di alzarmi ogni mattina per regalare sorrisi, io che non sorriderei per me ma per loro si. Lo sforzo di non usare mai la penna rossa ma solo l’indice per indicare la luna, per dirigere l’orchestra, per cantare ci sono due coccodrilli e un orangotango, per raccomandare il silenzio che ora si dorme, per dire no, questo non si fa, per fare cenno che si, vieni qui, avvicinati e lasciati tratteggiare con cura che mi piaci, tu si che mi piaci, per accavallarlo con il dito medio e sperare nella buona sorte.
Ma cosa vuoi dottore, io non uso diminutivi, non aggiungo suffissi, non uso la mini nemmeno se si tratta di una gonna, ormai. Mi arrangio sempre un po’, in un accavallarsi tra cessa e figa. Ma provo a farlo con maggiore cura di una volta. Ecco, dottore, mi maneggio con cautela, adesso. Con attenzione. Perché sono fragile. Sempre di più. Tanto più è robusto quello che creo quanto più sono frangibile io. Allora mi dispiace di averti usato per cercare di capire e di aver provato tenerezza, di aver pensato che un uomo, forse, di estetica non capisce molto. Scusami se ho riso per le mie fossette sul sedere, è che ormai hanno la forma dei pollici di mio marito, al punto che pensavo, prima, quando ero accavallata, che forse me li ha lasciati lui in realtà quei solchi, in questi diciotto anni di abbracci che finiscono sempre lì, in quel punto. Mi dispiace, ma ho prenotato un taglio di capelli dal mio parrucchiere che mi dice sempre che invecchiare è un privilegio, ci andrò sabato. Mi dispiace per tutti quei paciocchi sulla mia pancia, hai giocato come un bambino con il pongo, li guarderò stasera prima di entrare in doccia e lavarli via. I difetti, la pelle in esubero, la ciccia, poca, per adesso li tengo. Non ci vivrò bene, questo lo so già. Si tratta del mio corpo, che diventa un estraneo in certi momenti, quelli accavallati, e si tratta di prenderci confidenza, di ripartire da capo, con le presentazioni e con il corteggiamento. Un corpo più vissuto di un tempo, certo. Per ogni cerchio rosso c’è una spiegazione, una storia, che parte lontana da altri segni, rossi, o forse no, non importa. È un corpo che racconta una storia, la mia, a volte non lo ricordo e lo condanno come se fosse stato usato da un’altra. Un corpo a volte estraneo, a volte adultero e invece no. Un corpo a cui si reca offesa non cerchiandolo di rosso ma smettendo di guardarlo, di percorrerlo, di tratteggiarlo. Un corpo che racconta la separazione, no, non si dice diastasi, che lacera per sempre, quella che con l’indice spinge ad andarsene nel mondo, raccoglie una lacrima, la porta al centro del ventre dove c’è stato un cuore che batteva e piedi che scalciavano, accavallati tra loro.