Siccome io domani devo prendere un aereo penso. Se ho preso i documenti miei e delle ragazze, che in realtà sono sempre nel portafogli, ogni giorno tutti i giorni, quindi è un pensiero inutile.

Se ho preso un numero sufficiente di mutande e calze per tutte e tre. Che siccome vado a Londra magari lì lo trovo pure un posto dove comprarle. Altro pensiero inutile.

Se la valigia supera il peso consentito e mi fanno storie. Che poi basta pagare il sovraprezzo e quindi si risolve pure quello.

Se mio fratello non viene a prenderci perché ha un imprevisto, un contrattempo, un impiccio qualsiasi e io resto lì, con la valigia con il peso giusto, con le ragazze con i documenti e le mutande, ferma al ritiro bagagli a guardare ogni persona che passa sperando di riconoscere lui che mi basta vederlo di spalle per sapere che è lui pure tra mille persone, ma penso che non lo vedrò, non lo riconoscerò, non verrà e noi tre dovremmo cavarcela con le nostre sole forze che si risolvono nella capacità linguistica di Pepe che deve andare in quarta elementare e Cri che deve andare in prima media. Io sono ferma a qualcosa tipo “chen iu ripit bicos ai dont anderstend”. Che poi Londra è piena di italiani, che poi basta chiamare un taxi, che poi anche questo è un pensiero inutile.

Sto generando una serie di pensieri inutili, insomma. Lo sto facendo volutamente.

Siccome io domani devo prendere un aereo.

Nella mia vita di prima quando dovevo prendere un aereo funzionava così: salivo, cercavo il mio posto, flirtavo con lo steward, leggevo,scendevo, aspettavo il bagaglio.

Un attimo prima di salire chiamavo Mara per dirle che le volevo bene, solo questo. Un piccolo gesto scaramantico.

Nei primi anni di vita delle ragazze io e mio marito facevamo un viaggio all’anno da soli. Salivo su quell’aereo con un misto di senso di colpa e voglia di fuggire. Loro erano due. Piccole. Io ero una. Sfinita. Loro erano un richiamo incessante, erano un fare continuo , un fare faticoso. E quel viaggio all’anno lo aspettavo, lo sognavo, mi sentivo una merda ma lo volevo, salivo cercavo il mio posto, leggevo, non distinguevo uno steward da una hostess, dormivo, scendevo, aspettavo il bagaglio.

Poi è arrivata la vita di dopo. Non so come. Loro erano sempre due ma meno piccole, io ero sempre una ma più allenata. Il fare è diventato non solo un fare per loro ma un far fare a loro, è un altro tipo di fatica. Nella vita di dopo che è la vita di ora non voglio scappare dalle ragazze. Ci sto bene, è una vita che adesso è della mia taglia, non stringe, non è larga.

È molto bello. Ci ho guadagnato una grande consapevolezza e qualche conferma. Ci ho guadagnato la capacità di fare un passo indietro per mettere meglio a fuoco, per vedere le cose diversamente. Ci ho guadagnato la fondamentale a sicurezza che il mio tempo è limitato e perciò prezioso e che il pensiero di molti tendenzialmente non mi interessa, soprattutto quando riguarda me. Al contrario, ci ho guadagnato la capacità di riconoscere quelli il cui pensiero mi interessa, soprattutto se non riguarda me. A naso, a intuito, di pancia. Tu si, tu no. Va bene così.

Ma ci ho perso la spensieratezza. Ci ho perso il piccolo gesto scaramantico. Ci ho perso la fatalità, l’aria di chi non ha niente da perdere, la testa di chi tanto capita agli altri. Ed ecco che mentre perdevo tutto questo e guadagnavo tutto quello si è aperta una crepa come una cesura tra il prima e il dopo, una piccola, sottile, lunga, bastardissima crepa attraverso la quale si è infiltrata la paura.

Siccome io domani devo prendere un aereo, ho paura.

Una dottoressa gentile e bella mi ha detto, infilandomi dei magneti nelle orecchie per una seduta di auricoloterapia finalizzata a resettare i miei foglietti embrionali di modo che il cervello non si ricordasse di avere paura o qualcosa del genere, comunque, mi ha detto che si tratta solo, solo, di paura di perdere il controllo. Ah, ecco, ho pensato. Ma anche quello era un pensiero inutile, perché non ho mai avuto il controllo di un aereo quindi no, non penso, non mi sembra. È paura. Paura di morire, paura di soffrire, paura di perdere tutto, paura di non essere. Comunque i miei foglietti embrionali sono tosti, sono più cartoni, di quelli da pacchi che il corriere li sbatte sul furgone senza cura, non c’è scritto fragile. Proverò con altro.

Intanto provo a distrarmi con pensieri inutili, poi domani andrà così, che arriveremo con largo anticipo, imbarcheremo i bagagli che saranno del peso corretto, le ragazze avranno i documenti, avranno fame, avranno sete, passeranno sotto il metal detector senza problemi, con me suonerà, dovrò togliere le scarpe, loro rideranno, poi andremo verso il gate, loro avranno fame, avranno sete, apriranno l’imbarco, non capirò una parola, loro rideranno, controllerò di aver spento il cellulare almeno dodici volte, e metterò la borsa sotto il sedile davanti. Farò la rilassata con loro, che rideranno perché lo sanno che non è vero. Dirò a Pepe di  tenermi per mano durante il decollo.

Poi penserò. Pensieri seri, robe importanti, robe definitive sulla vita. Capirò qualche verità. Mi verrà da piangere, non piangerò. Atterreremo. Senza applauso, non è un optional cazzo.

Diego sarà al ritiro bagagli, con i suoi occhi grandi spalancati e le ragazze correranno urlando zio, zio, zio. Accenderò il cellulare. Arrivata tutto ok.

Però, siccome io domani devo prendere un aereo, Marè, ti voglio bene.

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