Non ce li avevamo i morti, i nostri morti erano lontani e quindi stavano sui comodini o sul cassettone in camera da letto, dentro cornici spesse senza polvere, bianchi e neri da non sapere di che colore avessero i capelli o gli occhi. Bisognava chiedere.  I morti sepolti qui erano pochi, uno o due, non di più. Venuti su e morti in esilio, noi eravamo la prima generazione nata qui, ci mancava la prima generazione di morti.

Troppi fiori per poche lapidi, i fiori avanzati mio nonno li distribuiva tra le tombe dimenticate, quelle in evidente stato di abbandono, sulla strada del ritorno verso l’uscita, gli metteva tristezza che non ci fosse nessuno a ricordarsene. Lui, qui, morti suoi non ne aveva e nemmeno foto, solo una un po’ lisa, consumata con gli occhi, sua madre morta per un’infezione dopo il parto, il suo. Mi fai rivedere la foto, come si chiamava? Carolina, lavorava, nessuna donna lavorava lei invece lavorava, aveva le palle mia madre. Guardala, guarda la bocca, è come la tua. Ma che ne sai, non l’hai mai vista. Ma l’ho sognata ogni notte e a te ti vedo, siete belle uguali. Con suo padre non si parlava più da anni quando è morto, è morto giù. La mamma di mia nonna, invece, è morta qui, otto mesi dopo la mia nascita: “lei ti ha conosciuta e tu non hai fatto in tempo a conoscere lei”. Era contenta di diventare bisnonna? Non lo so, quando le abbiamo detto di te ha commentato chi va per mare di questi pesci piglia. Io ero il pesce? Sì. Com’era? Aveva gli occhi verdi e la pelle chiara. Allora nonna non le somiglia. No, nessuna figlia. Assomigliano tutte al padre.

Il padre di mia nonna è morto qui ma è sepolto giù. Ha voluto così, tornare accanto alla prima moglie. Era vedovo, la nonna con gli occhi verdi era la seconda moglie, gli ha fatto cinque figlie, tutte femmine. Gli prendevano i nervi ogni volta. Tutte uguali a lui. Stava nella foto sul comò, con la camicia arrotolata fino ai gomiti, le mani appoggiate su un bancone, le bretelle. Aveva un emporio, non si è patita la fame in guerra anche se c’era il razionamento. Quanti anni avevi, nonna? Otto, nove, dodici quando è finita. Dov’era l’emporio? In piazza Carlo III, vicino alla stazione. In centro? Abbastanza, noi abitavamo sopra e l’emporio stava sotto. Di cosa è morto? Un trombo, pure tuo padre se lo ricorda. Era brutto, e pure stronzo, per quella cosa delle femmine, lo penso ma non lo dico. Ho conosciuto tuo nonno lì,dietro a quel bancone, era soldato con mio fratello, fratellastro, il solo maschio, figlio del primo matrimonio. Avevano fatto un patto, il primo dei due che tornava a Napoli avvisava la famiglia dell’altro, si presentava, andava a portare notizie. È tornato prima tuo nonno, è entrato, ha parlato con mio padre. Com’era? Bello. Profumato.

Mia nonna zoppica, cammina a fatica, percorre il cimitero sottobraccio al nonno, dritto e ben vestito, stando ai miei calcoli se io ho quattro anni lei ne ha quarantanove. Mio padre ventinove. Mia nonna è vecchia e grassa, si lamenta sempre, sulla tomba di sua madre piange, si bacia la mano sulla punta delle dita e le poggia sulla foto e ancora e ancora. Capisco che suo padre si sia fatto seppellire lontano da questo teatrino.

Noi eravamo la prima generazione nata qui da matrimoni misti ma ben visti. Matrimoni tra meridionali, nessuno del nord e pace se sposi un napoletano con la pancia o se questa ragazza tutta occhi e ossa è palermitana, pace se ci porti in casa uno di Brindisi. Basta che non sia del nord. Quelli mangiano presto, che ancora c’è luce, mangiano agli orari dell’ospedale. Mangiano aglio, puzzano. Non si può prendere l’ascensore con quello del terzo piano, facciamo finta di guardare nella buca delle lettere finché non sale e poi andiamo a piedi perché resta la puzza. Quelli mangiano cose che non conosciamo. Dicono neh. Non li capiamo quando parlano. Sì, sì, siamo noi qui, è vero, a casa loro, sarà pure così, ma non ci mischiamo. Ognuno per sé, noi a loro non piacciamo e loro a noi non piacciono. A noi tocca stare qui, con il freddo, con la nebbia, con la pioggia. Sai perché ci sono tanti portici? Perché piove e fa un cazzo di freddo, allora questi si sono fatti i portici, così possono camminare per strada lo stesso.

Cosa ti manca di più? Ci andavi al mare? No, ma quale mare. La luce. Il profumo delle arance nel giardino della villa dei miei genitori, le porte sempre aperte, i miei fratelli. Chi è questo? Mio padre. Com’era? Secco secco come un ramo, quando sono nata io lui aveva cinquantasei anni, era nonno, sono nata che già ero zia, mi amava così, che potevo fare quello che volevo. Mia madre no, era severa. Ora tu la vedi così, nel letto, ma la nonna vecchia era un generale, sai, ci teneva tutti a bacchetta. Perché lo tieni qui? Perché la notte lo guardo prima di addormentarmi, gli dico le preghiere, ci penso. Dov’è? Giù. È sepolto giù. E lui chi è? Mio fratello Andrea, il più grande, quando è morto sono quasi impazzita per il dolore. Come si impazzisce per il dolore? Ciascuno a suo modo.  Perché ha questa forma il portafoto? È un albero, come l’albero genealogico, sai cos’è? No. È la famiglia come se fosse un albero, ognuno è il frutto di qualche ramo. Gli spazi vuoti sono per quelli che non sono ancora morti? Sì. Non mi piace, nonna, mi fa pensare a chi è il prossimo. E tu non ci pensare. Come si fa? A fare cosa? A non pensare più una cosa che pensi?

E la mamma del nonno? Ha una pelliccia nella foto? Sì, era una gran dama, lei, sempre curata, suonava il pianoforte ma lo detestava, cucinava benissimo tranne quando nonno aveva le versioni di greco o gli esami al ginnasio, in quei giorni no, scriveva sul taccuino oggi Fanino ha gli esami, non si cucina. Quando è morta? Quando il nonno aveva sedici anni. Perché? Una malattia. E il nonno? Non ne parla. Nemmeno con te? Ogni tanto, poco. Era molto amato da sua madre, poi quando quell’amore non ce l’hai più non ti va di nemmeno di ricordarlo. Suo padre? Ha distrutto tutto quello che riguardava la moglie, ha venduto le proprietà, le case, i terreni, ha licenziato i domestici, ha venduto tutto quando i soldi non valevano più niente invece di comprare e così nonno si è trovato senza niente, un po’ di greco e latino e le buone maniere. Come fanno i soldi a non valere più niente,i soldi sono soldi, valgono sempre. No, a volte non valgono niente. Lui lo vado a trovare al cimitero ma non mi piace perché si chiama come mio zio. Anzi, mio zio si chiama come lui e io non vorrei mai chiamarmi come uno che è morto e sta scritto lì il mio nome, non vorrei leggere il mio nome su una tomba. Penso che a mio zio non sia mai importato. Ha chiamato suo figlio come mio nonno, che poi è morto, così adesso abbiamo più morti, anche noi, anche se non ci andiamo. Forse loro ci vanno, non lo so. Mio zio ha avuto il primo matrimonio misto malvisto. Poi mia nonna ha perso la memoria.

Il mio matrimonio l’ha intuito, quando vedeva Lui storceva un po’ la faccia, lei era la regina delle espressioni facciali, aveva una mimica notevole. Ogni tanto mi ha suggerito di trasferirmi giù. Io ho avuto il secondo matrimonio misto malvisto, a quel punto l’Alzheimer aveva già vinto. L’hanno cremata e non c’è un posto dove andare, l’urna ce l’ha un mio zio, un altro con un’unione mista malvista ma lei ormai non può farci più niente, nemmeno lo sa di essere a casa loro. Non ci andrei, comunque. Dalla mia unione mista ho imparato che qui, al nord, partono delle spedizioni di pie femmine armate di detergenti per sanificare le tombe prima della ricorrenza dei Santi o dei defunti o di quel che è. Giorni prima, vanno a pulire le tombe. Perché, ho chiesto a Lui. Perché non si dica che sono trascurate durante l’anno. Chi lo deve dire? Quelli che vanno per la ricorrenza. Ma sono trascurate durante l’anno? Sì, ma non si deve dire. Non capisco. Non puoi capire. Ma tu capisci? No, non come pensi tu che vadano capite le cose, le capisco perché le so. Le capisci perché le contieni? Forse sì, qualcosa di simile. Non ti fa senso andare da tuo nonno e leggere il tuo nome? No. Gli somigli pure adesso. Trovi? Sì, dalla foto, sì. Stessi occhi, anche la fronte. A me farebbe senso leggere Sonia Laezza su una lapide. Non ci ho mai fatto caso. Forse perché non l’hai conosciuto, tuo nonno. Forse. Comunque sarete pure del nord ma anche voi che usanza del cazzo dare il nome dei nonni, io sono del sud e mi hanno chiamata come hanno voluto e tu sei del nord e ti sei beccato il nome in eredità, strano, tua nonna aveva l’alberello dei morti? No, che orrore. Ma no, io ci giocavo, ogni portafoto pendeva da un ramo, era ovale, tipo un frutto appeso e con i miei cugini capitava di farli dondolare, gli davamo un colpetto con la punta dell’indice, e sapevamo i nomi che non erano i veri nomi, voi usate solo i veri nomi? Quali sono i veri nomi? I nomi veri, io Sonia, mia nonna Maria, mio nonno Stefano. I nomi veri. Sì, certo, che nomi dovevamo usare? Eh, belli, facile così. Noi sapevamo i nomi usati famiglia anche per i morti quando erano vivi, anche per quelli dell’alberello. Una specie di Indovina Chi dei morti. Dai, che macabro. Ma figurati. Nonno Turè, tu dici da Salvatore, no, si chiamava Domenico ma era detto Turè come suo padre, morto quando lui era piccolo. Vabbè, mio nonno Fani o Fanino, ma lui era vivo ai tempi, poi c’era zio Pinè e così via. Un giorno abbiamo dato un colpo più forte ed è caduto l’ovale con la foto del papà di nonna, sul comodino. Abbiamo cercato di riagganciarlo ma abbiamo sbagliato ramo e lei se n’è accorta. Si è arrabbiata? Sì. Dovete lasciare stare mio padre. Ma quello non è tuo padre, è la sua foto, mica è lui. Zitta tu, che sai sempre tutto. Ero io. Parlava a me, ero io la sapientina. E poi? Poi ci ha proibito di giocare con l’alberello e non ci abbiamo più giocato, non ci interessava più e lei se n’è scordata. Stando ai miei calcoli io avevo setto o otto anni e lei cinquantatré o cinquantaquattro, mia madre ventinove o trenta. L’alberello adesso? Non lo so. Non so che fine abbia fatto. Lei ti manca? No. Un po’. Ogni tanto, un po’ più degli altri. Mi manca dirle alcune cose o sentirmele dire ma per il resto no, io sono così, ci ho fatto pace, me lo diceva lei, a volte. Cosa? Che ero sprucida, però con la erre palermitana lo devi pronunciare, e la c suona quasi come una sci. Sprucida, come una del nord, diceva, mica come noi.

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