Dice che non dormirò più come dormivo prima, o che potrebbe essere così, quindi che è inutile fissarmi e dire che no, io voglio dormire così perché sono fatta di queste piccole resistenze, ostinate opposizioni, e voglio un riposo lungo e profondo per almeno otto ore consecutive che mi consegni da un giorno all’altro senza sofferenze. Come prima. Non quando ero studentessa e frequentavo il liceo anche il sabato e avevo solo la domenica per dormire e non potevo farlo fino a tardi perché a mia madre dava fastidio. Ci sono tante cose da fare, diceva. Cosa perdi tempo a dormire, diceva. Non quando lavoravo e andavo in Facoltà solo per gli esami e mi restavano il sabato e la domenica per studiare e allora avevo tante cose da fare, mi dicevo. Non potevo perdere tempo a dormire, mi dicevo. Come prima quando finalmente ero libera di decidere quando uscire e con chi e non dovevo chiedere il permesso e trattare sull’orario e allora cosa torni a casa a dormire, ci sono tante cose di cui parlare fino a notte fonda, mi dicevano, non vorrai perdere tempo a dormire, mi dicevano.

 

Dice sei la migliore. Fra quante? Chiedo io. Fra tutte, nel mondo, dice. Ti sei informato bene, dico. Chiedo. E poi dico sei rimasto il solo a pensarlo, forse sei sempre stato il solo a pensarlo. Ed è l’alba e in camera è buio. Dice meglio così, pensa se fosse il contrario, pensa se fossi il solo a non pensarlo. Sarebbe un casino dico. Stropiccio il cuscino, ho le righe sulla faccia ma non le vedo, le sento come la pelle che pizzica per il vento, che viene da aprire la bocca come in uno sbadiglio. Faccio un colpo di tosse ma è finto, si bagnano le guance e ci passo la mano, al buio, mi giro e non va bene nemmeno così, non va bene, non va bene, dico. Hai dormito, dice, non ti ho sentita. Male, male, dico. E ti ho sentito alzarti e tornare, girarti e non andava bene nemmeno così. Cosa fai oggi, dice. Ufficio di mattina e matematica con Pepe di pomeriggio e poi Cri si allena. Il solito, dice. Si. Allunga la mano e anch’io. Vuoi la colazione, dice. Si, anche se è presto, tanto ormai è andata così, dico, al solito.

 

Dice che a un certo punto della vita capisci, finalmente, i tuoi genitori. Io sono al punto in cui capisco, profondamente, le mie figlie. Tutte quelle piccole resistenze, ostinate opposizioni che le abitano e che abitano le loro stanze e i loro armadi e le pareti e i biglietti sulle pareti e l’ordine maniacale di una e il disordine maniacale dell’altra. Forse non li capirò mai i miei genitori, dico. Si poteva fare in un altro modo. No, non si poteva, dice, è inutile fissarmi e dire no. Si può fare adesso in un altro modo, dico. Adesso che su quella linea retta la distanza tra i punti non è grande, adesso che se allungo la mano li sfioro, dico. Dice che è una circonferenza non una linea retta. Sono a testa in giù, dico.

 

Dice che le sto crescendo così, saranno donne così. Così come, dico. Chiedo. Così, quelle donne che parlano della propria madre come di un punto di riferimento fondamentale, come della donna più importante della vita, il modello di vita, dice. Mi sento male, dico. Per carità, dico. Davvero, dico. Chiedo. Dice che è vero. Dice ci sei sempre. Non sanno cosa vuol dire non poter fare affidamento su di te, non trovarti in ogni momento solo allungando la mano o chiamando il tuo nome. Sonia, dico. Chiedo. Dice no, mamma, il tuo nome è cambiato adesso, nella tribù. Il tuo cognome passa sotto nel citofono e sulla buca delle lettere, a scuola i professori lo ignorano proprio il tuo cognome, anche il tuo nome non serve più. Come le suore, dico. Dice più o meno così. Anche senza vocazione, dico. Chiedo. Dice anche senza. Mi fanno paura quelle donne così, quelle che adorano la propria madre perché non le capisco, dico. Dice che quel che non si capisce non deve far paura. Glielo dico sempre anch’io alle mie ragazze, dico. E che sono le migliori, anche quello glielo dico sempre. E che non importa le donne che saranno purché siano felici, in quel caso importa, a me, dico. A me importerà sempre, dico.

 

Dice vengo a vedere se hai scritto e non hai scritto. Lo so, mi mancano silenzio e solitudine, dico. E camminare senza meta, fissare il vuoto senza fornire spiegazioni, dimenticare qualcosa. Dice non ti corre dietro nessuno, hai la fortuna di farlo quando vuoi se vuoi, di giocare, di divertirti. Non c’è altro che vorrei fare, dico. E non mi diverte. E non gioco. È che non riesco, io, non riesco sempre e a volte non riesco mai e altre volte riesco ma non so come, dico. Dice la fai lunga, sempre più lunga e difficile di quel che è, non ne esci viva se fai così. Nessuno ne esce vivo, dico.

Dice che alcuni cartoni possiamo portarli anche noi da soli. Quelli con le cose più fragili, dico. Chiedo. Il servizio di tazze dei miei nonni. I libri. Dice che quelli non sono fragili. Dipende, dico. Taglio lo scotch marrone, chiudo il pacco e scrivo un numero che poi riporto su un foglio, in ordine crescente, così sarà più facile organizzare il trasloco. Dice non abbiamo molte cose. Finché non devi metterle in uno scatolone, dico. Quattordici anni di convivenza da spostare in un’altra casa. Pentole, posate, piumoni e cuscini. Libri, disegni della scuola materna, tappi di Tupperware dati per dispersi, scarpe di Barbie spaiate, biglietti di auguri, medicine scadute, confetti, il gesso del gomito di Cri, racchette da tennis di ogni misura, la chitarra, il tappo da naso per la piscina. Cri attaccata alla ringhiera del terrazzo che offre il suo biberon al cane. Pepe che piange di notte in salotto io che piango insieme a lei, il bagno con tutti i giochini dentro e le bolle di sapone sul pavimento, il vasino vicino al bidet, l’albero di Natale nell’angolo vicino al termosifone, il primo giorno di scuola, la varicella, mio nonno che muore mentre le bimbe sono nella piscinetta colorata in giardino, la tappezzeria in camera di Pepe, il silenzio della domenica a pranzo, Cento che appoggia il muso sul mio pancione, Nuvola che aspetta un pezzo di prosciutto sotto il seggiolone. Tutto questo negli scatoloni come lo metto, dico. Chiedo.

 

Dice volevi una casa così, come questa. Si, dico. È che non so se è grande o se è piccola ma anche per le cosce mi succede così che dipende dal momento. Quando l’ho conosciuto volevo una casa ma non sapevo come e dove e non la volevo con lui comunque. Lui non sapeva nemmeno scrivere la parola casa e l’avrebbe avuta con un’altra comunque. Una notte che non potevamo perdere tempo a dormire gli avevo chiesto di disegnare una casa sul tovagliolo di un pub. Aveva fatto solo il tetto, senza nemmeno chiuderlo, un triangolo isoscele senza la base, una capanna indiana senza indiani poggiata sulla terra e basta. Questa non è una casa. Questa è una casa per me. Dice volevi una casa così, come questa. Chiede. Si. Perché ha il tetto a punta che sembra un triangolo isoscele o una capanna indiana, dico. Dice che le cose fragili sono al riparo se la casa è fatta così. Anche le persone, dico. Chiedo. Dice sì, cose e persone sono lì, sotto la punta, al sicuro. Anche le speranze, dico. Chiedo. Dice sì e anche le paure che so che poi chiedi anche per le paure. E la base del triangolo, dico. Chiedo. Dice lo sai, ormai lo sai. Siamo noi, dico.

 

casa

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