Tu hai preso un treno per Milano e io ti ho lasciato il trolley pronto, solo da portare via. Io ho preso un giorno di ferie e tu mi hai lasciato le chiavi della macchina grande al solito posto, sul mobile dell’ingresso.
Non ci sono abituata. A te che non ci sei a dormire, alla macchina grande, a un martedì che sembra domenica e non puoi capire cosa danno in televisione durante un giorno che sembra domenica ma è martedì.
Ho lasciato il brusio di alcuni pensieri come sottofondo. Ho preso il ritmo di un ricordo che ce l’ho che mi rimbomba da un po’, mi solletica i capelli. È un ricordo di quel che è successo a me, lontano da me, come a una festa quando tutti ballano e tu stai in un angolo ad aspettare. Che finisca la musica, che taglino la torta, che entri qualcuno che conosci, finalmente,  intanto ti appunti i nomi e le facce e non coincidono mai le facce con quei nomi e allora resti generico, vago, aspetti. Chissà se il mio nome resta appuntato alla mia faccia. Penso di no, ho scoperto che le nuove conoscenze, quelle che arrivano dalle bambine, mi chiamano Cristina. Per molti sono Sonia la mamma di Cristina. Per molti sono direttamente Cristina. Ho scoperto che mi giro lo stesso, sai, se sento chiamare Cristina. Lascio che mi cambino il nome.
È un ricordo dove tu non ci sei, che strano. È un ricordo dove non ci sono, più, nemmeno io. È un ricordo di quel che mi è stato lasciato, di quel che è stato preso, quando tu non c’eri, quando io c’ero e mi chiamavano solo Sonia e non mi giravo se mi chiamavano con un altro nome e a Milano, magari, ci andavo io e alle feste stavo, comunque, in un angolo. Acuto. È un ricordo dove poi tu arrivi, come sempre. E mi trovi con quel che è stato lasciato, senza quel che è stato preso, e hai la mia faccia appuntata addosso e la riconosci, da chissà dove, senza avermi mai vista prima e non mi chiami Sonia, nemmeno Cristina, nemmeno sai come mi chiamo.
È un ricordo che vive del suo abbrivio, il tempo di lasciarlo andare e poi finisce alla deriva o si infrange da qualche parte, va in pezzi e quei pezzi si sparpagliano e così li ritrovo e su ciascuno c’è una parte che è una parte di come ero e di come non sono, di cosa è stato preso, di cosa è stato lasciato. Non li raccolgo, non li ricompongo, ma li guardo. Li collego al brusio dei pensieri di sottofondo, faccio da corpo calloso a tutto questo prendere o lasciare che, oggi, mi riguarda di più solo perché lo sento di più, solo perché è da troppo che tutto gira tra lo spazio, sempre quello, del mio stomaco e della mia pelle.
Sono quel che è rimasto. Più te.
Sono quel che è stato lasciato, sono quel che non è stato portato via. Più te. Meno te. Più quello che hai portato, meno quello che hai preso.
È stato lasciato lo stomaco ed è stata lasciata la pelle, entrambi acciaccati e sensibilizzati e maggiormente intolleranti. Hanno preso le farfalle, penso siano in giro per Milano. Hanno portato via lo strato più sottile di pelle, come dopo una bruciatura al mare, come quando ti spelli sulle spalle o sul naso e poi, con gli anni, con la protezione, con la minor esposizione, non ti spelli più. Quel che è rimasto, quando sei arrivato tu, era questo. Lo stomaco ancora forte, ma senza lepidotteri. E la pelle, ma più spessa.
È stato lasciato il sorriso ma hanno portato via ettolitri di lacrime, non hanno lasciato riserve. Quando sei arrivato tu ho cominciato a metterle da parte di nuovo. Ne hai già prese tante anche tu.
È stato portato via il silenzio ed è stata lasciata la solitudine, quel non riuscire a stare con nessuno se non con quella parte così lontana di sé che diventa altro da sé e in quella lontananza si trova conforto e in quella solitudine si trova compagnia. Quando sei arrivato tu ero sola nel rumore.
È stato lasciato il tempo del futuro, la maggior parte. È stato preso il tempo del passato, semplice e imperfetto. È stato portato via l’imperativo. Non quello categorico. È stato lasciato il condizionale. Quando sei arrivato tu non avevo l’uso dell’infinito. Nemmeno tu, ma hai portato il presente.
È stato lasciato ogni dubbio al suo posto, è stata presa ogni certezza con furbizia, con scaltrezza, smontandone un pezzo alla volta, minandone la veridicità, travestendola da insicurezza, da ipotesi, da esitazione. Quando sei arrivato tu ho avuto il dubbio che fossi la mia certezza più grande.
È stata presa la tenerezza, i cuori sulle agende, gli squilli al telefonino, le iniziali scritte con il bianchetto, la smania di scoprire e andare oltre, la voglia di giustificare, la capacità di farlo.
Sono stati lasciati, in cambio, graffi ed ecchimosi sull’autostima, lividi e segni di percosse sull’istinto a fidarsi, lesioni gravi all’orgoglio. Quando sei arrivato tu avevo ancora l’odore delle medicazioni addosso. Ma tu avevi le tue, di medicazioni, e non ci hai fatto caso.
È stato lasciato il sarcasmo come il pungiglione di una vespa. Attaccato al culo, è l’ape che lo perde. È stato lasciato il distacco come sesto senso. La capacità di andare via e non tornare, l’attitudine a chiudere troncando, con cesure brusche, senza complimenti, senza giri di parole, senza sospesi da incassare. È stato portato via il gusto di lasciar perdere, la capacità di respirare con il diaframma e rilassarmi, la diplomazia. Quando sei arrivato tu “vaffanculo” era la mia parola preferita. Lo è ancora. E tu l’hai lasciata così com’è.
Sono stati lasciati gli occhi e quel che hanno visto e quel che possono vedere quando sembra non ci sia nulla da guardare e le immagini impresse e le parole che si possono vedere anche quelle, anche quelle che non sono scritte, e gli odori, i profumi, i ricordi. E sono stati portati via i destinatari di quelle parole e la pelle che aveva quel profumo e gli abiti con i loro odori e i ricordi, ma solo quelli più lievi, perché il carico pesante lo hanno lasciato a me, costava troppo il trasporto e allora quando sei arrivato tu ero zavorrata da questi pesi e tu mi hai detto che per fortuna avevo gli occhi neri, perché di occhi azzurri eri circondato, non avevo voluto capire ma gli occhi neri , quelli me li avevano lasciati e ci vedevo te, le tue parole, le tue zavorre e ho dimenticato i ricordi, quelli più pesanti.
È stata portata via l’obbedienza. E non la rimpiango, che se la tengano. Ho raccattato in giro la disobbedienza, intellettuale ed emotiva. Mi piace di più. È stata portata via la dolcezza, era poca, ci hanno messo niente a metterla in tasca e andarsene. È stato lasciato il senso del dovere e il suo compare, il senso di colpa.  Ma li sto patteggiando. Quando sei arrivato tu pensavo di averti fatto male io. Ed era la cicatrice di un’ustione da caffettiera che ti sei procurato a 4 anni.
Sono state prese delle canzoni, per sempre. Sono state lasciate delle canzoni, per sempre. Quando sei arrivato tu mi hai detto che la sera facevi il d-jay. E dietro alcune mie richieste io lo so che tu sai che non ci sei tu ma quel che mi è stato preso, quel che mi è stato lasciato. Ma tu sei un d-jay che prende le richieste che gli fai, che lascia la musica e guarda quelli che ballano e chi no, chi resta ad aspettare in un angolo. Acuto.

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